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Significative elaborazioni di principio in tema di bancarotta fraudolenta e natura distrattiva dei pagamenti preferenziali provengono dalla recente giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione che è ritornata sull’argomento con la sentenza n. 18528 del 18 giugno 2020.

La pronuncia ha annullato con rinvio la sentenza della Corte territoriale che aveva riformato l’assoluzione degli imputati per i reati di bancarotta fraudolenta e preferenziale, confermandone la penale responsabilità in relazione alla bancarotta preferenziale in concorso ex articolo 216, comma 3 e articolo 222 del R.D. n. 267 del 1942, per avere effettuato pagamenti in favore dei fornitori del materiale indispensabile alla prosecuzione dell’attività, omettendo di saldare i debiti vantati dall’erario e quelli previdenziali, per oltre un milione di euro; inoltre, avrebbe ritardato il fallimento in barba dell’acclarato stato di decozione risalente al 2008. Avverso detto provvedimento gli imputati proponevano, quindi, ricorso per Cassazione deducendo, nei motivi riassunti, tre vizi: l’erronea applicazione dell’articolo 110 Codice Penale e dell’articolo 216 c. 3 del R.D.  n. 267 del 1942, l’erronea applicazione dell’articolo 110 Codice Penale e degli articoli 217, comma 1, n. 3 e 4 e 222 del R.D.  n. 267 del 1942, il vizio di motivazione e violazione di legge in relazione all’articolo 125 Codice Procedura Penale, comma 3 e all’articolo 111 Costituzione.

Il dettato della Suprema Corte, che ha parzialmente accolto le argomentazioni della difesa, è d’interesse sotto più profili che si analizzano.

Alcune considerazioni sono utili in relazione alla situazione debitoria della società, rispetto alla quale la difesa evidenziava come questa fosse ingente nei confronti dello Stato e – come anche scrivono i giudici di legittimità – «meno ingente, verso dipendenti e fornitori che i M. avrebbero preferito, effettuando pagamenti in violazione della par condicio». I difensori assumevano «che la norma incriminatrice richiede l’esistenza di pagamenti preferenziali, dei quali non vi sarebbe prova nel presente giudizio; né vi sarebbe prova della consapevolezza, da parte della fallita, di favorire i creditori, nonché del nocumento che deriva alla massa, avendo gli imputati agito per migliorare la situazione dell’azienda».

Ancora, con riguardo alla verifica dell’elemento soggettivo del reato, rilevavano come la sentenza appellata avesse valutato i provvedimenti irrevocabili, alla cui acquisizione era stata subordinata la richiesta di abbreviato condizionato, tacendo però sulla data dei pagamenti preferenziali contestati, precedenti alla scoperta del mancato pagamento delle somme dovute per l’avviato ravvedimento operoso e al solo scopo di salvaguardare le attività sociali.

In particolare, si faceva riferimento alle sentenze di assoluzione per le imputazioni fiscali a carico del legale rappresentante della società e delle pronunce di condanna a carico del professionista che, di questa, curava la contabilità e aveva ricevuto la consistente somma di 150.000 euro con mandato di  provvedere ai pagamenti «per l’avviata procedura di ravvedimento operoso per debiti della società verso l’erario, relativi agli anni 2005, 2006 e 2007, pagamenti  mai effettuati, come scoperto da M.B. solo nell’estate dell’anno 2009». La consegna del denaro, inoltre, proverebbe come non fosse stato omesso l’inserimento in contabilità dei debiti sociali.

Importanti vulnera vengono poi riscontrati sotto il profilo della motivazione con particolare riguardo alle sentenze di riforma. Come da principio sedimentato nella giurisprudenza di legittimità per l’overturning «non è sufficiente una diversa valutazione, caratterizzata da pari plausibilità, rispetto a quella operata dal primo giudice». È, dunque, necessario che la sentenza di appello abbia una «forza persuasiva superiore»[1] – da ciò la definizione di motivazione “rafforzata”[2], cioè tale che «sovrapponendosi a quella assolutoria, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati»[3]. così da eliminare «ogni ragionevole dubbio, intrinseco alla stessa situazione di contrasto tra il diverso contenuto delle pronunce di merito»[4].

La Suprema Corte, nel caso in esame, rilevava il difetto di motivazione, ritenendola «del tutto insufficiente» con riferimento al  reato  di  bancarotta  semplice  patrimoniale, perché unicamente fondata sul dato del prosieguo dell’attività, «avvenuto  nonostante  il  crescente  indebitamento  verso  l’erario,  senza  che  vi  fosse  alcuna richiesta di fallimento, con conseguente incremento del debito»[5], e con riferimento al reato di  bancarotta preferenziale, intorno al quale la presente disamina è centrata, per non avere adeguatamente sviluppato il tema del dolo richiesto dalla fattispecie e del concorso tra creditori.

 

La bancarotta preferenziale

Il reato appena richiamato punisce condotte volontariamente dirette a minare la par condicio creditorum[6], ossia a compromettere l’esercizio dell’eguale diritto dei creditori ad essere soddisfatti sui beni del debitore, salvo le cause legittime di prelazione rilevate a favore di questi e come enucleate dall’articolo 52 della Legge Fallimentare[7] sul concorso. Il tenore letterale della norma spiega come il fallimento di per sé apra il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito, da ciò discendendo che «Ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o trattato ai sensi dell’articolo 111, primo comma, n. 1), nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal Capo V, salvo diverse disposizioni della legge», in coerenza, peraltro, con il complementare divieto di azioni esecutive e cautelari individuali sancito dal precedente articolo 51 della stessa legge.

Sicché, «È principio affermato da questa Corte di legittimità che il Collegio condivide – scrivono i giudici –, quello secondo il quale, in tema di bancarotta preferenziale, qualora il fallito provveda al pagamento di crediti privilegiati, ai fini della configurabilità del reato, è necessario il concorso di altri crediti con privilegio, di grado prevalente o eguale, rimasti insoddisfatti per effetto del pagamento e non già di qualsiasi altro credito»[8].

La bancarotta preferenziale trova la sua sede normativa al richiamato articolo 216 della Legge Fallimentare dedicato alla bancarotta fraudolenta atteggiandosi come una ulteriore specificazione della stessa: il pagamento in via preferenziale di uno o più creditori su altri, nel comportare il depauperamento della massa patrimoniale, non può che determinare la lesione di fatto della garanzia patrimoniale per i creditori non soddisfatti. Pertanto, «È punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a  scopo di  favorire,  a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione».

Il reato di bancarotta fraudolenta, in generale, punisce quella condotta dell’imprenditore diretta a distrarre, occultare, dissimulare, distruggere o dissipare «in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori»[9], ad esporre o riconoscere passività inesistenti, a sottrarre, distruggere o falsificare, sempre allo stesso scopo, «i  libri  o  le  altre  scritture contabili o li ha  tenuti  in  guisa  da  non  rendere  possibile  la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari»[10].

Senonché, necessari si rivelano tre ordini di approfondimenti.

 

La bancarotta fraudolenta

In primo luogo, è d’obbligo un’incursione nella materia civilistica, alla quale l’ordinamento riserva il compito di ordinare le posizioni dei creditori e che, nel delineare il principio di uguaglianza tra questi, identifica come cause legittime di prelazione ex articolo 2741 Codice Civile i privilegi, il pegno e le ipoteche. Innovando e perfezionando tale rudimentale impianto, la disciplina figlia della riforma fallimentare, ha introdotto la suddivisione dei creditori per classi omogenee di interessi[11]. Nella complessa procedura di fallimento si distinguono nettamente due gruppi di operazioni: quelle tese a determinare la massa passiva e quelle volte alla riunione e alla liquidazione dell’attivo. «Il risultato è intuitivo: si paragona l’attivo con il passivo, e si vede qual è la percentuale che spetta ai creditori chirografari, dopo soddisfatto chi abbia titoli di prelazione»[12].

In secondo luogo, avuto riguardo al profilo oggettivo della fattispecie contestata, inerente alla violazione della par condicio creditorum, la pronuncia in argomento si rivela illuminante. La parità di trattamento tra creditori, infatti, ai fini dell’integrazione della fattispecie, sempre avendo a mente la disciplina civilista suesposta, può ritenersi integrata, a fronte del pagamento preferenziale, solo quando siano rimasti insoddisfatti altri creditori di grado prevalente o eguale ai preferiti. Da ciò ne discende che non sarà sufficiente provare la esistenza di altri creditori, ma sarà necessario indagare il grado degli stessi: qualora il fallito provveda al pagamento di crediti privilegiati, ad esempio, ai fini della configurabilità del reato, è necessario il concorso di altri crediti con privilegio, di grado prevalente o eguale, rimasti insoddisfatti per effetto del pagamento e non già di qualsiasi altro credito.

In mancanza, quindi, di crediti di grado pari o di grado superiore, la condotta non deve essere qualificata come distrattiva e, pertanto, considerata dannosa per i creditori non preferiti, soprattutto quando l’imprenditore abbia inteso, con il pagamento, scongiurare il fallimento e scommettere sul salvataggio aziendale. Tale volontà senz’altro ricorreva nel caso in esame, risultando peraltro corroborata dalla consegna al consulente contabile-fiscale, poi risultato infedele, di una somma di denaro di importante entità da utilizzare per effettuare quei pagamenti necessari a rendere possibile la prosecuzione dell’attività tipica aziendale, allo scopo finale di ripianare integralmente l’esposizione debitoria, salvando l’azienda.

In terzo luogo, in linea con quanto sin qui esposto, giova una riflessione sulla costruzione dell’elemento soggettivo richiesto per la configurazione della fattispecie, per la tesi più seguita in giurisprudenza consistente nell’animus favendi, cioè nell’intenzione di favorire un creditore e di danneggiare gli altri, proprio per questa duplice finalità definito dolo specifico ‘composto’[13], per una frangia minoritaria, invece, riconducibile all’accettazione del rischio di danneggiare[14] i creditori non soddisfatti.

Questa seconda ipotesi centrata sul dolo eventuale[15] delinea una fattispecie di reato di pericolo concreto per la cui integrazione è sufficiente la possibilità del danno, ma non appare condivisibile.

 

Il dolo nella bancarotta preferenziale

L’analisi del fatto storico aiuta a comprendere perché tale impostazione sia da respingere. Primariamente, infatti, occorre – forse retoricamente – chiedersi se il semplice fatto che siano stati soddisfatti alcuni creditori in via prioritaria e, di riflesso, pregiudicate le ragioni degli altri, renda accettabile l’irrogazione della sanzione penale prevista per il reato de quo quasi come automatismo, anche, quindi, nella circostanza del tutto peculiare, ma ricorrente, in cui l’imprenditore non abbia agito con il preciso scopo di favorire i primi[16].

Il ragionamento logico giuridico, segnatamente, vuole assenza di dolo nel caso in cui il pagamento sia volto, in via esclusiva o prevalente, alla salvaguardia della attività sociale o imprenditoriale, come ben può accadere in caso del perseguimento di un risultato positivo per la massa: la prosecuzione dell’attività imprenditoriale e l’allontanamento (almeno temporale) del fallimento[17].

A tal proposito, dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sulla natura dei pagamenti effettuati, più precisamente, sulla liceità penale dei cd. pagamenti di salvataggio[18], aventi come obiettivo il superamento della crisi, posti talvolta a tacitare i creditori più irruenti e a postergare, appunto, la decozione della società. Anche su suddetto punto «la motivazione della sentenza impugnata non è esauriente, posto che trae la convinzione dell’avvenuto pagamento di fornitori e dipendenti in via preferenziale, rispetto all’erario, soltanto dal dato oggettivo dall’avvenuta prosecuzione dell’attività della società poi fallita (“poiché certamente fornitori e dipendenti non hanno lavorato senza corrispettivo”) senza nulla spiegare circa l’effettività ed entità di detti pagamenti»[19].

La costruzione basata sul mero «scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi», quale elemento sufficiente per l’integrazione della fattispecie, in particolare, appare semplicistica, giacché, seppur certamente consigliata da istanze di prevenzione per le quali risulta preferibile una costruzione fondata sul puro riscontro di pagamenti preferenziali, soffre l’incertezza della sussistenza di coscienza e volontà in una condotta che, per avere rilevanza penale, richiede – si ricorda – il dolo specifico.

Appare, sul punto, senz’altro condivisibile l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il dolo della bancarotta preferenziale è assente ogni qual volta, a fronte di pagamenti oggettivamente preferenziali, siano riscontrate la volontà di soddisfare alcuni creditori al precipuo scopo di alleggerire la pressione di questi in un’ottica di salvaguardia delle attività sociali, la volontà di posticipare l’eventuale consegna dei libri contabili, «apparendo ragionevolmente perseguibile il risultato di evitare il fallimento»[20], a beneficio di tutti.

Ritorna anche in materia penal-fallimentare, il tema dell’adeguatezza della risposta penale alle condotte astrattamente delittuose, in un contesto di crisi d’impresa, già esaminato in relazione ai reati di omesso versamento IVA[21] e di omesso versamento delle ritenute INPS[22] ex articoli 10-bis e 10-ter d.lgs. 74 del 2000.

In questo senso, avuto riguardo all’elemento soggettivo, si deve, ancora una volta, evidenziare come il determinismo dell’agente sia compulsato – nel pagamento preferenziale, come nei delitti appena richiamati – da una valutazione economica e dalla consequenziale accettazione di un rischio finanziario che poco ha in comune con la coscienza e volontà dell’azione su cui la dogmatica classica costruisce la colpevolezza tipica[23].

A ciò si aggiunga la pressione scaturita dalla condizione di “illiquidità” incolpevole[24] in cui l’impresa viene a trovarsi per cause ad essa non imputabili e che, appunto, nella morsa della crisi economica, rendono la menzionata accettazione dell’ulteriore rischio l’ultima e l’unica carta per garantire continuità.

In sintesi, il dolo specifico richiesto per l’integrazione del reato di bancarotta preferenziale, per tutte le argomentazioni addotte, certamente, non è ravvisabile laddove il pagamento preferenziale non sia volto a realizzare una mera preferenza e un danno ai creditori sorpassati nelle modalità già affrontate, ma si collochi all’interno del più ampio e complesso disegno economico di continuità aziendale.

 

 

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