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Mettiamola così. Un’impresa produce una pasta di alta qualità. Il mercato la premia. Anche perché negli ultimi tempi è riuscita a stare sul mercato nonostante l’esplosione dei costi di energia e materie prime. Ma che cosa diremmo di questa rinomata azienda, orgogliosa della sua storia e del suo legame con il territorio, emblema del made in Italy, se si scoprisse che non paga di fatto il grano, in questo caso duro, che acquista dagli agricoltori, affamandoli? La scelta del grano per questa metafora non è casuale perché nella storia è stato anche un mezzo di pagamento, oltre a rimanere, nell’immaginario collettivo, un sinonimo popolare di moneta.
Ora al posto dell’azienda che produce pasta supponiamo che vi sia una banca. Il momento di mercato è favorevole grazie alla differenza tra tassi attivi (sui prestiti) e passivi (sui depositi). Uno spread di 325 punti, ai massimi degli ultimi sedici anni. I profitti non sono mai stati così elevati. E, di conseguenza, si fanno felici gli azionisti, anche se le quotazioni sono ancora una porzione del valore di libro. I dirigenti adeguano abbondantemente all’inflazione i loro stipendi.

Risparmiatori e cittadini

Al congresso della Fabi, il maggior sindacato dei bancari, capita che l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, non si sottragga — visti gli utili straordinari del primo trimestre del suo gruppo — alla richiesta di un robusto aggiornamento delle buste paga dei dipendenti. Il sindacato chiede 435 euro al mese in più nel triennio contrattuale. Ma perché, allora, non si devono remunerare i conti correnti che, in definitiva, sono la materia prima dell’attività bancaria? L’Abi, l’Associazione che riunisce tutte le banche, nel suo bollettino di giugno, scrive che il tasso medio praticato sui soli depositi in conto corrente è dello 0,32 per cento (0,02 un anno prima). Comunque, una miseria. Ma c’è chi è anche a zero. E non solo alle Poste. «La campana suona solo per le banche e non per la clientela — è scritto in un documento della Fabi —. Si allarga sempre di più la forbice tra l’andamento dei tassi d’interesse applicati ai prestiti e ai mutui e quelli su depositi e conti». Gli interessi sui nuovi mutui sono saliti a maggio al 4,24 per cento. I risparmiatori purtroppo contano come il due di briscola. Ma, attenzione, sono cittadini. E deluderli è la peggior campagna di delegittimazione del sistema economico e dell’assetto istituzionale che mai si possa fare, specie in un Paese fortemente indebitato in cui il risparmio è l’ultima vera ricchezza. I contraccolpi rischiano di vedersi su altri fronti del malessere sociale. Le famiglie meno abbienti non riescono a fare i conti con l’inflazione che falcidia il valore reale dei loro conti correnti, mentre sopportano una crescita elevata del costo dei mutui. Non hanno una cultura dell’inflazione. Il Tesoro è costretto, dopo la fine degli acquisti di titoli di Stato da parte della Banca centrale europea, a rivolgersi alla clientela cosiddetta retail, cioè direttamente al pubblico. Come avveniva nel secolo scorso. Promette strumenti per difendere individui e famiglie dall’inflazione. Ma non è così sempre e completamente (il Btp Futura ne è una prova). Negli anni Ottanta i rendimenti reali dei titoli di Stato erano positivi. Il sottoscrittore, rispetto all’inflazione, ci guadagnava. Oggi no. Se alle spalle dei risparmiatori vi fosse la Coldiretti, avremmo già i trattori per le strade. Se li rappresentasse la Fabi, il ripristino di migliori condizioni sarebbe già avvenuto.

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Il potere negoziale

Il risparmio popolare non ha alcun potere negoziale con gli istituti di credito. Il piccolo risparmiatore, che ha qualche migliaio di euro sul conto corrente, non è nelle condizioni di riservare una somma significativa ad altri impieghi. Alle offerte di depositi vincolati per esempio. Nel maggio scorso il tasso praticato sui nuovi depositi a durata prestabilita era salito al 3,21 per cento. L’effetto negativo dell’inflazione (che morde di più ai redditi inferiori) il piccolo risparmiatore o correntista se lo prende tutto. Disarmato. «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme», è scritto all’articolo 47 della Costituzione. Non discrimina a favore di chi ha di più o sa di più. Ed è inutile che si dia la colpa alla pigrizia o alla scarsa preparazione finanziaria delle famiglie italiane per giustificare il fatto che lascino sui conti correnti 1.633 miliardi a fine 2022, un terzo della ricchezza finanziaria complessiva, peraltro in discesa per finanziare consumi, mutui e spese. Nell’ultimo bollettino dell’Abi si spiega che «il conto corrente permette di utilizzare una moltitudine di servizi e non ha funzione di investimento». Il risparmiatore è avvisato. Ma anche consigliato, accompagnato, istruito? Qualche dubbio ci assale. In realtà è in atto, complice l’inflazione, un massiccio e silenzioso trasferimento di ricchezza. Le banche godono in questo Paese di troppa buona stampa. L’amministratore delegato di Unicredit Andrea Orcel, in occasione del 145 esimo anniversario de Il Messaggero ha sostenuto: «Bisogna vederla in un’altra maniera: se guardiamo il deposito medio di una famiglia italiana in Unicredit è sotto i 15 mila euro. Quindi normalmente il deposito è visto come un qualcosa che aiuta a far fronte a tutti i pagamenti che arrivano sulla famiglia». Siamo sicuri che i correntisti la pensino tutti così? Il taglio del cuneo Anche poche decine di euro l’anno di interessi, pur con una tassazione al 26 per cento, rappresentano comunque un vantaggio tangibile, soprattutto per le famiglie non abbienti, percentualmente significativo e, in alcuni casi, superiore all’effetto del taglio del cuneo fiscale e contributivo di cui si è ampiamente discusso a livello di pubblica opinione. In questo momento storico, il risparmiatore è il cittadino meno tutelato. Offre la propria materia prima a tassi irrisori se non nulli. Il Tesoro lo blandisce con prodotti che comunque, a differenza del passato, non lo tutelano da tutta l’inflazione e se si rivolge al risparmio gestito scopre di pagare commissioni più elevate di altri Paesi. Silenzio e disciplina in questo caso non sono espressione di pazienza e virtù.

 

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