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Nel mondo le Zone economiche speciali sono aree ben definite e localizzate, tipicamente vicine a infrastrutture strategiche come un porto, che assegnano alle imprese vantaggi economici e burocratici e che si danno una vocazione specifica. L’obiettivo è quello di creare veri e propri ecosistemi industriali capaci di generare innovazione, produttività e competitività. Nell’Unione europea, per le regole sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato, è possibile istituire solo Zes a determinate condizioni: massima libertà sulle semplificazioni burocratiche, ma sulle agevolazioni fiscali occorre restare nei limiti della cosiddetta “Carta degli aiuti a finalità regionale”, cioè un tetto massimo di agevolazioni fiscali consentite nelle diverse Regioni, un tetto più alto nelle Regioni meno sviluppate.

Le risorse dal Pnrr

In Italia le Zes per il Mezzogiorno sono state volute anni fa durante il governo Gentiloni dall’allora ministro Claudio De Vincenti. Dopo una partenza zoppicante, con il governo Draghi e soprattutto con il ministro Mara Carfagna hanno trovato slancio, al punto che il Pnrr vi ha dedicato risorse (630 milioni per la loro infrastrutturazione) e una delle sue cosiddette “riforme abilitanti”. Le 8 Zes presenti nelle regioni meridionali, ognuna legata funzionalmente a un porto, avevano iniziato finalmente a funzionare: in ognuna di esse un commissario (nominato congiuntamente da governo e presidente di Regione) rilasciava le autorizzazioni uniche alle imprese intenzionate a investire, incentivate peraltro da un robusto credito d’imposta. Non erano tutte rose e fiori: alcune Zes funzionavano meglio di altre e la ricerca di vocazioni specifiche era ancora in corso, ma nel complesso il sistema stava mostrando i suoi frutti e dava l’idea di rappresentare finalmente un modello positivo di sviluppo del Mezzogiorno.

Il grande bluff

Poi è arrivato Raffaele Fitto e ha pensato di trasformare l’intero Mezzogiorno in una grande Zes. Forse Fitto cercava un contraltare retorico dell’autonomia differenziata. Fatto sta che lo slogan della “Zes unica” è apparso un vessillo buono da sbandierare. Ben presto, però, si è rivelato un enorme bluff. Anzitutto i commissari locali sono stati sostituiti da un baraccone romano che ha peggiorato l’iter burocratico di autorizzazione degli investimenti delle imprese. Poi la diluizione delle risorse del credito d’imposta Zes sull’intero territorio del Sud ha trasformato l’incentivo in una manciata di briciole. Il bluff si è scoperto mercoledì, quando il direttore dell’Agenzia delle entrate Ernesto Maria Ruffini ha svelato i numeri: la percentuale di credito di imposta effettivamente fruibile è del 17,66% dell’investimento. Nella foga di regalare a tutto il Sud lo status di Zes, il governo Meloni ha dimenticato di stanziare risorse adeguate. D’altro canto, se pure si trovasse la giusta copertura (non si sa dove, viste le condizioni difficili di finanza pubblica) ci sarebbe un piccolo particolare: la disciplina Ue vieta una detassazione generalizzata per tutto il territorio del Sud. Fitto dovrebbe ormai averlo imparato, visto che – come i suoi predecessori – è costretto a negoziare con sempre più difficoltà le proroghe della decontribuzione Sud, che prima o poi finirà.

Accanto alle questioni di cassa, c’è poi il tema che citavamo in premessa: le Zes funzionano nel mondo perché sono piccoli territori definiti che fanno della concentrazione e della specializzazione un fattore di competizione internazionale. Se non sono questo, non sono nulla. E infatti la Zes unica di Meloni e Fitto è il nulla.

 

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