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Una delle misure contenute nella Legge di bilancio riporta al centro del dibattito pubblico il tema della tassazione sul tabacco, il cui prezzo dovrebbe salire nel 2023. Tra le ragioni che lo motiverebbero c’è anche la lotta al fumo. Ma aumentare il prezzo di sigarette e tabacco funziona davvero? A upday le risposte di Mauro Saletti, fondatore del Centro italiano antifumo.

A partire dal primo gennaio 2023 i fumatori potrebbero dover fare i conti con un aumento di prezzo di sigarette e tabacco trinciato. A stabilirlo è una delle misure contenute nella Legge di bilancio, approvata alla Camera il 24 dicembre (il testo verrà esaminato al Senato dal 27), che ripropone il tema della tassazione delle sigarette. Nonostante l’aumento previsto, molti medici ed esperti vedono nella misura un’occasione sprecata, perché insufficiente nel disincentivare davvero la dipendenza dal fumo.

I punti deboli della Manovra

Il problema nella legge di bilancio non starebbe nel principio ma nella sostanza. Secondo un sondaggio del 2019, promosso da Fondazione Umberto Veronesi e realizzato da AstraRicerche, aumentare il prezzo del tabacco farebbe automaticamente diminuire il numero dei fumatori. Ed è di fatto ciò che la Manovra dovrebbe fare andando a incrementare la cosiddetta accisa “specifica”, che in Italia è fra le più basse in Europa, da 23 a 28 euro per 1.000 sigarette nel 2023, a 28,20 euro per 1.000 sigarette nel 2024 e a 28,70 euro per 1.000 sigarette a partire dal 2025. Ovvero un aumento di 10-12 centesimi (contro i 15-30 ipotizzati nella prima versione della Manovra). Anche per il tabacco venduto sfuso, in pacchetti da 30 grammi, l’accisa minima specifica per il prodotto toccherà i 140 euro il chilogrammo. E questo potrebbe determinare un incremento di 40 centesimi per le sigarette rollate. Ma perché tutto questo non basta?

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“Qualsiasi aumento del costo del tabacco produce un effetto sul consumatore, ma per creare un vero deterrente al tabacco il costo dovrebbe salire di molto”. Mauro Saletti, fondatore del Centro Italiano Antifumo spiega a upday come, pur apprezzabile, l’aumento deciso dal governo di Giorgia Meloni non sia abbastanza se lo scopo è la riduzione del numero di fumatori. “Quando il consumatore”, prosegue l’esperto, “si trova davanti a una maggiorazione di prezzo vive un momento di consapevolezza: è come se si ricordasse che fuma e che spende, magari da anni, i suoi soldi in sigarette e tabacco. A volte questo, soprattutto in chi aveva già intenzione di smettere, può dare quella spinta necessaria per provarci davvero. Ma non è la norma: non bastano 10 centesimi in più a contrastare la dipendenza dal tabacco”.

Perché 10 centesimi in più non bastano

A essere determinante per spezzare la dipendenza dal fumo non è tanto l’aumento in sé quanto la sua misura. “Con un incremento di prezzo maggiore”, spiega Saletti, “si avrebbe un impatto diverso”. Lo confermano anche diversi studi: ad esempio, sempre secondo la ricerca di Fondazione Veronesi, davanti a un aumento di prezzo del 50%, un pacchetto costerebbe non più 5 ma circa 7,50 euro, il 31,7% dei giovani smetterebbe di fumare e la percentuale dei pronti a rinunciare a tabacco e sigarette crescerebbe fino al 57,2% se l’aumento fosse del 100% (ovvero con prezzi sui 10 euro a pacchetto di sigarette).

Come disincentivare davvero il fumo

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“Per convincere le persone a smettere di fumare le campagne di sensibilizzazione di informazione sono la strada più efficace. Per fare un esempio, la misura del 2021 con cui il Comune di Milano estendeva il divieto di fumo a molti spazi all’aperto ha avuto un forte impatto”. Gli oltre 20 anni di attività nel Centro Italiano Antifumo hanno convinto Saletti di una cosa: l’informazione e la sensibilizzazione funzionano di più dei giudizi morali. “Quando il Comune di Milano introdusse quel divieto”, prosegue l’esperto, “abbiamo registrato un boom di chiamate da parte dei tanti fumatori che oltre a sentirsi marginalizzati hanno ripreso consapevolezza di avere a tutti gli effetti una dipendenza da cui volevano liberarsi”.

Anche parlare di salute sembrerebbe produrre buoni risultati, “come ha dimostrato il coronavirus. Nel periodo centrale della pandemia”, spiega Saletti, “le richieste d’aiuto arrivate al nostro centro sono aumentate anche del 40% perché la consapevolezza sul virus e sul legame con il fumo ha contribuito ha avuto un ruolo decisivo”.

Il paradosso delle sigarette elettroniche (e non solo)

La Legge di bilancio presenta un altro problema: non tratta allo stesso modo tutti i prodotti da svapo e da fumo, sottoponendo a una tassazione diversa le sigarette elettroniche con nicotina e i prodotti a tabacco riscaldato. Per quanto riguarda le prime, l’imposta di consumo nel 2023 passerà dal 25% previsto al 15%, mentre per quanto riguarda i tabacchi da inalazione senza combustione sono state proposte modifiche ancora più significative.

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Gli aumenti previsti, ovvero l’accisa al 35% che sarebbe dovuta diventare effettiva a partire dal primo gennaio 2022 e poi aumentata al 40% a inizio 2023 , dovrebbero venir spalmati nei prossimi quattro anni: al 36,5% dal primo gennaio 2023, al 38% dal primo gennaio 2024, al 39,5% dal primo gennaio 2025 e al 41% dal primo gennaio 2026. “È un paradosso e un controsenso: si tratta di prodotti – aggiunge Saletti – che contengono nicotina e che creano a tutti gli effetti una dipendenza, tant’è che spesso si rivolgono a noi anche persone che fumano solo sigarette elettroniche o sigarette senza combustione”.

 

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