Il tentativo spietato e non necessariamente rispettoso di provare a comprendere le ragioni di chi diserta le urne partendo dallo studio di tre categorie di individui, più una
di Andrea Femia, digital strategist cB
Il tentativo spietato e non necessariamente rispettoso di provare a comprendere le ragioni di chi diserta le urne deve partire necessariamente dal lunedì post voto, l’unico giorno i cui le prime pagine dei giornali sono piene di dati relativi all’affluenza.
In fondo quando ci si trova a parlare con persone che provano a convincerti della bonarietà dell’azione del non voto, o anche soltanto quando si leggono le loro opinioni, è chiaro che per una fetta grande di persone disertare le urne sia proprio una scelta mirata. Esistono alcuni motivi che vanno analizzati e sono riferibili ad alcuni fenotipi base. Ne analizziamo tre. Più uno. C’è infatti un’altra fetta di persone che analizzeremo più giù.
Il primo tra tutti è colui che si muove sull’illusione di contare qualcosa, tanti più si è. E appunto, in tanti più si è a non votare, maggiore sarà la necessaria presa di coscienza che chi governa non rappresenta davvero quelle percentuali di cui si vanta. Ma davvero è mai interessato a qualcuno, escluso il lunedì post elettorale – tra l’altro solo agli sconfitti – quanto il 40% di una coalizione in realtà andrebbe ricalcolato sulla base del dato reale degli aventi diritto al voto? Si poteva capire quando l’astensione come arma di dissenso non era così tanto praticata, ma ora che ci sono state anche tornate segnate da affluenza abbondantemente inferiore al 50%, esattamente quale altra lezione serve al non votante per capire che il suo è un gesto perfettamente inutile se il suo obiettivo è quello di delegittimare il risultato finale delle elezioni, quale che questo sia?
Il secondo fenotipo è colui che ti spiega con una certa sicumera che non esistono candidati adeguati a rappresentare una così alta figura umana come quella di colui che sceglie di non votare. Questa è una rivista di sinistra, e non ci facciamo troppi problemi a dire che speriamo vinca Michele De Pascale. Quindi useremo la sua coalizione come esempio ma potremmo serenamente optare per quella guidata da Ugolini, che il concetto sarebbe uguale. Si potrebbe anche andare ancora più altrove, lì dove le possibilità di vittoria non esistono nemmeno. Ma stiamo al centrosinistra.
Personalmente ho deciso di dare la mia preferenza a Isabella Conti e Maurizio Fabbri, che hanno un passato pluriennale di amministratori che francamente fai anche fatica a dire che non abbiano fatto bene. Ma ipotizziamo, caro non votante, che non ti piacciano, perché ci sta. Ci sono altri nove candidati solo se vuoi stare nel Pd. Ognuno con la sua storia, con la sua area di riferimento, con le sue alleanze più o meno dichiarate.
Non ti piace il Pd? Ma santa miseria, ci mancherebbe altro, odiare il Pd è lo sport nazionale più praticato dai maggiorenni italiani. E quindi stando in coalizione, Avs, tanto per dire, candida un profilo validissimo come quello di Simona Larghetti che ha passato i primi anni dell’amministrazione qui a Bologna a farsi un mazzo così per le politiche sulla mobilità. Non ti sta bene neanche lei? Ci sono altri dieci profili anche lì. Preferivi qualcosa di più distante dai partiti? C’è una lista civica che candida, per esempio, Giovanni Gordini che ha passato una vita a difendere il servizio sanitario nazionale. E vabbè inutile che mi ripeta, anche lì ci sono altre dieci persone candidate.
Ci sono in totale, nella coalizione di centrosinistra, cinquantaquattro persone candidate distribuite tra cinque liste diverse. Cioè non so se questo numero suona come dovrebbe. Cinquantaquattro. Diventano sessantacinque persone se vi sentite di sinistra ma non immaginate di essere rappresentati da qualcuno che ambisca a vincere. Voi vi rendete conto da soli, lo dico con affetto, che se una persona non trova una singola candidatura che possa anche solo vagamente essere rappresentativa, su sessantacinque individui, probabilmente siamo di fronte a un profilo potenzialmente patologico. Con ironia eh, ma fino a un certo punto.
Se fino a ora ci siamo concentrati sui militanti, vanno anche considerati i non votanti indifferenti. Sono quelli che a stento sanno che si vota, che ritengono che le informazioni siano sempre carenti, anche nel 2024 quando praticamente i politici hanno liste broadcast con cui arrivano direttamente al tuo numero di telefono. Mancherebbero le informazioni nell’epoca dei social, e francamente da operatore del settore mi risulta inimmaginabile anche solo ipotizzare cosa debba essere il feed di un adulto che non ha ricevuto la notizia che si vota, fosse solo per la story di uno dei centinaia di amici che lo ricorda con la fotina della tessera elettorale. Questi stessi individui normalmente assumono anche posizioni intermedie del tipo «ah dai, magari se ho tempo e mi ricordo ci vado». Se hai tempo. Se ti ricordi. Ma quando parli ci pensi?
L’ultima categoria è l’unica giustificata. Chi vive a centinaia di chilometri dal luogo della sua residenza e nel 2024 non può permettersi di votare senza spendere un quantitativo sempre maggiore di soldi e di tempo. Ho visto persone scendere in Umbria con i treni, organizzarsi è un delirio, gli sconti elettorali oramai sono una pagliacciata che parte da tariffari senza senso, i ritardi – signora mia – aumentano in modo imbarazzante. Non dovrebbe essere tollerabile, a maggior ragione dopo la sperimentazione delle europee, scegliere tra i soldi, il tempo e il diritto al voto.
Per tutti gli altri, vi auguro un buon lunedì degli affluencer. Arrivederci tra qualche anno.
Photo credits: Ansa.it
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