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Siamo tutti in attesa della conversione in legge del cosiddetto “Decreto Salva-Casa”.

Per stemperare l’ansia del momento l’Autore si concede un momento di riflessione sul ruolo di questo strumento giuridico che, concepito per eventi eccezionali e urgenti, sta invece diventando una metodica usuale di formazione del quadro legislativo.

Un bene o un male?

Intanto esaminiamone in modo asettico gli effetti reali e concreti.


La finalità

Nel nostro ordinamento il decreto-legge è una forma di legislazione d’urgenza prevista per i casi in cui la necessità della normazione di un certo aspetto non possa attendere i tempi delle normali procedure di formazione delle leggi e quindi consente al governo di assumere il ruolo di “Legislatore”.

Con effetti però temporanei.

La formula è logica e condivisibile ma è da usarsi con cautela e, soprattutto, solo laddove esistano effettivamente situazioni di eccezionale cogenza.

Nella materia edilizia – che a prima vista non parrebbe di per sé ricoprire gli estremi dell’urgenza (almeno in via normale) e invece più incline ad essere ben ponderata e condivisa – la metodica della decretazione d’urgenza ha assunto spesso il carattere della normalità.

 

L’uso e l’abuso

E questo non tanto per motivi di impellenza, quanto per la difficoltà di trovare unanimi consensi parlamentari preliminari che portino ad un testo legislativo condiviso.

Il che, da un lato, può anche essere motivo d’orgoglio per i tecnici del settore perché attesta la complessità della materia, ma, dall’altro, è una sorta di condanna mitologica (assimilabile alle fatiche di Sisifo).

A dire il vero se si trattasse solo di “complessità tecnica” della materia lo strumento giuridico adeguato sarebbe (anzi è) quello del decreto legislativo in cui il governo assume sì il ruolo del legislatore ma su delega del Parlamento (che, come ben si comprende, è cosa assai diversa: non è un’invasione di campo, ma l’esercizio di un potere conferito dal titolare su materia specialistica e tecnica complessa.

L’uso della decretazione d’urgenza in edilizia è dunque un escamotage per dribblare le procedure parlamentari e ad essa si è ricorsi spesso anche in passato su aspetti controversi in cui era difficile trovare condivisione a priori: si pensi alle norme in materia di indennità espropriativa o di semplificazione …. forzatamente e incongruamente inserite in leggi finanziarie (anch’esse motivatamente assunte per decreto-legge) per utilizzare la scorciatoia della votazione in blocco “per fiducia”.

 

Un vezzo antico

Non saremo noi a sindacare il metodo (legittimo nella forma e rispondente al principio “il fine giustifica i mezzi” di Macchiavellica memoria), ma qualche considerazione bisogna pur farla visto che sta diventando il metodo normale (e non eccezionale) di legiferare in materia edilizia (e urbanistica).

Lungi anche qui da apprezzamenti di valore: l’uso smodato (anzi l’abuso) del decreto-legge è stato praticato anche in passato. Basterà ricordare che negli anni ottanta i “decreti-legge Nicolazzi” (dal nome del ministro che li proponeva guarda caso in materia di “semplificazione” !) furono emanati, poi decaduti, ri-emanti, poi ri-decaduti più volte (se non ricordo male 14 volte con modeste e irrilevanti modifiche solo per salvare la forma della non esatta riproposizione) determinando scalpore, confusione applicativa e sconcerto.

Il “trucco” si è poi ripetuto anche successivamente, tanto che lo stesso Giudice Costituzionale
(a metà degli anni novanta) è intervenuto per stigmatizzare e inibire (pur con qualche cautela) questo comportamento.

Scevri da considerazioni di etica vorremmo sottoporre all’attenzione un aspetto
(per così dire) evolutivo dell’uso del decreto-legge. Che comunque sta nei fatti.

Poi ognuno valuterà se si tratta di stravolgimento, travisamento o effettiva utilità del metodo.

 

Un chiarimento sulla forma che è sostanza

Intanto un’osservazione sul lessico, perché se vogliamo commentare sul ruolo
dobbiamo non essere equivoci sul contenuto.

Ormai abitualmente i decreti-legge (nella comunicazione divulgativa) vengono chiamati semplicemente “decreti” con ciò stravolgendone la veste e il ruolo.

I decreti-legge
sono provvedimenti di legge (ancorché temporanei e soggetti a decadenza come i prodotti alimentari); i decreti sono atti amministrativi che non decadono.

Dunque diversa è la “forza” (alias: la gerarchia), diversa è la durata.

Lo scambio lessicale non rende giustizia alla realtà e in un periodo in cui si va sempre di corsa e in un Paese in cui non mi pare sia diffusa una solida preparazione civica, lo trovo negativamente diseducativo.

Compito della stampa è anche quello dare corretta informazione (e anche formazione): non ci lamentiamo sempre che in questo Paese si legge poco e che invece leggere (anche i giornali) è fonte di formazione culturale?

Ma se la comunicazione è superficiale e ingannevole allora meglio non leggere!

 

Le reazioni all’emanazione di un decreto-legge

Chiarito che i decreti-legge non sono decreti, vediamo la sostanza del successivo procedimento di approvazione che deve svolgersi nei sessanta giorni successivi all’emanazione.

Periodo dedicato alla riflessione delle forze politiche cui compete poi l’approvazione definitiva con l’intento di emendare il testo delle eventuali imperfezioni e storture: migliorarlo insomma se possibile nei dettagli o respingerlo se non condiviso.

È sotto gli occhi di tutti che l’emanazione di un decreto-legge suscita un’attenzione compulsiva
che non mi pare tanto tesa all’esame delle ricadute che avrà il provvedimento quando sarà legge a regime, quanto piuttosto a considerare il provvedimento come l’occasione per integrarlo con elementi anche spuri rispetto al suo contenuto originario in quanto occasione di aggiungere disposizioni che potranno godere della semplificazione procedurale sfruttando la tempistica dell’urgenza della conversione.

Un assalto alla diligenza.

In altri termini si considera il decreto-legge emanato come se fosse una base consolidata di provvedimenti cui si possa solo aggiungere o dilatarne la portata escludendo quasi a priori che si possa anche togliere in sede di conversione.

 

Un test o una forma anomala di “partecipazione”

Grazie alle moderne potenzialità della comunicazione tutti (ma proprio tutti) si sentono di dire la propria opinione: Enti, Organizzazioni costituite, libere Associazioni, Cultori della materia, …. una coralità di voci in cui le forze politiche paiono essere quasi minoritarie (se non marginali).

E questo è anche bello perché dà voce alla pluralità di contributi possibili.

È anche vero però che l’estensione della partecipazione – se non organizzata – rischia di diventare un chiacchiericcio distraente e induce spesso gli operatori della materia a rinunciare ad una disamina delle ricadute concrete del decreto-legge per via della ridda di proposte e controproposte provenienti da dovunque senza un filo conduttore.

Questo può essere un rischio in un periodo in cui le forze parlamentari – non riuscendo a produrre provvedimenti condivisi ex ante che rispondano a finalità e obiettivi politici chiari e determinati (e strutturali) ricercano costantemente il consenso in tempo reale.

Un po’ come buttare il sasso e attendere l’onda di ritorno per decidere poi sulla contingenza.

Ho quindi l’impressione che l’emanazione di un decreto-legge assuma più la veste di un test per vedere le reazioni della collettività.

 

Da metodo eccezionale e residuale a sistema abituale

Visto che la decretazione d’urgenza sta assumendo ruoli strutturali e non solo eccezionali e residuali delle modalità di legiferazione, non appare irrilevante studiarne a fondo le procedure formali perché stanno diventando sostanza.

Non intendo dare qui giudizi di valore: certamente può anche essere interpretato e usato come una modalità (non canonica) di partecipazione anche se forse non era nei pensieri del Padri Costituenti.

Un aspetto positivo è dunque quello della certezza di una trasparenza e di una partecipazione allargata (anche le produzioni legislative e tecniche si adattano allo stile “social”), ma all’allargamento della partecipazione fa da contrappeso la ristretta finestra temporale che compatta e costringe a decisioni frettolosamente meditate, inducendo più alla “bulimia del fare” che al “fare bene”.

La domanda è: “è vera partecipazione?”

La partecipazione non si misura nella quantità di suggerimenti, ma dall’approfondimento e dalla motivazione che se ne fa nelle risposte ed è evidente che un eccesso di proposte e un tempo limitato di esame porta fatidicamente a delle semplificazioni: e cioè a una partecipazione formale ma non sostanziale.

Come dice il proverbio: “presto e bene non stanno insieme”.

 

Gli effetti pratici

Certo è che – anziché dare effettiva anticipazione di quel che poi sarà per darne tempestiva e coerente applicazione (come si addice ad un provvedimento che deve operare in urgenza) – l’emanazione di un decreto-legge apre invece un periodo di totale sbandamento e incertezza operativa creando uno stato confusionale in cui in molti si affannano a dire di tutto, magari spacciando come definitive notizie e soluzioni allo stato di mera proposta e inducendo in errori i più sprovveduti o incauti.

La decisione finale poi, non dico che sia a prescindere, ma resta comunque discrezione di pochi.

In ogni caso, per la sua natura, il decreto-legge consente solo interventi di sostituzione/integrazione puntuale non sempre (anzi, quasi mai) organici e difficilmente con la metodica del decreto-legge si possono anche solo ipotizzare interventi strutturali.

Nel caso nostro l’annunciata (e ormai datata) ipotesi di riforma del Testo Unico delle Costruzioni sostitutiva dell’attuale Testo Unico dell’Edilizia la vedo sempre più lontana e questo, da un lato, smentisce la pluriasserita urgenza della riforma, dall’altro, induce una sostanziale instabilità del sistema.

 

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