La sentenza dichiarativa di fallimento è condizione di punibilità ai sensi dell’art. 44 codice penale.
E’ quanto ha stabilito la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza del 22 marzo 2017, n. 13910.
La pronuncia in commento si pone in contrasto con il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale la sentenza dichiarativa di fallimento rientrerebbe tra gli elementi integranti la fattispecie di reato. Come affermato, infatti, dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 2 del 25 gennaio 1958 “a differenza delle condizioni obiettive di reato, che presuppongono un reato già strutturalmente perfetto, la sentenza dichiarativa di fallimento costituisce una condizione di esistenza del reato o, per meglio dire, un elemento al cui concorso è collegata l’esistenza del reato, relativamente a quei fatti commissivi od omissivi anteriori alla sua pronuncia” (più recentemente Cass. pen., Sez. Un., 26 febbraio 2009, n. 24468).
Come evidenziato dagli ermellini, la qualificazione della sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo improprio esprime il tentativo di risolvere, attraverso un’agevole ricostruzione del momento consumativo del reato, una serie di problemi processuali, come quello della individuazione del locus commissi delicti o della competenza territoriale, ma tradisce la difficoltà di giustificare l’irrilevanza dell’accertamento del nesso causale e psicologico tra la condotta dell’agente e la dichiarazione di fallimento e soprattutto di spiegarne la compatibilità con i principi cardine in tema di personalità della responsabilità penale; il fallimento, in sé per sé, non costituisce oggetto di rimprovero per l’agente nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale.
La dichiarazione di fallimento non aggrava in alcun modo l’offesa che i creditori soffrono per effetto della insolvenza dell’imprenditore, ma, anzi, ne garantisce una maggiore protezione; l’aggravamento degli effetti dell’offesa, sempre secondo i giudici, può derivare dall’insolvenza, ovvero dalla incapacità per l’imprenditore di adempiere alle proprie obbligazioni ma una cosa è la situazione di insolvenza e altro è la dichiarazione di fallimento che potrebbe anche non seguire alla prima.
La dichiarazione di fallimento, quindi, in quanto evento estraneo all’offesa tipica e alla sfera volitiva dell’agente, rappresenta una condizione estrinseca di punibilità, che restringe l’area del penalmente rilevante, imponendo la sanzione penale solo in quei casi in cui alle condotte debitorie, già di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua la dichiarazione di fallimento, in ossequio ai principi già espressi dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 247 del 16 maggio 1989.
Ma soprattutto, rispetto alla qualificazione giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento come condizione di punibilità, va considerata la sentenza delle Sezioni Unite n. 22474 del 31 marzo 2016, la quale ha affermato come la condotta della bancarotta si perfezioni con la distrazione, mentre la punibilità della stessa è subordinata alla dichiarazione di fallimento, che, ovviamente, consistendo in una pronuncia giudiziaria, si pone come elemento successivo e comunque esterno alla condotta stessa.
Sul tema si segnala:
(Altalex, 9 maggio 2017. Nota di Simone Marani)
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