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Art. 2083. Piccoli imprenditori.
Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.

Il tema del FALLIMENTO e delle diverse categorie di soggetti che possono essere coinvolti sono stati ampiamente analizzati dall’Avv. Federico Canazza che ha pubblicato un ampio approfondimento su In Pratica Legale Fallimento, l’innovativa soluzione professionale di Leggi d’Italia che consente di accedere, in modo semplice e veloce, a tutti i contenuti operativi delle banche dati In Pratica. Provala subito!

Di seguito pubblichiamo un approfondimento sul piccolo imprenditore.

La versione “originaria” della legge fallimentare (r.d. 16.3.1942, n. 267), nel sancire l’assoggettabilità alle disposizioni sul fallimento, concordato preventivo ed amministrazione straordinaria degli imprenditori che esercitavano un’attività commerciale, escludeva espressamente enti pubblici e piccoli imprenditori tra i quali, in nessun caso, sarebbero potute rientrare le società commerciali.

Soppressi i criteri dettati dal Legislatore nell’ambito della disciplina fallimentare, l’unica fonte normativa cui pareva possibile fare riferimento era rappresentata dall’art. 2083 c.c., il quale identificava la nozione di “piccolo imprenditore” in “coltivatori diretti del fondo“, “artigiani” e “piccoli commercianti” e “coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia“.

Con l’emanazione del D.Lgs. 9.1.2006, n. 5, il Legislatore è intervenuto:

(i) sopprimendo ogni riferimento alla procedura di amministrazione controllata;

(ii) ponendo sullo stesso piano imprenditori individuali e collettivi, che, qualora operanti al di sotto delle soglie dimensionali dettate dal secondo comma dell’art. 1, sarebbero stati esonerati dal;

(iii) ridefinendo l’ambito soggettivo di applicazione dell’istituto fallimentare.

Il legislatore ha così escluso che potessero ritenersi “piccoli imprenditori” coloro i quali, nell’esercizio della propria attività commerciale, avessero, alternativamente, (a) effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore ad euro 300.000,00 e (b) realizzato, in qualunque modo, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore ad euro 200.000,00.

Nonostante la nuova struttura della norma, a dimostrazione – in un certo senso – del “peso” che nel corso degli anni aveva assunto la nozione di “piccolo imprenditore”, contenuta nell’art. 2083 c.c., emerse tra i giudici di prime cure il dubbio se residuasse un qualche ambito operativo di tale nozione ai fini della determinazione dei soggetti fallibili.

Alla luce delle difficoltà interpretative emerse, il Legislatore è dovuto nuovamente intervenire con le misure correttive contenute nel D.Lgs. 12.9.2007, n. 169:

  • ha abbandonato il ricorso alla nozione di “piccolo imprenditore”,
  • ha focalizzato il regime delle esenzioni dal fallimento su parametri meramente dimensionali – riferiti all’attivo patrimoniale, ai ricavi lordi ed all’indebitamento,
  • ha assoggettato a fallimento chi esercita sic et simpliciter un’attività commerciale che lo posizioni al di sopra delle soglie stabilite, sempre che sussista il requisito oggettivo dello stato di insolvenza dettato dall’art. 5 e che, conformemente al disposto dell’art. 15, esistano debiti scaduti e non pagati per un ammontare pari o superiore ad euro 30.000,00.

La norma così riformata ha comportato l’esclusione di qualsivoglia riferimento e/o rimando alla nozione di “piccolo imprenditore”, con il conseguente superamento di ogni questione – di carattere sistematico-interpretativo – riferita al rapporto tra la norma fallimentare e l’art. 2083 c.c., disegnando, invece, una fattispecie caratterizzata da parametri soggettivi di tipo quantitativo, ossia:

a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;

b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;

c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.

Al fine di evitare che i parametri dimensionali indicati al secondo comma dell’art. 1 l. fall. possano, col tempo, divenire inadeguati, il Legislatore ha espressamente delegato il Ministro della Giustizia ad aggiornarli, con cadenza triennale, “sulla base della media delle variazioni degli indici ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati intervenute nel periodo di riferimento”.

Il Legislatore, sul punto, ha optato per una ripartizione dell’onus probandi nell’ambito del procedimento prefallimentare conforme al principio dettato dall’art. 2697 c.c. e, quindi, ritenendo applicabile il criterio “dispositivo”, il quale conduce ad affermare che grava sull’istante l’onere di provare i fatti costitutivi della sua pretesa, mentre sul debitore cade l’onere di provare i fatti impeditivi e, pertanto, – in concreto – la sussistenza dei requisiti dimensionali che gli consentano di rientrare nella c.d. “no-failure zone”.

Tale conclusione appare del tutto coerente con la struttura dell’art. 1, il quale, al c. 1, delinea l’area dei soggetti fallibili, mentre, al secondo comma, prevede l’esenzione dal fallimento per quegli imprenditori che siano in grado di fornire la prova concreta del mancato superamento dei limiti quantitativi previsti dalla disposizione stessa.

Nei giudizi per la dichiarazione di fallimento incombe sul debitore l’onere di provare di essere un piccolo imprenditore, fatta salva “qualunque iniziativa ufficiosa” del Tribunale fallimentare ai fini dell’accertamento della reale dimensione dell’impresa.

Nel caso, poi, il debitore ometta qualsiasi difesa, non procedendo al deposito della documentazione contabile e, con ciò, mancando integralmente di adempiere al proprio onere probatorio, il Tribunale, in assenza di elementi dai quali far procedere una qualche indagine, non potrà che pronunciare la dichiarazione di fallimento.

(Altalex, 30 luglio 2018)

 

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