Il decreto legislativo del 12 gennaio 2019 n. 14, attuativo della legge delega n. 155 del 2017[1], suggella la tormentata azione di riforma del diritto concorsuale, avviata nel 2015 con la nomina della Commissione Rordorf, finalizzando il passaggio al nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII). Da troppo tempo si rendeva necessario un progetto di riforma organica delle procedure concorsuali che perseguisse l’obiettivo di introdurre, finalmente, nel nostro ordinamento, una disciplina specificamente finalizzata a regolare la gestione dei rapporti di lavoro nell’ambito di esse e sistematizzare un corpus di regole fin troppo complesso e disorganico[2].
Dell’articolata riforma in questione, nel corso di questo elaborato si analizzerà principalmente la norma appositamente destinata a disciplinare i rapporti di lavoro e, potenzialmente, a risolvere tutti i punti controversi emersi in passato proprio a causa della mancanza di una regolamentazione ad hoc[3] e di un sistema di conciliazione degli interessi coinvolti, basato per lo più sul lavoro interpretativo ed estensivo della vigente Legge Fallimentare (Regio Decreto 267/42) da parte dei giudici.
L’intenzione del legislatore è quella di addivenire ad un sistema normativo nazionale che, nel rispetto delle norme di matrice comunitaria[4], garantisca un corretto equilibrio fra esigenze di gestione dell’insolvenza e di tutela degli interessi della massa dei creditori e protezione dei diritti dei lavoratori, sia sotto il profilo della tutela del posto di lavoro sia sotto il profilo della garanzia del reddito. Si tratta di un tema oggigiorno assolutamente centrale sia in Italia che nel resto d’Europa[5].
Straordinariamente innovativa è la diversa filosofia ispiratrice orientata, da un lato, non solo a sanzionare, ma ancor prima a prevenire le situazioni di crisi, dall’altro, quando sia inevitabile “fallire”, a rendere meno traumatico tale evento, promuovendo una cultura del risanamento anziché dell’eliminazione delle imprese dal mercato[6][7].
Diversi aspetti giuslavoristici presenti solo come proposito nella precedente Legge Fallimentare, con tale riforma assumono valore autonomo in norme dedicate, ma soprattutto trovano un riferimento al Titolo X, Capo IV, che azzarda un’opera di coordinamento tra la disciplina lavoristica e quella della crisi d’impresa, battezzando l’esordio del diritto concorsuale del lavoro[8], vera e propria materia abilitata, finalmente, a “brillare di luce propria”[9].
Sommario
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L’innovativo sistema di risorse informative per offrire una consulenza di valore ed affrontare le diverse fasi previste dalla Legge Fallimentare e dal nuovo Codice della crisi d’impresa.
[1] Con la quale il Parlamento ha conferito al Governo la delega per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza.
[2] A distanza di ottant’anni dalla promulgazione della legge fallimentare e dopo una lunga stagione di riforme caotiche, urgenti ma pur sempre parziali, succedutesi dal 2005 al 2017.
[3] Un’assenza che è stata criticata da una parte della dottrina del diritto del lavoro, ma le cui ragioni potevano essere comprese alla luce del fatto che le istanze volte ad introdurre norme speciali a favore della parte debole del rapporto di lavoro si scontravano con i principi cardine, che ispirano il diritto fallimentare, della salvaguardia degli interessi della massa e della par condicio creditorum. In tal senso L.A. Cosattini, Tutela del rapporto di lavoro nel fallimento fra disciplina vigente e prospettive di riforma, 2018, articolo pubblicato in www.osservatorio-oci.org, afferma che si tratta di due sistemi di regole, quello giuslavoristico e quello concorsuale, tradizionalmente autoreferenziali ed abituati ad affrontare e risolvere le questioni giuridiche secondo le proprie norme ed i propri principi.
[4] Afferma, infatti, la lettera p) dell’articolo 1, ove appunto si declinano i principi generali ai quali il Governo è chiamato ad attenersi nel varare il proprio decreto delegato, che scopo della riforma deve essere quello di “armonizzare le procedure di gestione della crisi e dell’insolvenza del datore di lavoro con le forme di tutela dell’occupazione e del reddito dei lavoratori che trovano fondamento nella Carta sociale europea, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata ai sensi della legge 9 febbraio 1999, n. 30 e nella direttiva 2008/94/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 ottobre 2008, nonché nella direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, come interpretata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea”.
[5] Alcune statistiche (Eurobarometro Flash 2012) hanno evidenziato che in Europa il 50% delle imprese ha una durata di vita inferiore a 5 anni e il 43% dei cittadini europei non avvierebbe un’attività per timore di fallire. È stato, inoltre, rilevato (dati esposti nella relazione alla proposta di direttiva 2016) che ogni anno nell’UE falliscono 200.000 imprese (600 al giorno), con una conseguente perdita diretta di 1,7 milioni di posti di lavoro all’anno. Secondo i dati della Commissione riferiti al 2014 rispetto al 2009 (anno in cui si è registrato il più alto numero di fallimenti), in Italia i fallimenti risultavano aumentati di oltre il 67%, passando da 9.384 procedure nel 2009 a 15.336 nel 2014.
Secondo i dati tratti dagli archivi Cerved, in Italia, tra marzo e giugno 2019, sono fallite 2.844 imprese, portando il totale di procedure nei primi mesi dell’anno a quota 5.691 società, in calo del 5,1% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. I miglioramenti hanno riguardato tutte le forme giuridiche e i settori economici ma non tutta la Penisola, con incrementi in diverse regioni italiane. Tornano ad aumentare le procedure concorsuali non fallimentari (+7,3% su base annua), soprattutto per effetto della crescita dei concordati preventivi: tra gennaio e giugno 2019 sono state presentate 296 domande di concordato, un dato lontano dai picchi osservati durante le fasi più acute della crisi, ma in aumento del 18% rispetto ai minimi dello stesso periodo del 2018.
[6] Il diritto concorsuale italiano privilegiava esclusivamente le ragioni dei creditori mentre l’impresa insolvente, vista come una “mela marcia”, doveva essere espulsa dal mercato. Gli stessi termini “fallimento” e “fallito” erano utilizzati come segno di negatività non solo economica, ma anche sociale. Così quando un’impresa perdeva la connaturale capacità competitiva e reddituale, evidenziando squilibri economici, finanziari e patrimoniali, veniva immediatamente avviata verso la sua cessazione e liquidazione, al fine di assicurare la realizzazione delle istanze creditorie e “punire” l’imprenditore responsabile, con la sua cattiva gestione, del dissesto.
[7] L. D’Arcangelo, Prime riflessioni sulla tutela del lavoratore nella riforma della crisi d’impresa, in Lavoro Diritti Europa, numero 2/2019, 2, parla di “una vera e propria innovazione culturale, oltre che di sistema, che inevitabilmente impatterà sulla posizione dei lavoratori”.
[8] Fino a questo momento non si era dunque realizzata quella che potrebbe essere definita un’”osmosi” tra le due branche del diritto, a causa della costante scarsa propensione degli operatori ad un approccio onnicomprensivo del fenomeno, che ricomprenda tutti i profili del lavoro in una situazione di crisi d’impresa.
[9] In tal senso R. Girotto, Divagazioni giuslavoristiche nella riforma della crisi d’impresa, articolo pubblicato in www.eclavoro.it, 10 aprile 2019, 1.
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