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Fino a epoca recente, in caso di inadempimento di prestazioni aventi ad oggetto obblighi infungibili di fare, in quanto tali realizzabili unicamente dal soggetto debitore originario o comunque tramite sua cooperazione, il creditore avrebbe potuto ottenerne solo l’equivalente monetario.


La forma risarcitoria, qualificata come extrema ratio tra le possibili soluzioni in favore del titolare del diritto, risultava inidonea ad assicurare l’attuazione della legge, soprattutto in settori dell’ordinamento le cui esigenze di tutela erano e sono particolarmente forti per la rilevanza degli interessi coinvolti.


Attualmente, invece, ai sensi dell’art. 614 bis cod. proc. civ., introdotto con Legge 18 giugno 2009, n. 69, il creditore ha la facoltà di rivolgersi al Giudice per ottenere un provvedimento consistente in un ordine ad adempiere e, in aggiunta, per mancata ottemperanza ad esso, nella prescrizione del pagamento di una determinata somma di denaro.


Qualora non fosse ottemperato l’ordine ad adempiere, la somma di denaro inserita nel provvedimento di condanna sarebbe da considerare come forma di ‘pressione psicologica’ a carico del soggetto debitore, tale da indurlo ad adempiere spontaneamente la prestazione infungibile.


Quanto alla misura cautelare d’urgenza ivi eventualmente richiesta, la funzione sua propria è evitare, del tutto o il più possibile, che il diritto dedotto in giudizio dal creditore sia colpito da un danno attuale, difficilmente riparabile, causato dalla consueta durata del processo avviato per accertare l’inadempimento dell’obbligo infungibile di fare. Il provvedimento cautelare, in primo luogo, conterrà l’ordine di adempiere oggetto della richiesta nel procedimento di merito, fermo restando che, essendo tale ordine riferito a una prestazione infungibile, dovrà essere accompagnato dalla richiesta di una forte penalità in caso di persistente inadempienza.



Sommario



1. Tutela cautelare degli obblighi infungibili di fare e di non fare. Inquadramento.


Fino a epoca recente, in caso di inadempimento delle prestazioni di obblighi infungibili di fare, che, in quanto tali, possono essere realizzate unicamente dal soggetto debitore originario o comunque tramite sua cooperazione, il creditore avrebbe unicamente potuto ottenerne l’equivalente monetario.


Tale lacuna era stata più volte sottolineata in dottrina soprattutto con riguardo all’effettività di una tutela giurisdizionale che avrebbe posto in crisi il principio di priorità dell’esatto adempimento. Grazie a tale criterio la tutela risarcitoria, qualificata come extrema ratio tra le possibili soluzioni in favore del titolare del diritto, risultava inidonea ad assicurare l’attuazione della legge, soprattutto in settori dell’ordinamento le cui esigenze di tutela erano e sono particolarmente forti per la rilevanza degli interessi coinvolti.


Attualmente invece, ai sensi dell’art. 614 bis cod. proc. civ., introdotto con Legge 18 giugno 2009, n. 69, su ‘Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile’, il creditore ha la facoltà di rivolgersi al Giudice per ottenere un provvedimento consistente in un ordine ad adempiere e, in aggiunta, per mancata ottemperanza ad esso, nella prescrizione del pagamento di una determinata somma di denaro.


Di conseguenza, il Giudice che emani un provvedimento di condanna all’esecuzione di obblighi infungibili di fare o di non fare potrà anche fissare, all’interno del suddetto provvedimento e su richiesta di parte, l’ammontare della ‘somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva al provvedimento di condanna, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento’.


Qualora non fosse ottemperato l’ordine ad adempiere, la somma di denaro inserita nel provvedimento di condanna sarebbe da considerare come forma di ‘pressione psicologica’ a carico del soggetto debitore, tale da indurlo ad adempiere spontaneamente la prestazione infungibile.


Quanto alla misura cautelare d’urgenza eventualmente richiesta, la funzione sua propria è evitare, del tutto o il più possibile, che il diritto dedotto in giudizio dal creditore sia colpito da un danno attuale, difficilmente riparabile, causato dalla consueta durata del processo avviato per accertare l’inadempimento dell’obbligo infungibile di fare.


Il provvedimento cautelare, in primo luogo, conterrà l’ordine di adempiere oggetto della richiesta nel procedimento di merito, fermo restando che, essendo tale ordine riferito a una prestazione infungibile di fare, dovrà essere accompagnato dalla richiesta di una forte penalità in caso di persistente inadempienza.


Attualmente la tutela cautelare d’urgenza può essere utilizzata anche con preordinazione strumentale ai processi di mero accertamento e di accertamento costitutivo, ambiti dai quali l’esecuzione forzata risulterebbe per definizione esclusa.


Nelle fattispecie ove la tutela d’urgenza è stata ammessa, il ragionamento si fonda sul presupposto secondo il quale non vi sarebbero motivi, in diritto positivo, volti a impedire l’emanazione di provvedimenti d’urgenza per tutelare rapporti obbligatori infungibili di fare.


Infatti la semplice constatazione per cui, tramite istanza cautelare ex art. 700 cod. proc. civ., sia stato chiesto un provvedimento non suscettibile di esecuzione in forma specifica, permette di proporre comunque la suddetta domanda dato che l’eventuale provvedimento di accoglimento potrebbe esercitare un tipo indiretto di coazione sulla mancata ottemperanza al previo ordine giudiziale.


Nonostante il contrasto a livello giurisprudenziale, il provvedimento cautelare d’urgenza è stato ammesso ad esempio in relazione all’ ‘abuso di dipendenza economica’ ex art. 9, Legge 18 giugno 1998, n. 192, su ‘Disciplina della subfornitura nelle attività produttive’.


Il legislatore ha ivi maggiormente considerato la posizione degli imprenditori economicamente più ‘deboli’ rispetto ai committenti, che spesso risultano essere anche ‘cattivi’ pagatori.


Nonostante la difficoltà o l’impossibilità di attuazione dei provvedimenti in via coercitiva, si mantiene la idoneità degli stessi ad esercitare pressione sull’obbligato per ottenere un adempimento volontario.


Il provvedimento cautelare avrebbe quindi la finalità di ‘forzare psicologicamente’ il debitore a realizzare sua sponte la prestazione.


Ratio ultima della disciplina in esame tende anche all’auspicato deflazionamento dell’elevata quantità di procedimenti di merito instaurati.


L’art. 614 bis cod. proc. civ., segnando un netto miglioramento e progresso rispetto al passato nella tutela della posizione attiva dei suddetti rapporti obbligatori, è stato accolto con favore dalla dottrina nonostante la mancata previsione di maggiori sanzioni, specie a livello penale.


Da altra prospettiva, però, esso non potrà rappresentare un meccanismo del tutto risolutivo in quanto, nel nostro ordinamento, risulta ancora essere una misura di coazione soltanto indiretta, distinta da quanto previsto in altri sistemi giuridici europei.


La materia è infatti complessa, rispetto alla quale le soluzioni offerte dal legislatore non risultano appaganti: nonostante la riforma del processo civile del 2009, i dubbi sulla tutelabilità cautelare di tali situazioni non sono stati, fino ad ora, dissipati.


2. “Obbligazioni” e “infungibilità” nella prospettiva cautelare.


Per poter affrontare le problematiche riconducibili all’ammissibilità della tutela cautelare in materia di obblighi di fare infungibile, occorrerebbe ripercorrere i profili di diritto strettamente sostanziale relativi alle nozioni stesse di “obbligazione” e di “infungibilità”.


Sarebbe necessario quindi contestualizzare precisamente entrambe, in quanto emergenti con evidenza nello specifico ambito processualistico oggetto di studio.


Tale considerazione, sia pure sinteticamente svolta, risulta opportuna in particolare a fronte dello scarso rigore con cui è talvolta definito l’elemento oggettivo delle obbligazioni.


La disciplina inerente viene quindi analizzata in base al vincolo che si esplica nella schematica sequenza debitore-oggetto-creditore che deve essere qualificata in modo consapevole e senza imprecisioni tecniche entro il relativo contesto giuridico.


Nel codice civile attuale non è possibile ravvisare una definizione di “obbligazione” o di “fungibilità” della prestazione.


La ragione giustificativa può forse esplicarsi nel fatto che su tali concetti si sia a lungo e approfonditamente avuta una elaborazione dogmatica cui nulla avrebbe potuto aggiungere il legislatore.


In tal modo, senza una norma giuridica di riferimento, l’ambito relativo e il campo di applicazione correlato sono apparsi maggiormente duttili, elastici, non costretti entro i termini e i concetti che eventualmente il corpus avrebbe indicato.


Premesso questo, però, sono altrettanto innegabili le problematiche sorte circa i contorni della “fungibilità”, lasciati indefiniti proprio a causa della mancanza di una norma relativa.


Questo risvolto è tanto più inspiegabile quanto più si rifletta sull’importanza che il binomio in esame abbia presentato e presenti tuttora in molteplici ambiti con riferimento, ad esempio, agli effetti del risarcimento per equivalente, all’attributo della patrimonialità o anche al requisito stesso della determinabilità della prestazione di genere.


3. Tutela coattiva degli obblighi infungibili di fare e di non fare. Il concetto di “misura coercitiva indiretta”: orientamenti dottrinali e legislativi nell’evoluzione dell’istituto.


Per comprendere il rilievo della novella apportata dalla Legge 18 giugno 2009, n. 69, “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”, che ha inserito l’articolo 614 bis all’interno del c.p.c. italiano, occorre ricordare come l’espressione “processo esecutivo” individui un genus costituito da più species.


L’esecuzione forzata consiste in un’attività prevalentemente pratica che risente delle caratteristiche concrete dell’oggetto cui si applica: di conseguenza è possibile la tripartizione in esecuzione per espropriazione, esecuzione per consegna o rilascio e, da ultimo, esecuzione relativa a obblighi di fare e di non fare.


In particolare si distingue anche tra esecuzione “diretta” e “indiretta”, in base alla sussistente o meno possibilità per il creditore di essere soddisfatto attraverso l’attività compiuta da un ufficio esecutivo in sostituzione del soggetto obbligato.


Al fine di realizzare una esecuzione forzata “diretta”, l’obbligo oggetto di questa deve essere surrogabile e quindi indifferentemente realizzabile dal soggetto passivo stesso oppure da un terzo.


Operando a un livello di astrazione molto elevato si era pervenuti ad accostare misure esecutive dirette e indirette proprio a fronte dell’uso della forza in caso di inadempimento dell’obbligo assunto e nonostante fosse possibile parlare, come già previsto dai processualisti tedeschi dell’800, di vis compulsiva nel primo caso e di vis ablativa nel secondo.


F. CARNELUTTI, negli Anni ’30 del XX secolo, sosteneva che chi avesse considerato le misure coercitive sub specie dell’esecuzione, distinguendo tra esecuzione diretta ed esecuzione indiretta, avrebbe commesso “uno sbaglio di teoria generale[1].


Collegare le due tipologie avrebbe permesso di analizzare in toto i meccanismi sanzionatori previsti dall’ordinamento in caso di inadempimento degli obblighi scaturiti da sentenze civili, potendosi così apprezzare anche il rapporto dialettico tra esecuzione diretta e indiretta.


È quindi di rilievo la sottolineatura secondo cui le misure coercitive siano nettamente distinte dai mezzi esecutivi in quanto la finalità delle prime consiste nell’indurre il debitore ad adempiere, altrimenti prevedendo, sul patrimonio e/o sulla persona dell’obbligato, conseguenze negative ulteriori rispetto a quelle subìte adempiendo.


I procedimenti esecutivi, invece, prescindono del tutto dalla volontà e dall’attività del soggetto passivo: in tal caso infatti sono l’avente diritto e gli organi giurisdizionali pubblici ad attuare quanto previsto nel titolo esecutivo. Il debitore semplicemente subisce l’attività esecutiva posta in essere, la quale si qualifica, di conseguenza, “forzata”.


In dottrina, gli studiosi G. BORRE’ e S. CHIARLONI si sono confrontati proprio sul carattere di alternatività connesso al rapporto tra esecuzione per surrogazione ed esecuzione indiretta: secondo BORRE’, in presenza della prima, l’esecuzione indiretta non avrebbe potuto trovare applicazione (e viceversa)[2].


CHIARLONI, analizzando l’esperienza di ordinamenti diversi dal nostro, ha affermato la possibilità (ma da una prospettiva unicamente storica), di impiegare determinate misure esecutive indirette ove mancasse un procedimento di esecuzione diretta.


A prescindere da una simile specifica considerazione, l’Autore non ha però incontrato alcun nesso logico che impedisse il cumulo tra esecuzione forzata diretta e indiretta[3].


A sostegno dell’opportunità di prevedere misure coercitive anche in presenza di meccanismi di esecuzione in forma specifica, è stato detto che qualora il debitore fosse indotto ad adempiere, si eviterebbe il ricorso a procedimenti di esecuzione diretta notoriamente poco economici quanto a tempo e risorse.


Da ciò risulta che la funzione delle misure coercitive sia non solo quella di supplire alla mancanza di strumenti esecutivi in forma specifica ma anche e specialmente di indurre l’obbligato ad adempiere, prescindendo dalla possibilità o meno di attuare coattivamente in via diretta la relativa prestazione.


La regolazione dell’esecuzione forzata per surrogazione degli obblighi di fare e di non fare rappresentava una lacuna nell’ordinamento postunitario di cui la dottrina ha in seguito auspicato una soluzione, utilizzando il noto principio chiovendiano “il processo deve dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch’egli ha diritto di conseguire[4]. Tale problematica, già lamentata da L. FERRARA all’inizio del XX secolo, è stata poi affidata agli artt. 2931 e 2933 del vigente codice civile.


Dal 1942, fino agli Anni ’60, una serie importante di contributi dottrinali ha concentrato l’attenzione essenzialmente sull’esecuzione in forma specifica[5] e quindi sull’intervento degli organi giurisdizionali esecutivi, perchè il diritto violato fosse ripristinato, pur in mancanza di una volontà in tal senso da parte dell’inadempiente debitore dell’obbligo di fare o di non fare.


Il problema delle misure coercitive, fenomeno nuovo per il nostro ordinamento giuridico, ha acquisito particolare rilievo per la emersione di esigenze di tutela che non si sarebbero potute soddisfare attraverso il sistema della tutela esecutiva in vigore.


Le novità in ambito di tutela giurisdizionale degli obblighi di fare e di non fare non si sono però limitate alla disciplina dell’esecuzione in forma specifica: proprio per l’implicita esigenza avvertita in giurisprudenza, volta ad ampliare la sfera di applicazione dei sequestri oltre il dettato legislativo del 1865 e per ulteriori altre sollecitazioni da parte della dottrina, il codice di rito del 1940 ha introdotto una norma di chiusura nel sistema dei provvedimenti cautelari, relativa ai “provvedimenti d’urgenza”.


Pur non trattandosi ancora della (sia pure auspicata) concessione al Giudice di un generale potere di cautela, si sarebbero in tal modo evitati, con una provvisoria anticipazione degli effetti della decisione sul merito, eventuali irreparabili pregiudizi ai diritti azionati.


Gli studiosi più attenti hanno compreso come le violazioni, cui intenderebbe porre rimedio la cautela in esame, siano comunque relative a obblighi di facere o di non facere: “più precisamente, relative ad obblighi di non fare, sia infungibili che fungibili, nonché ad obblighi di fare fungibili (ivi compresa, in quest’ultima categoria, l’obbligazione pecuniaria, quando abbia natura alimentare)”[6].


Anche a fronte di una rilevante identità di funzioni, nonostante la natura rispettivamente diversa, i provvedimenti d’urgenza sono stati accostati agli strumenti di esecuzione forzata specifica degli obblighi di fare e di non fare.


Da un lato, il mezzo preventivo richiede l’esistenza dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora; dall’altro, invece, il mezzo repressivo e riparatorio presuppone l’accertamento della già avvenuta lesione da parte dell’autorità giurisdizionale.


Il meccanismo previsto ai sensi dell’articolo 700 c.p.c. non può essere considerato quale mezzo di esecuzione indiretta perché manca la minaccia dell’entrata in funzione dell’apparato coercitivo statale, tendente a indurre il debitore all’adempimento. Malgrado ciò non si può escludere che gli accertamenti d’urgenza abbiano in sé una efficace forza compulsoria.


Ove si incontri il limite oggettivo della infungibilità del comportamento dell’obbligato, l’unico rimedio possibile sarebbe una misura coercitiva che inducesse quest’ultimo ad adempiere.


Nonostante tale delimitazione, che non permette di risolvere in modo definitivo il problema dell’inadempimento del debitore di un facere infungibile e che è intrinseca alla formula nemo ad factum praecise cogi potest, risulta inconcepibile l’inerzia dell’ordinamento in casi simili: infatti necessita di tutela qualunque situazione giuridica non patrimoniale sottintendente valori e interessi di fondamento costituzionale.


Inoltre, in prospettiva di riforma, un problema verteva anche sull’alternativa tra costruire le misure coercitive in forma atipica (generalizzata) oppure in forma tipica (per singole fattispecie): la questione era inscindibilmente legata alla natura propria di tali meccanismi e quindi al differente utilizzo di misure incidenti sulla persona o sul patrimonio del debitore.


Con specifico riguardo alla seconda tipologia suddetta, sarebbe stato opportuno prevederla in via generale per tutti gli obblighi infungibili e non invece come ex articolo 24 del Progetto di legge delega elaborato nel 1981, secondo cui le misure coercitive patrimoniali si sarebbero dovute impiegare solo per “obbligazioni da determinarsi comunque per legge[7].


Corollario di una simile impostazione era l’esigenza di evitare ogni eccesso della misura coercitiva, disciplinandone le modalità di applicazione e giustificando in tal modo la previsione, accolta nel Progetto, della necessaria istanza di parte, dell’attribuzione al Giudice del potere discrezionale di non applicare la misura coercitiva in funzione della natura delle parti o delle circostanze particolari del caso concreto e infine dei limiti fissati dal legislatore all’entità della sanzione pecuniaria stabilita dal Giudice.


Durante gli Anni ’70, l’attenzione si è concentrata in modo particolare sulla eseguibilità forzata, ex artt. 612 ss. c.p.c, dell’ordine di reintegra previsto all’articolo 18 della Legge 20 maggio 1970, n. 300 (“Statuto dei lavoratori”), in caso di declaratoria di illegittimità del licenziamento.


Da molti si riteneva che l’ordine in questione non fosse specificamente eseguibile o che, comunque, l’accompagnamento coattivo sul posto di lavoro non risultasse sufficiente a tutelare in modo adeguato il lavoratore illegittimamente licenziato. Di conseguenza, parte della dottrina considerò la possibilità di impiegare, in simili fattispecie, il sistema della “esecuzione processuale indiretta”, ossia di misure coercitive che per loro natura potessero influire sulla volontà dell’obbligato.


In realtà però neanche tale ordine di reintegra del lavoratore era assistito da minacce coercitive; la sanzione indiretta si sarebbe potuta individuare, nonostante la mancata attività lavorativa corrispettiva, solo nell’ulteriore corresponsione salariale. Inoltre avrebbe beneficiato del risultato di tale imposizione il Fondo adeguamento pensioni, così attribuendo all’istituto una colorazione maggiormente pubblicistica.


La grande attenzione per l’esecuzione indiretta profilatasi in Italia a inizio Anni ’70 ha accompagnato l’intensificarsi del ricorso ai provvedimenti d’urgenza, il cui collegamento con l’ambito esecutivo risultava ormai risalente.


Infatti proprio a seguito della emanazione della L. 300/70 la giurisprudenza, in contrasto con opinioni dottrinali, ha ritenuto utilizzabile l’articolo 700 soprattutto “in materia di licenziamenti, di sanzioni disciplinari, di tutela della salute, di integrazione di decurtazioni del salario illegittime, di riconoscimento delle mansioni effettivamente svolte, di assunzioni obbligatorie, di trasferimenti”[8].


La funzionalità esecutiva dei provvedimenti d’urgenza giustifica il sempre più diffuso ricorso all’articolo 700 quale mezzo di tutela giurisdizionale in sé e per sé, connotato da risvolti deflattivi: una volta ottenuto il provvedimento d’urgenza, infatti, non si intenderà instaurare o proseguire il relativo giudizio ordinario, essendosi ormai raggiunti e ottenuti gli effetti desiderati.


Fino a epoca recente la previsione di forme di esecuzione indiretta rappresentava, nell’ordinamento italiano, un fenomeno episodico, disciplinato da leggi speciali e legato a specifici ambiti quali appunto la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro[9], la tutela dei diritti di proprietà industriale e intellettuale[10] o la tutela degli interessi dei consumatori.


Con specifico riferimento al Decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, “il nostro legislatore, ha modulato negli artt. 37 e 140 del codice del consumo, in armonia con la direttiva comunitaria 98/27 (ora 2009/22/CE), una tutela di tipo prettamente inibitorio, che rappresenta lo strumento principe della consumer protection”.


I suddetti artt. 37 e 140 del “Codice del consumo” sono prevalentemente invocati dalle associazioni dei consumatori per anticipare gli effetti del provvedimento finale[11].


Avendo la legge espressamente previsto singole fattispecie, la loro disciplina non si sarebbe potuta applicare estensivamente in via analogica.


È interessante osservare che il primo tentativo di tipizzazione generale di una forma di esecuzione indiretta sia stata elaborata nell’ambito del Progetto Carnelutti del 1926, ove ex artt. 667 e 668[12] era previsto che, in caso di mancata esecuzione di un obbligo di fare o di non fare, l’avente diritto avrebbe potuto domandare la condanna dell’obbligato al pagamento di una somma di denaro per ogni unità temporale di ritardo, a partire dal giorno stabilito dal Giudice.


La vera e propria innovazione del suddetto Progetto consisteva quindi nella previsione di una pena pecuniaria comminata in caso di inadempimento degli obblighi di fare o di non fare, mediante la quale si sarebbe sostanzialmente accolto nel nostro ordinamento giuridico il sistema giurisprudenziale delle astreintes francesi.


Oltre alla previsione di un ufficio esecutivo, istituito presso ogni tribunale e pretura, ad ausilio del Giudice e per l’attuazione dei suoi pronunciati, il Progetto prevedeva l’esecuzione forzata di tutte le categorie di obbligazioni i cui limiti erano fissati nell’articolo 459[13], il cui scopo precipuo era l’adempimento in forma specifica di ogni categoria di obbligazione.


Invece, in seguito, il legislatore ha previsto, in presenza di un danno economicamente apprezzabile, la possibilità di ricorrere al solo risarcimento dei danni, mai però considerato sufficiente a soddisfare il creditore leso dall’inadempimento di una prestazione connotata dalla insostituibile e imprescindibile personalità del soggetto controparte suo debitore o anche in presenza di particolari ragioni che potessero orientare il soggetto attivo a preferire il fatto determinato rispetto alla equivalente somma di denaro.


Il d.d.l. Reale del 1975, recante “Provvedimenti urgenti relativi al processo civile”, prevedeva l’inserimento nel codice di rito dell’articolo 279 bis per risarcire i danni e far cessare il comportamento illegittimo dell’obbligato attraverso la fissazione di una somma per ogni violazione, inosservanza ex post constatata o ritardo nell’esecuzione dei provvedimenti contenuti in sentenza.


Decaduto tale d.d.l, a seguito dello scioglimento della VI Legislatura, il 6 dicembre 1978 fu nominata con decreto del Ministro di Grazia e Giustizia una commissione, presieduta dal Prof. E.T. Liebman, con il compito di elaborare lo schema di un organico disegno di legge delega al governo per un nuovo codice di procedura civile e di revisionare conseguentemente le norme relative agli istituti connessi.


Qualche anno prima un’altra commissione, sempre presieduta da Liebman, si era dedicata invece alla predisposizione di un testo contenente una nuova disciplina del processo cognitivo. Al riguardo si ritenne di dover approntare una profonda e radicale riforma per così incidere sulla reale causa all’origine della crisi della giustizia civile: la lentezza dei giudizi.


Il Progetto Liebman ha previsto una serie di norme volte a innovare il diritto delle prove[14]: speciale rilievo è stato attribuito, ad esempio, all’attuazione del provvedimento con cui il Giudice dispone l’esibizione di documenti. Le conseguenze in caso di mancata ottemperanza a tale ordine sono diverse a seconda che l’inadempiente sia una parte oppure un terzo.


Il Giudice, per quest’ultima eventualità, ha un’ampia possibilità di reazione: l’esecuzione in forma specifica dell’ordine o, in alternativa, la previsione di una sanzione pecuniaria adeguata alla circostanza, di cui determini discrezionalmente anche l’entità, per colpire il soggetto precedentemente impegnatosi a una determinata esibizione[15].


Il Progetto per la riforma del codice di procedura civile elaborato nel 1981, al già menzionato punto 24, prevedeva che il Giudice, ove avesse accertato l’inadempimento di obbligazioni di fare o di non fare infungibili, non connotate da particolari abilità professionali nè relative ai diritti della personalità, avrebbe avuto il potere di condannare l’obbligato, su istanza di parte, a pagare pene pecuniarie fissate ex lege per ogni giorno di ritardo nell’adempimento.


È fondamentale però rilevare che in tal caso il riferimento fosse al ritardo nell’adempimento e non all’inosservanza della sentenza: il Giudice avrebbe potuto comminare la sanzione suddetta solo a seguito dell’ormai accertata inadempienza e se la parte lesa l’avesse a priori richiesta.


Quindi la sanzione prevista si sarebbe potuta avere in un tempo anche assai antecedente rispetto a quello dell’emanazione della sentenza, avvicinandosi al meccanismo della clausola penale convenzionale.


“Pur ridondando in ogni caso a vantaggio del creditore, l’esecuzione indiretta può avere, alla sua base, diverse filosofie: essa può essere intesa come presidio della decisione giudiziaria in quanto tale, cioè come espressione dell’esigenza che non resti inosservato un atto di sovranità; oppure può essere costruita, per così dire, in modo selettivo, in funzione di una forte tensione all’adempimento specifico, che certe obbligazioni, più di altre, presentano, ovverosia in funzione della particolare rilevanza dell’interesse primario del creditore e della sua più difficile riducibilità al livello secondario del risarcimento, e ciò o attraverso la tipizzazione legislativa delle ipotesi di obbligazione, per le quali l’esecuzione indiretta è ammessa, o mediante l’affidamento al Giudice di un potere discrezionale in proposito”[16].


Nonostante si sia ipotizzata la possibilità di utilizzare le misure coercitive anche ove le prestazioni fossero direttamente eseguibili, in realtà il campo di applicazione privilegiato delle stesse sembrava relativo agli obblighi infungibili: infatti le aperture de iure condendo, in passato, come il medesimo punto 24 del Progetto Liebman, hanno mostrato la tendenza a introdurre un sistema di misure coercitive limitato ai soli obblighi infungibili.


Tali testi sono stati ricordati nella relazione al Progetto di d.d.l delega della Commissione Tarzia del 1996.


Al punto 25 si prevedeva che il Giudice, in caso di accertata violazione di un obbligo di fare o di non fare e con l’esclusione degli obblighi del lavoratore autonomo o subordinato e anche di quello per consegna o rilascio, non derivante da contratto di locazione a uso abitativo, potesse fissare una somma di denaro pro creditore e prevedere il risarcimento dei danni, per ogni giorno di ritardo nell’adempimento, anche con decorrenza successiva alla sentenza o tramite un provvedimento ex post.


A differenza di quanto avvenuto a inizio Anni ’80, il progetto della Commissione Tarzia non è mai stato trasfuso in un d.d.l di iniziativa ministeriale e quindi al riguardo non si è potuto parlare di una vera e propria proposta governativa.


Invece, durante la XIV Legislatura è intervenuta sull’argomento la Commissione ministeriale presieduta dal Prof. R. Vaccarella, il cui d.d.l è stato approvato dal Consiglio dei Ministri in data 24 ottobre 2003.


Il relativo articolo 44 prevedeva, secondo determinati principi, forme di esecuzione indiretta a tutela di diritti correlati a obblighi infungibili: “a) fissazione dell’obbligo di pagamento di una somma di denaro per ogni frazione di tempo nel ritardo all’adempimento dell’obbligo; b) previsione di un procedimento sommario per la verifica del ritardo e la liquidazione di quanto previsto nella comminatoria, da attivarsi ad istanza dell’avente diritto; c) previsione che la sanzione pecuniaria sia versata nelle forme del deposito giudiziario o in altre analoghe; d) previsione che le somme così versate siano destinate a risarcire l’avente diritto del danno prodotto dall’inadempimento dell’obbligo, e che il residuo vada allo Stato”.


In seguito, prima della conclusione anticipata della XV Legislatura repubblicana, avvenuta il 18 giugno 2008, il Consiglio dei Ministri aveva approvato in data 16 marzo 2007 il d.d.l. recante “Disposizioni per la razionalizzazione e l’accelerazione del processo civile” , il cui articolo 44 riguardava uno strumento di coercizione indiretta per l’adempimento degli obblighi di fare infungibili o di non fare.


La sentenza di accoglimento della domanda di condanna all’adempimento di tali obblighi avrebbe dovuto contenere anche la determinazione dell’entità della sanzione a beneficio del creditore e sarebbe stata titolo esecutivo per riscuotere le somme dal Giudice già liquidate e dovute per ogni violazione o inosservanza successiva alla pronuncia[17].


Le due forme che in sede giurisdizionale consentono di reagire all’inadempimento, “esecuzione diretta” ed “esecuzione indiretta”, si sono evolute prescindendo progressivamente dal solo risarcimento del danno, come invece previsto nel diritto romano più antico[18] per qualunque tipologia di prestazione non soddisfatta[19].


Una volta abolita la concezione risalente dell’assoggettamento del debitore alla potestà di controparte, per effetto dell’operare dell’istituto del nexum, emerse l’alternativa della esecuzione sul patrimonio dell’obbligato per i casi di inadempimento[20].


Nel momento in cui si è affermato il diritto postclassico sono stati elaborati sia la “espropriazione particolare”, modellata sull’entità del debito e all’origine dell’istituto del pignus in causa iudicati captum, sia la possibilità di conseguire in natura l’oggetto dell’obbligo di dare non pecuniario (condemnatio in ipsam rem e relativa esecuzione specifica).


Rileva comunque osservare come, probabilmente, nonostante contrastanti riflessioni, le negative conseguenze della perdita della propria vita o dell’intero patrimonio, previste a seguito dell’inadempimento delle obbligazioni, non avessero propriamente l’obiettivo, che si ravvisa nella “esecuzione indiretta” odierna, di indurre il debitore a soddisfare le legittime pretese della controparte ma fossero l’unica conseguenza prevista dai giuristi classici in mancanza di strumenti di esecuzione patrimonialmente più funzionali.


La possibilità di conseguire in via forzata il risultato della prestazione, tramite un intervento attivo dell’organo giurisdizionale, iniziò a essere concepito e attuato a fronte del generalizzarsi dell’espropriazione particolare, appunto attraverso il pignus in causa iudicati captum e per la conseguente possibilità di eseguire in forma specifica la condanna in ipsam rem.


Un simile intreccio di fenomeni ha provocato l’accentuarsi del momento oggettivo dell’obbligazione, nel panorama ormai mutato dei rapporti economici tipici del più tardo diritto romano.


E’ però da ricordare che tanto il diritto postclassico quanto il diritto giustinianeo non abbiano previsto l’esecuzione diretta degli obblighi di fare e di non fare né la introduzione di alcun mezzo di esecuzione processuale indiretta. Non si era quindi sostanzialmente superato il principio della condanna pecuniaria.


Del tutto opposto fu invece il contributo offerto dal diritto intermedio, tramite gli statuti suggeriti dai trattatisti o le decisioni giurisprudenziali, per quanto attiene alla esecuzione forzata indiretta dell’obbligazione di fare.


Importante obiettivo era quello di garantire il prestigio della giurisdizione, altrimenti menomato dalla protratta e persistente inosservanza del comando del Giudice: peraltro tale principio, oltre a essere già previsto nel Digesto[21], ha poi trovato ampio utilizzo nel diritto anglosassone.


Accanto alle misure per l’adempimento dell’obbligo di fare furono elaborate anche quelle per la tutela indiretta delle obbligazioni di non fare, come ad esempio le cautiones de non amplius turbando, impediendo, attentando, offendendo, codificate nel XIX secolo[22].


Sul finire dell’età moderna, con l’avvento del codice napoleonico, il concetto tradizionale di incoercibilità del fatto umano, ne homini libero vis fiat, ha trovato la propria collocazione nella legislazione francese, caratterizzata dalla mancata previsione di mezzi esecutivi e di una regolamentazione processuale dell’istituto stesso.


A questo corpus, come già in precedenza sottolineato, era particolarmente legato il codice civile italiano postunitario, specie in tema di obblighi di fare e di non fare.


L’articolo 1218 del codice ottocentesco menzionato non presentava l’ambiguità del suo modello.


Pur essendosi considerata l’esperienza scaturita dall’applicazione dell’articolo 1142 del Code civil, il principio generale relativo all’esatto adempimento di tutte le categorie di obbligazioni non ha in realtà conosciuto strumenti di garanzia processuale a tal fine sufficienti.


Nel periodo compreso tra il 1870 e il 1914, i nostri Giudici ritennero di poter risolvere il problema dell’esecuzione forzata in forma specifica di obbligazioni incoercibili attraverso il sistema adottato Oltralpe: ne scaturirono precedenti di comminatorie atte a far sì che quanto statuito dalla legge non fosse vano comando.


In altri casi, come per le penalità di mora[23] esse furono invece negate perché sprovviste di una base legale di riferimento.


Si stavano sviluppando tentativi volti a trovare, al più, una giustificazione dogmatica all’esecuzione indiretta, di cui la dottrina cercava di dimostrare la compatibilità rispetto ai principi generali dell’ordinamento italiano.


L’esigenza di un rimedio esecutivo adeguato era tuttavia avvertita, soprattutto in presenza di una resistenza da parte del debitore non solo passiva (ex articolo 1220) ma anche attiva, effettuata tramite opposizione agli atti di esecuzione materiale del creditore.


Altra problematica verteva sulle modalità con cui offrire a quest’ultimo idonea protezione esecutiva per distruggere ciò che la controparte avesse realizzato contravvenendo all’obbligazione di “non fare”.


Tra i contributi dottrinali italiani BORRE’ ha ricordato la riflessione di FERRARA, il quale seppe fornire una base teorica all’esecuzione indiretta[24].


De iure condendo la dottrina auspicava la elaborazione di uno specifico regime di esecuzione indiretta per le obbligazioni di fare e di non fare: L. MORTARA, ad esempio, intravvedeva la possibilità di utilizzare lo strumento (comunque necessariamente sobrio e preciso per le varie categorie di prestazioni derivanti da obblighi di fare) della sanzione pecuniaria per coercire determinati doveri di diritto pubblico. Tra questi, in modo da costringere ad adempiere l’obbligo di testimoniare, egli riteneva possibile l’impiego della pena pecuniaria e del risarcimento dei danni ex articolo 239 del c.p.c. postunitario, a carico dei testimoni renitenti: la suddetta disposizione si sarebbe dunque potuta considerare quale riferimento normativo per un sistema applicabile all’esecuzione di qualsiasi obbligazione di fare strettamente personale.


Alcuni Autori[25] hanno concordato sull’opportunità di concedere legislativamente al Giudice un potere di comminatoria; altri, come BETTI, hanno teorizzato la corrispondenza di un siffatto sistema allo spirito posto alla base dell’evoluzione tendente a una maggiore cooperazione economico-sociale del rapporto obbligatorio.


Il riflesso di tali risultati, in seguito, si ebbe anche nel già citato Progetto Carnelutti per il codice di procedura civile.


In Francia, nonostante la carenza di un istituto di vera e propria esecuzione diretta degli obblighi di fare e di non fare, la giurisprudenza si concentrava sul rispetto per le convenzioni legalmente formate (articolo 1134 c.c. francese), la cui esecuzione non sarebbe potuta rimanere affidata al mero arbitrio degli obbligati.


Dall’altro lato, però, la impraticabilità dell’esecuzione forzata di alcune categorie di obbligazioni, per considerazione d’ordine materiale e morale, portava inevitabilmente ad avvertire l’utilità di un mezzo di coazione indiretta capace di agire quale fattore determinante nel campo della libera volontà del debitore: era la cosiddetta astreinte.


In Italia, invece, non si era nel frattempo sviluppato un fenomeno parallelo, a parte alcune settoriali decisioni prevedenti una sanzione pecuniaria tanto maggiore quanto più dilatato fosse stato il tempo dell’inadempimento.


Solo tra gli Anni ‘30 e ‘40 maturarono, nel nostro ordinamento giuridico, le condizioni necessarie alle prime introduzioni legislative delle astreintes; nonostante ciò, la giurisprudenza non ha per lungo tempo riconosciuto la presenza di tale istituto, ritardando il processo di avvicinamento a quanto avvenuto Oltralpe.


La ragione di questo mancato allineamento era spiegabile osservando l’ossequio ai limiti del potere giurisdizionale e alle disposizioni legislative di diritto processuale che in Italia tradizionalmente prevalevano.


Nonostante lo scarso numero di comminatorie giudiziali, degna di nota è stata ad esempio la sentenza della Corte di Appello di Catania del 12 marzo 1915, la quale, a proposito dell’esecuzione di una obbligazione di non fare, decise che il Giudice potesse assicurare l’esecuzione del giudicato mediante la comminatoria di una penale.


A parte questi sporadici casi però non si sono registrati altri autorevoli precedenti giurisprudenziali, ragion per cui è evidente la mancanza di una costante pratica giudiziaria in materia di esecuzione processuale indiretta[26].


Ancora negli Anni ’40, all’interno del codice di rito italiano, vigeva la estraneità di misure simili alle astreintes francesi, unanimemente respinte dagli Autori italiani salvo qualche tentativo di giustificazione e di ricostruzione scientifica.


La legge, invece, concedeva ampia discrezione nella preventiva determinazione del danno tramite pena convenzionale ma riservando tale facoltà alle parti e non al magistrato.


La sentenza emessa da un’autorità giurisdizionale, infatti, mai avrebbe potuto imporre a scopo comminatorio o di indiretta coazione una somma superiore all’entità dei futuri reali danni, altrimenti attribuendo al risarcimento un carattere punitivo.


Fino alla novella del 2009 il legislatore italiano non ha mai previsto misure esecutive indirette: in realtà queste ultime avrebbero costituito un mezzo necessario al creditore per ottenere sul piano giuridico concreto la soddisfazione di obblighi di fare infungibili o per tutelarsi preventivamente rispetto alla violazione degli obblighi di non fare.


Nell’ambito delle obbligazioni di fare contratte intuitu personae e quindi non surrogabili, si riteneva che il diritto di usufruire del meccanismo esecutivo confliggesse con limitazioni di ordine sia soggettivo che oggettivo.


Confrontando brevemente l’impostazione del c.c. del 1865 e la disciplina vigente, si può sottolineare come l’ iter seguito in passato, ex artt. 1220 e 1222, concedesse all’avente diritto un mezzo di autotutela per obblighi di fare e di non fare.


A tal proposito è però necessario ravvisare la differenza rispetto a sistemi di altri Paesi, tra cui la Germania, in cui un simile procedimento è configurato quale fenomeno di vera e propria esecuzione forzata, anche in presenza di una “autorizzazione” mediante la quale lo stesso creditore possa provvedere al fare o al distruggere.


Invece, nell’allora vigente codice italiano, l’autorizzazione del creditore non costituiva parte integrante del sistema della tutela esecutiva ma era anzi la fase finale del giudizio di cognizione.


Dopo la condanna non era previsto un distinto esercizio dell’azione esecutiva nella forma di una richiesta del creditore per essere così autorizzato a surrogarsi, ottenendo soddisfazione ma anzi la cosiddetta autorizzazione era oggetto della stessa pronuncia dichiarativa.


Operando una analisi dell’articolo 1222, in particolare, si è ritenuta possibile non solo la menzionata autorizzazione ma anche la possibilità per il soggetto attivo di chiedere la distruzione di quanto fatto da controparte contravvenendo all’obbligazione di non fare.


Condanna e autorizzazione rappresentavano dunque parallele e distinte alternative e non invece l’una il presupposto dell’altra (come è tipicamente configurato il rapporto tra condanna ed esecuzione forzata).


La prospettiva divenuta in seguito vigente è stata opposta, presupponendo, dopo la condanna, una alternativa fra adempimento spontaneo e tutela esecutiva ai sensi dell’articolo 612, indipendente rispetto al processo di cognizione.


Una delle maggiori carenze del processo civile esecutivo appariva comunque data dall’assenza di previsione di specifici strumenti a tutela degli obblighi infungibili: il solo risarcimento, infatti, non forniva al creditore l’esatta utilità che invece sarebbe stata necessariamente dovuta[27].


Le misure coercitive indirette avrebbero rappresentato un istituto non tanto caratterizzato dalla finalità risarcitoria, in ciò differenziandosi dalla clausola penale, quanto indirettamente volto a fornire una tutela specifica incidendo sulla volontà del debitore per vincere la sua resistenza e rendere più conveniente l’adempimento.


L’obiettivo non è riparare il pregiudizio subìto dal creditore ma sanzionare la disobbedienza a un ordine del Giudice, così confermando come tale strumento sia volto all’esercizio sul soggetto passivo di pressione e intimazione necessarie a uno spontaneo adempimento da parte sua.


In tale dimensione, il tema dei mezzi coercitivi indiretti si lega con quello delle “pene private”, minacciate e imposte in un giudizio civile su richiesta di una parte e a suo vantaggio.


Ne è dunque esaltata non la funzione risarcitoria ma quella sanzionatoria, anche se esse rimangono misure civili individuabili solo in quanto espressamente previste ex lege[28].


A prescindere dal breve excursus storico appena percorso, è da ricordare come, prima dell’ultimo recente intervento in ambito processuale, siano stati utilizzati anche gli artt. 388 e 650 del codice penale[29], in modo da sanzionare gli inadempimenti colpevoli dei doveri infungibili, qualificandoli “reato”.


A. PROTO PISANI aveva proposto un’interpretazione estensiva di tali due disposizioni[30], ritenuta però inattuabile non solo attraverso “argomentazioni puramente valutative, ma anche con obiezioni di carattere tecnico giuridico che ne colpiscono alcuni aspetti essenziali[31].


Egli, richiamando un testo di G. VASSALLI del 1938 (peraltro in seguito abbandonato dal suo stesso Autore), ha innanzitutto cercato di dimostrare che l’articolo 388 c.p. potesse essere imposto per tutelare qualunque fattispecie sprovvista del rimedio dell’esecuzione forzata e in secondo luogo ha inteso la norma come fosse idonea a garantire piena attuazione alla tutela di condanna in ambito civile a fronte del fatto che fosse l’autorità della decisione giudiziaria il bene protetto dalla norma e non invece l’efficacia esecutiva della sentenza in senso stretto.


Il suddetto comma è prospettato quale rimedio di portata generale particolarmente utile nell’ipotesi di condanna a obblighi infungibili o quando la condanna, oltre a reprimere gli effetti di una già compiuta violazione, miri a esplicare una funzione preventiva.


In tali casi sembra sussistere quel medesimo grado di efficacia e di generalità che caratterizza il rimedio coercitivo angloamericano del Contempt of Court.


Argomento a sfavore del collegamento tra le sfere civile e penale potrebbe essere il conseguente eccessivo squilibrio pubblicistico, malgrado la presenza di un obbligo di tipo civile: la stessa disposizione legislativa subordina la punizione dell’inadempiente alla previa ingiunzione del creditore affinchè il debitore esegua la sentenza emessa in suo favore e la prevista procedibilità a querela riequilibra il rapporto tra l’interesse pubblico collettivo, teso all’osservanza degli obblighi accertati in una sentenza civile di condanna e quello privato, relativo all’attuazione del provvedimento giurisdizionale.


G. MONTELEONE all’inizio degli Anni ’80 ha anche evidenziato le negative conseguenze che deriverebbero dalla introduzione di un siffatto sistema, quasi “poliziesco”, correlato a un pressocchè illimitato potere politico esercitabile nei confronti dei singoli cittadini[32]. Il risultato dell’analisi condotta dall’Autore dimostra come l’utilizzo auspicato da PROTO PISANI degli artt. 388 e 650 c.p. sarebbe infondato e contrario al diritto positivo[33].


In dottrina si è negata la possibilità di estendere l’applicazione dell’articolo 388 c.p. in via analogica, in ragione del principio di tassatività tipico del campo penale, circoscrivendolo invece alle sole ipotesi di condanna eseguibili in forma specifica o tramite la configurazione del reato in quanto diretto contro l’esecuzione forzata del provvedimento del Giudice e quindi tenendo in considerazione solo i casi in cui l’esecuzione forzata risulti, almeno potenzialmente, esperibile.


Problematiche ulteriori presentava anche l’elemento psicologico richiesto dal comma 1 dell’articolo 388 c.p., il cui reato si sarebbe perfezionato qualora l’autore avesse manifestato la precisa volontà di eludere il provvedimento del Giudice con modalità particolarmente riprovevoli. L’ambito di applicabilità della norma sarebbe così notevolmente limitato.


Nonostante si possa constatare che, invece, la norma contenuta nel comma 2 della disposizione codicistica richieda solo l’elemento del dolo generico (a differenza, quindi, della necessaria commissione di atti fraudolenti e della presenza del dolo specifico, propri del comma 1 del medesimo articolo), è vero anche che la norma si riferisca tassativamente all’inesecuzione di misure cautelari o di provvedimenti concernenti l’affidamento dei minori.


L’unica conseguenza, quindi, dovrebbe essere la previsione ex lege di una adeguata tutela per i provvedimenti di cui all’articolo 700 c.p.c. ma non si può certamente giungere a considerare la norma sulla “Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del Giudice” quale rimedio a portata generale.


PROTO PISANI[34], aveva ritenuto che anche l’articolo 650 c.p. potesse essere applicato alla generalità delle fattispecie in concreto verificatesi e precisamente laddove non sussistessero gli estremi di un più grave reato come quanto previsto ad esempio ex articolo 388 c.p e senza la necessità dei requisiti soggettivi della frode, della simulazione e del dolo specifico[35].


Esaminando singolarmente le varie espressioni terminologiche che ricorrono nell’articolo 650 c.p., è facile attribuire al termine “Autorità” anche il significato di “autorità giudiziaria”, così come all’inciso “provvedimenti dati per ragione di giustizia” il valore di “sentenza”.


In un simile contesto è molto importante ricordare quanto perviene dalle tecniche di interpretazione[36], cercando quindi di evitare qualsivoglia confusione mentale: l’espressione “provvedimenti dati per ragione di giustizia”, la cui inosservanza è punita dall’articolo 650 c.p., si rivolge infatti a provvedimenti oggettivamente amministrativi a prescindere dal soggetto loro autore.


Un ulteriore elemento di critica nei confronti dell’applicazione dell’articolo 650 c.p., all’interno dell’ambito in esame, promana dalla considerazione per cui esso, in quanto reato contravvenzionale, sarebbe incapace di costituire un rimedio coercitivo indiretto efficace.


È vero però che la sussistenza di una contravvenzione piuttosto che di un delitto rappresenti un fattore positivo di vantaggio, in quanto, ai sensi dell’articolo 42 c.p., “Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa” e dunque risulta sufficiente l’elemento psicologico della colpa per applicare la relativa sanzione.


CHIARLONI[37] si è pronunciato in totale disaccordo con VASSALLI[38], il quale ultimo aveva dedicato una monografia al tema della mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del Giudice, ex articolo 388 c.p.


Critiche sono dunque derivate anche nei confronti del tentativo di PROTO PISANI di riaccreditare la versione della citata opera di fine Anni ’30.


MONTELEONE ha espressamente affermato che, una volta verificatosi l’inadempimento, il creditore non potrebbe mai, attraverso i mezzi giurisdizionali, essere soddisfatto in via specifica ma solo conseguire il corrispettivo economico-patrimoniale della prestazione[39].


Attraverso l’iter svolto, secondo l’Autore, si giungerebbe all’effettiva operazione concettuale condotta dai fautori delle misure coercitive e penali in tema di obbligazioni civili. L’obiettivo non sembrerebbe dunque permettere al creditore di conseguire al meglio il diritto soggettivo di cui sia titolare ma di penetrare significativamente nel sistema delle libertà civili, realizzando una regressione ai sistemi tipici dell’epoca medievale o romano-arcaica, ove si riteneva che il vincolo si incentrasse direttamente sulla persona fisica dell’obbligato.


Non si considererebbero così in alcun modo le conquiste raggiunte nel passaggio alla moderna coscienza civile e giuridica, il cui presupposto è stato radicare le conseguenze dell’inadempimento eventualmente concretizzatosi nell’ambito patrimoniale e non più personale.


Il senso invece della recente introduzione dell’articolo 614 bis, dedicato alle misure coercitive indirette, è espressione anche di alcuni fondamentali principi previsti in Costituzione, come uguaglianza e difesa, a tutela dei creditori che non possano avvalersi dello strumento dell’esecuzione in forma specifica.


In tale ambito, la Legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 ha inserito il principio del “giusto processo” nell’articolo 111 della Carta fondamentale[40], inducendo ad analizzare l’incidenza in concreto della norma sulla tutela esecutiva.


N. TROCKER, riportando quanto affermato dal giurista M. CAPPELLETTI, nel commento alla sentenza n. 70 del 1961, in materia di articolo 24 Cost., ha affermato che “Come espressione di un modello di processo che trae la sua legittimazione non da particolari pregi tecnici ma da valori costituzionalmente condivisi, la nozione di ‘giusto processo’ viene usata anche da quella parte della dottrina processualistica che – a partire dagli inizi degli anni ’60 e per almeno un ventennio – sulla scia degli scritti anticipatori di Calamandrei (e degli studi di Eduardo Couture) contribuisce alla concretizzazione delle garanzie processuali costituzionali (anche attraverso l’impiego delle esperienze di diritto comparato) e dialoga con la giurisprudenza sul terreno della legittimità costituzionale verificata nel concreto[41].


Inoltre, sempre considerando le parole di CAPPELLETTI, si è affermato come il processo debba necessariamente e obbligatoriamente essere garantista in quanto, altrimenti, non si potrebbe configurare quale due process of law[42].


Proprio il diritto all’esecuzione dei provvedimenti è diventato, nell’ottica della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo[43], la terza grande garanzia da assicurare in giudizio. Al fine di concretizzare il diritto di azione e il principio del giusto processo dev’essere necessariamente conseguita l’effettività della tutela realizzatrice del bene della vita richiesto.


L’auspicata effettività della tutela esecutiva richiama il tema delle misure coercitive, ritenendosi ormai superata l’endiadi condanna-esecuzione forzata prevista nelle forme del Libro III del c.p.c.


In passato si era posto l’interrogativo circa l’opportunità di introdurre nel nostro ordinamento una previsione generale di pena pecuniaria per i casi di inadempimento di ordini giudiziali, ricollegando tale esigenza al disegno di attuazione del precetto costituzionale dell’effettività della tutela esecutiva[44].


Il testo della Costituzione italiana non prevede direttamente disposizioni volte ad assicurare l’effettività della tutela ma nessun dubbio può muoversi riguardo la sua essenzialità per il diritto di azione e per la nozione stessa di “giusto processo”.


Quanto al ritardo con cui fino a tempi recenti è rimasta insoddisfatta l’esigenza di colmare, attraverso misure coercitive, i vuoti lasciati da forme di esecuzione diretta non del tutto adeguate, probabilmente la relativa motivazione è fondata proprio sulla difficoltà di scegliere se configurare le misure di coazione quali pene esecutive o quale forma di risarcimento del danno provocato dall’inadempimento o dal ritardo nell’adempiere.


A lungo si sono succedute soluzioni più o meno condivisibili relative a una interpretazione, estensiva o analogica, di norme già previste in specifici settori dell’ordinamento giuridico e intese a soddisfare le diverse situazioni giuridiche prospettate.


Soltanto nel 2009, però, il legislatore è intervenuto in via definitiva, tramite la L. n. 69, ponendo così rimedio al grave e risalente vulnus in materia.


4. La riforma del processo civile italiano con specifico e puntuale riferimento al nuovo articolo 614 bis c.p.c.


Tra i più recenti contributi in tema di astreintes è da segnalare in primo luogo la introduzione del comma 5 bis nell’articolo 3 della Legge 30 luglio 1998, n. 281, su “Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti”, a opera dell’articolo 11 della Legge 20 febbraio 2002, n. 39, relativa all’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee[45].


Le critiche della dottrina si focalizzarono specialmente sull’effettività di una simile tutela per il fatto che le associazioni di consumatori sarebbero state il soggetto attore in giudizio e che l’Erario dello Stato avrebbe beneficiato del pagamento della sanzione, eliminando così il carattere di “pena privata” per la misura in esame ma al contempo conservando la natura di “forma di pressione” all’adempimento volontario.


In seguito l’articolo 2, c.2 della Legge 8 febbraio 2006, n. 54, in materia di separazione dei genitori e di affidamento condiviso dei figli, inserì nel c.p.c. l’articolo 709 ter, secondo cui, in caso di gravi inadempienze oppure di atti pregiudizievoli per il minore o comportanti difficoltà a un corretto svolgimento delle modalità di affidamento, il Giudice adito può, in aggiunta e anche d’ufficio, condannare il genitore inadempiente al pagamento nella cassa delle ammende di una sanzione amministrativa pecuniaria compresa tra i 75 e i 5.000 euro.


In tal caso però è la medesima lettera della norma a qualificare tale misura come “sanzione amministrativa pecuniaria”, il cui ammontare tra l’altro non risulta costruito progressivamente né devoluto al creditore della obbligazione inadempiuta.


In applicazione dell’articolo 49, c.1 della L. 69/09 è stato introdotto nel codice di rito italiano l’articolo 614 bis e si è quindi prevista la generalizzazione di una misura coercitiva a contenuto pecuniario applicabile laddove il provvedimento di condanna del Giudice si riferisca a obblighi di fare infungibili o di non fare, sia pure con alcune significative eccezioni di dubbia legittimità costituzionale[46].


La nuova norma è stata collocata all’interno del Titolo IV del Libro III del codice di rito, intitolato “Dell’esecuzione forzata di obblighi di fare e di non fare”, pur qualificando competente alla concessione della misura coercitiva il Giudice della cognizione.


F. LUISO ha proprio per questo affermato l’errore sistematico del legislatore nell’individuare come oggetto dell’esecuzione non il diritto sostanziale da tutelare bensì il provvedimento[47].


Ne sono scaturiti alcuni delicati problemi di coordinamento e l’esclusione dalla tutela esecutiva indiretta dei titoli esecutivi differenti dai “provvedimenti di condanna” (specialmente se resi in sede stragiudiziale).


L’ambito applicativo di tale norma non si riferisce a un settore specifico dell’ordinamento ma alla “attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare”, genericamente indicati: nonostante questa constatazione, alcuni Autori[48] ritengono sia eccessivo attribuire carattere generale alla misura ivi prevista, non dovendosi estendere al di là delle ipotesi espressamente considerate e quindi non in riferimento agli obblighi propri del Titolo IV e alla rubrica dell’articolo medesimo[49].


La possibilità di impiegare la norma in esame si rivolgerà alle prescrizioni di non facere giudizialmente statuite e, in generale, a obblighi incoercibili del tutto o solo parzialmente a causa dell’esistenza di una quota di infungibilità della prestazione; non così, invece, per eseguire pronunce di condanna pecuniaria.


La eventuale sovrapposizione di tali ipotesi con quelle singolarmente e già da tempo previste dall’ordinamento italiano[50], provoca la questione relativa al concorso tra misure, che, tuttavia, sembra trovare soluzione nella prevalenza delle norme di settore in base al principio lex specialis derogat legi generali.


I legislatori di alcuni importanti ordinamenti europei si sono espressi diversamente: ad esempio in Germania il par. 888 c.2 della Z.P.O. dispone che le misure coercitive pecuniarie non possano accompagnare condanne riguardanti la vita matrimoniale nè condanne a prestazioni di lavoro intese in senso generale.


La lacuna presente nell’ordinamento italiano fino alla recente novella del 2009 era stata più volte sottolineata dalla dottrina, soprattutto con riguardo all’effettività di una tutela giurisdizionale che, garantendo al creditore soltanto l’equivalente monetario del diritto violato, avrebbe posto in crisi il principio di priorità dell’esatto adempimento. Grazie a tale criterio la tutela risarcitoria, qualificata come extrema ratio tra le possibili soluzioni del titolare del diritto, si rivela sostanzialmente inidonea ad assicurare l’attuazione della legge, soprattutto in settori dell’ordinamento ove le esigenze di tutela appaiono particolarmente forti per la rilevanza degli interessi coinvolti.


Si allude al settore dei rapporti di famiglia o di lavoro tra cittadini e Stato ma anche relativi alle libertà sindacali, in cui la previsione costituzionale dei valori è parallela all’emersione di situazioni di vantaggio nuove, a carattere individuale o sovra individuale.


A causa della impossibilità o della natura non del tutto satisfattoria del risarcimento, le ordinarie forme di tutela risultano inadeguate.


Da tali situazioni promanano infatti posizioni soggettive che, avendo a oggetto una prestazione dal contenuto esclusivamente o prevalentemente non patrimoniale, poco si prestano, in caso di violazione, a essere convertite nel rispettivo equivalente pecuniario. Quest’ultimo risulta essere un adeguato surrogato solo ove la prestazione abbia un contenuto integralmente riconducibile a un valore economico.


Sono stati sollevati diversi rilievi rispetto al nuovo articolo introdotto: uno tra questi attiene alla tecnica legislativa utilizzata.


La rubrica dell’articolo 614 bis c.p.c. recita “Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare” mentre il testo della relativa disposizione compie un generico riferimento alla pronuncia di un “provvedimento di condanna”, senza specificare che l’applicazione della misura coercitiva presupponga un obbligo di fare infungibile o di non fare quale contenuto del provvedimento indicato.


La misura coercitiva in esame, la cui natura sembra tipica di una pronuncia “di rito” piuttosto che “di merito”[51], rileva soprattutto per provvedimenti di condanna a prestazioni di “fare infungibile” o di “non fare”, non potendo comunque escludere il riferimento anche a provvedimenti di condanna alla “consegna” e al “rilascio” di beni mobili e immobili rispettivamente [52].


Non sembra chiaro il motivo che ha indotto il legislatore a non riprendere, nella formulazione della disposizione, il rinvio della rubrica a “obblighi di fare infungibile o di non fare”.


Di conseguenza sono sorti dubbi interpretativi sulla possibilità di attribuire maggior rilievo al testo della norma piuttosto che alla sua rubrica.


Il legislatore italiano non ha consentito di richiedere la revisione della sanzione, aprendo a pratiche difficoltà nell’applicazione della stessa, specialmente quando, per il mutamento delle circostanze, risulti iniquo l’utilizzo successivo della penalità di mora comminata al momento della condanna.


In base alla tesi estensiva che considera specificamente l’utilizzo da parte del legislatore della locuzione “provvedimento di condanna”, la misura può applicarsi non solo alle sentenze pronunciate in primo o in secondo grado ma anche ad altri provvedimenti di condanna a un facere infungibile o a un non facere. Si considerano soprattutto i provvedimenti cautelari[53], i provvedimenti interdittali di giudizi possessori, i decreti emessi inaudita altera parte ex articolo 669 sexies c.2 c.p.c. e i provvedimenti presidenziali o dell’istruttore nei giudizi di separazione e divorzio.


Nel caso della esecuzione di un provvedimento a carattere endoprocessuale, come l’ordine di ispezione, si nega senza dubbio, per il fatto che l’applicazione debba seguire una condanna, che la sentenza possa essere irrogata a garanzia della sua attuazione.


Con tale misura non è possibile rafforzare l’attuazione di provvedimenti a contenuto processuale, specie se istruttori, in quanto mancherebbe il presupposto strutturale della condanna; medesimo ragionamento è possibile per il capo sulle spese, a fronte del contenuto meramente pecuniario dell’obbligazione ivi riconosciuta.


Quanto alla natura dell’atto idoneo a contenere la misura, si può senz’altro equiparare alla sentenza il lodo rituale di condanna omologato, previsto agli artt. 824 bis e 825 c.p.c.


L’uso del termine “provvedimento” però esclude dal campo di applicazione obblighi infungibili sanciti da un titolo esecutivo non giudiziale, quali i verbali di conciliazione stragiudiziali o gli atti pubblici.


E. MERLIN sostiene che, per la chiarezza letterale della norma e per precise ragioni sistematiche, non siano da includere anche le sentenze di mero accertamento o costitutive, pur se relative a obblighi infungibili. Di opinione differente appare invece C. CONSOLO[54].


L’introduzione dell’articolo 614 bis aspira a rendere effettivo l’adempimento di obblighi di fare infungibile o di non fare rispetto ai quali i tradizionali strumenti codicistici dell’esecuzione forzata “diretta” si presentano inadeguati.


Sul modello delle astreintes francesi, la misura coercitiva in esame, da molti Autori ritenuta dotata di un carattere generalizzato, potrà essere inserita all’interno di un qualsiasi provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi di fare infungibile o di non fare; del relativo ammontare versato beneficerà l’avente diritto che abbia richiesto il provvedimento di condanna (diversamente, quindi, dalle misure tedesche delle Zwangsstrafen).


Si è seguita l’esigenza di evitare che il creditore di un’obbligazione di fare infungibile o di non fare potesse, a causa del successivo comportamento inadempiente di controparte, promuovere un altro giudizio volto all’accertamento ex post della violazione.


In capo al creditore non è previsto alcun onere di provare la violazione o la inosservanza dell’obbligato: egli dovrà solo affermarne, in modo preciso e puntuale, la sussistenza nell’ambito dell’atto di precetto. Nel caso di un obbligo di non fare è necessario allegare gli specifici episodi di violazione intervenuti; per gli obblighi di fare invece dovrebbe essere sufficiente la chiara affermazione del persistente inadempimento o della solo parziale o tardiva esecuzione.


Dato che gli obblighi di fare infungibili e di non fare sono insuscettibili di attuazione ai sensi degli artt. 612 ss. c.p.c., diversamente da quanto prevede il modello francese, non è possibile che misura coercitiva ed esecuzione forzata si cumulino, sia pure limitatamente all’applicabilità provvisoria della sanzione per ottenere una coattiva attuazione dell’obbligo o la irrogazione della stessa in senso proporzionale al relativo ritardo.


Proprio a quest’ultimo riferimento sono state sollevate in dottrina alcune perplessità: non è infatti previsto alcun criterio cronologico cui ancorare l’inadempienza del debitore.


La soluzione potrebbe essere ottenuta tramite la previsione, nel provvedimento giurisdizionale che concede la misura, del termine entro cui il debitore obbligato potrebbe evitarne l’applicazione e dell’importo dovuto per ciascuna unità di tempo del protratto inadempimento.


Ulteriore difficoltà potrebbe sorgere per il caso di inadempimento delle obbligazioni di fare, ove il debitore abbia tenuto una condotta elusiva, pretendendo di aver eseguito la prestazione senza però soddisfare l’interesse del creditore.


La pronuncia della misura coercitiva è espressamente subordinata a una istanza presentata in tal senso dalla parte interessata, prescindendo da stato e grado del procedimento e finalizzata all’inserimento di un elemento accessorio alla pronuncia di condanna.


L’eventuale quantificazione ad opera dell’istante della somma, unica o progressiva, al pagamento della quale si chiede che controparte venga condannato, in caso di inadempimento o ritardato adempimento dell’obbligazione principale, non importa modificazione del valore della causa ai fini della determinazione della competenza ex artt. 7 ss. c.p.c.[55]. Data la mancata previsione di limiti di valore, la sanzione pecuniaria inserita e quantificata potrà essere comminata anche dal Giudice di pace, limitatamente alla sua propria competenza per valore.


Qualora il creditore abbia già intrapreso le attività prodromiche all’esecuzione forzata o abbia concretamente iniziato l’esecuzione, la sua controparte eventualmente opererà in giudizio tramite opposizione a precetto o all’esecuzione, rispettivamente ai sensi dei commi 1 e 2 dell’articolo 615 c.p.c.


Rileva sottolineare come tale misura non possa essere pronunciata d’ufficio dal Giudice.


Le linee emerse definiscono due soluzioni differenti sui termini di presentazione della domanda di adozione di misure coercitive: da un lato l’istanza di parte, prevedendo la pronuncia di una misura che si aggiunga al provvedimento di condanna principale, dovrebbe essere avanzata in un momento antecedente all’emanazione di quest’ultimo e nel rispetto delle preclusioni previste dalla disciplina del processo relativa alla pronuncia del provvedimento di condanna[56].


Dall’altro lato, invece, ritenendo che il richiedente miri a ottenere un mezzo affinché la prestazione dedotta in giudizio sia adempiuta in forma specifica e non invece per introdurre circostanze nuove in giudizio, la domanda, mera conseguenza della domanda originariamente proposta, non dovrebbe sottoporsi alle preclusioni di cui all’articolo 183 c.p.c. e quindi non sarebbe inammissibile mutatio libelli.


A fronte della stretta correlazione prevista attualmente nell’ordinamento italiano tra “provvedimento di condanna” e misura coercitiva, non sembrerebbe possibile pervenire a quest’ultima in via autonoma, successivamente all’emanazione del provvedimento principale[57]. In tal senso dispone infatti la lettera della norma in esame, nel suo comma 1: “Con il provvedimento di condanna il Giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva (…)”. Malgrado riflessioni contrarie non si è ritenuto configurabile il caso in cui il Giudice adito ignori la richiesta del creditore interessato al provvedimento di condanna.


Dalla costruzione stessa della norma, che appunto ricollega la pronuncia di una sanzione coercitiva alla previa emanazione di un “provvedimento di condanna”, è stato opportunamente rilevato che la naturale sedes materiae della misura pecuniaria sia il corpus di norme relativo alla decisione della causa[58].


Il legislatore italiano, a differenza di quello francese, prescrivendo “Con il provvedimento di condanna”, imporrebbe quindi un rapporto di contestualità tra il provvedimento di condanna a un facere infungibile e la emanazione della misura coercitiva indiretta.


Di conseguenza, proprio alla luce del suddetto dato testuale, non sembra ammissibile che la richiesta del creditore si rivolga al medesimo Giudice competente per il provvedimento di condanna in modo non tempestivo, oltre i confini della fase cognitiva, oppure, e a maggior ragione, al Giudice dell’esecuzione.


Tuttavia tale scelta è apparsa criticabile. Alcuni Autori avrebbero giudicato corretto e maggiormente opportuno, infatti, proprio per la particolare natura delle obbligazioni di fare infungibile o di non fare, che il beneficiario della condanna potesse ricorrere allo stesso Giudice della cognizione anche successivamente alla emanazione del provvedimento di condanna e solo allora ottenere la pronuncia relativa alla misura coercitiva pecuniaria.


In dottrina è stata infatti prospettata la tesi per cui la domanda possa essere avanzata anche in un successivo e separato giudizio, consentendo agli interessati di avvalersi della misura coercitiva per situazioni giuridiche ormai dedotte in giudizio, instaurando un nuovo processo e ottenendo che i provvedimenti emessi al termine di giudizi instaurati prima dell’entrata in vigore dell’articolo 614 bis c.p.c. siano comunque provvisti di sanzione.


Problematica è quindi stata la attribuzione al solo Giudice della cognizione del potere ex articolo 614 bis c.p.c.: il suddetto Giudice deve convincersi di essere in presenza di obblighi infungibili, rigettando invece la richiesta del creditore ove ritenga il contrario.


In proposito è importante anche comprendere se tale “accertamento” sia o meno vincolante: in altri termini, è necessario domandarsi chi stabilisca in via definitiva se si tratti effettivamente di obblighi da dotare di misura coercitiva o di obblighi che invece ammettano i meccanismi ex artt. 612 ss. c.p.c.


A fronte dell’intervenuta valutazione sulla “infungibilità” dell’obbligo, occorrerebbe domandarsi se tale primaria attività giurisdizionale possa essere contestata.


Ex articolo 33 della Legge francese 650/91 è previsto che il Giudice competente per l’esecuzione eventualmente stabilisca l’astreinte per una decisione anche resa da altro Giudice e ove lo richiedano le circostanze.


Alcuni Autori hanno infatti ritenuto che, grazie all’intervento del legislatore, la misura coercitiva pecuniaria possa rientrare nella sede sua propria, quella esecutiva.


E’ inoltre stato affermato che, nonostante la lettera della norma, il legislatore italiano avesse intuito lo stretto collegamento tra l’articolo 614 bis e il Libro III del c.p.c., appunto intitolato “Del processo di esecuzione”, disponendone di conseguenza l’attuale precisa collocazione.


La contraddizione deriva però dalla previsione che la misura in esame debba essere disposta esclusivamente all’interno della sentenza emanata da parte del Giudice della cognizione.


Sembra comunque corretto aver stabilito sia quest’ultima autorità giurisdizionale a dotare il provvedimento di condanna della misura coercitiva ex articolo 614 bis c.p.c. poiché, come già rilevato, è essa ha funzione di tipo preventivo.


A tal proposito riteniamo di poter richiamare il contenuto della disposizione di cui all’articolo 1353 c.c., secondo cui “Le parti possono subordinare l’efficacia o la risoluzione del contratto o di un singolo patto a un avvenimento futuro e incerto”. Ancora una volta si ribadisce dunque lo stretto collegamento tra disciplina sostanziale e disciplina processuale, sia pure speculandolo da una ben determinata prospettiva.


E’ possibile costruire la misura coercitiva nel modo in cui opera la “condanna condizionale”[59]: all’eseguibilità della condanna si perviene al verificarsi di una determinata condizione[60].


Nonostante quanto premesso, è bene sottolineare come C. CALVOSA, tra gli altri, abbia invece rifiutato l’idea che una sentenza di condanna potesse contenere una determinazione accessoria e che quindi, almeno teoricamente, fosse ammissibile una condanna condizionale[61].


Un eventuale accostamento è riscontrabile tra la pronuncia di cui all’articolo 614 bis e la condizione sospensiva: l’efficacia della stessa dipenderà dal verificarsi in concreto dell’inadempimento o anche solo in mancanza di tempestivo adempimento.


Si deve anche parimenti ricordare però come la “condizione” codicistica sia un meccanismo di autonomia privata e quindi, propriamente, uno strumento di libertà contrattuale. La predisposizione della sanzione di cui all’articolo 614 bis c.p.c. scaturisce invece da una istanza del creditore in tal senso, accolta dal Giudice, senza alcun previo accordo con il debitore.


Di conseguenza, seguendo una simile ricostruzione, la sanzione pecuniaria in esame rimane inefficace fino al concretizzarsi del fatto condizionante[62].


Attraverso siffatta previsione il rischio di inadempimento o di ritardo nell’attuazione della prestazione attesa dovrebbe essere neutralizzato.


Dalle precedenti considerazioni si deduce che non sarebbe stato rispettoso della sottolineata ratio legislativa prevedere la facoltà di disporre la misura in capo al Giudice dell’esecuzione o rendere eventualmente possibile la instaurazione di un procedimento ad hoc, successivo alla fase di cognizione.


L’applicazione dell’istituto previsto dalla nuova disposizione compete al Giudice della cognizione in quanto autorità dotata della migliore posizione per valutare il “se” e il “quanto” della sanzione, in base agli elementi indicati dallo stesso articolo 614 bis c.p.c.


Di “inadempimento” non può parlarsi riguardo alle sentenze costitutive cosiddette necessarie; diversamente invece per le sole sentenze costitutive “non necessarie”.


A tal fine non sarebbe ammissibile riqualificare “la tutela costitutiva nei termini di una forma specifica di condanna in senso lato, pur ammettendosi con la miglior dottrina che le sentenze costitutive hanno in sé il carattere dell’essere self-executing: invero, oltre alla collocazione sistematica della norma, vi è soprattutto la considerazione che per queste situazioni la misura coercitiva è esclusa dal potere del Giudice di intervenire direttamente, modificandolo o attuandolo, sul rapporto sostanziale, sicchè verrebbe meno ogni funzione comminatoria, risolvendosi il tutto in un giudiziale aggravamento del risarcimento del danno; il che sembra essere contrastante con la funzione della norma, oltre che con la sua lettera[63].


Forse alcuni dubbi può suscitare il previsto allargamento dell’ambito dei poteri attribuiti al Giudice della cognizione, sia pure configurandolo “necessario” in accoglimento della tesi che riscontri in tale autorità l’unica competente a pronunciarsi sulla nuova sanzione coercitiva.


Partendo dalla fisiologica ma ormai anche patologica lentezza tipica del giudizio civile, la previsione in argomento, richiedendo una valutazione giudiziale inerente non solo al carattere di “infungibilità” della prestazione richiesta perché inadempiuta ma anche al quantum della stessa, rallenterebbe ulteriormente i meccanismi processuali, aggravandoli.


E’ però evidente che solo l’esperienza giurisprudenziale potrà, in futuro, dar risposta al quesito e alla conseguente preoccupazione in tale sede sollevatasi.


Il comma 1 del nuovo articolo 614 bis c.p.c. subordina espressamente la concessione della misura coercitiva pecuniaria alla valutazione del Giudice affinchè non si riveli “manifestamente” iniqua per la parte destinataria della stessa.


L’inserimento di tale “clausola di salvezza”, dal carattere indubbiamente innovativo, in quanto non trova riscontro in altre norme del codice di rito, è stata dettata dall’ampiezza del campo di applicazione della misura e dalla sua caratteristica struttura anticipatoria o preventiva.


In linea generale, come già si è detto, il Giudice adito avrà facoltà di rifiutare la richiesta ai sensi dell’articolo 614 bis c.p.c. probabilmente ove, in base a una valutazione prognostica e prudenziale, il destinatario dell’ordine giudiziale infungibile di facere o di non facere risulti in condizioni inidonee a ottemperarvi per causa a lui non imputabile.


Non sono chiari i contorni del significato della locuzione “manifestamente iniquo” né i criteri per individuare l’eventuale manifesta iniquità della misura: “..l’iniquità differisce sostanzialmente dalla illegittimità, comportando una valutazione per così dire non strettamente giuridica di non corrispondenza della misura astratta alle caratteristiche effettive del caso concreto: infatti, se si trattasse di illegittimità, neppure la condanna alla prestazione principale potrebbe essere pronunciata e non vi sarebbe spazio per quella accessoria[64].


Quanto all’efficacia della misura coercitiva pecuniaria, il nuovo articolo 614 bis c.p.c. specifica nel suo comma 1 che “Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza”.


Tale previsione, inserita solo nel corso dei lavori parlamentari e quindi non presente nell’originario testo del disegno di legge, appare ultronea laddove la misura coercitiva accompagni la pronuncia di una sentenza di condanna o di un provvedimento diverso, comunque provvisto di efficacia esecutiva, data infatti la sua estensione anche agli elementi accessori della condanna. Diversamente, essa assume particolare rilevanza se associata alla pronuncia di un provvedimento d’urgenza (o in generale di tipo cautelare) o comunque a un provvedimento di condanna non autonomamente dotato di efficacia esecutiva.


Da quanto premesso segue anche che, nel caso di un provvedimento cautelare, la misura coercitiva, quale “titolo esecutivo”, potrebbe essere eseguita con modalità e attraverso un Giudice diversi da quelli previsti per l’attuazione dei provvedimenti cautelari ex articolo 669 duodecies c.p.c.[65]


Nell’individuazione dei criteri da porre a base della liquidazione della somma dovuta, sembra esservi stato un ulteriore allontanamento dal modello francese, disponendo, all’ultimo comma dell’articolo 614 bis c.p.c., che debba tenersi conto “del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile”, non in prospettiva risarcitoria alla tutela in oggetto ma per la individuazione in concreto del contenuto patrimoniale della misura coercitiva disposta.


Il legislatore italiano ha dunque in tal senso lasciato ampia discrezionalità al Giudice[66], indicandone solo i parametri di riferimento, anche se la suddetta scelta non è apparsa del tutto coerente con la ratio della nuova misura coercitiva, la quale, per funzionare, deve eliminare l’interesse dell’obbligato all’inadempimento e spingerlo all’adempimento spontaneo.


A questo proposito si può anche rilevare da ultimo che, a fronte di un simile potere discrezionale ricognitivo dei criteri predeterminati dal legislatore, il Giudice debba considerare anche “ogni altra circostanza utile”.


Ovviamente si tratta di un potere-dovere volto ad adeguare la misura coercitiva rispetto allo scopo da conseguire, ossia all’adempimento spontaneo dell’obbligo di fare infungibile o di non fare[67].


La relativa entità può essere determinata diversamente tramite la sentenza che definisce il procedimento di merito.


Riguardo al valore della controversia e al danno quantificato o prevedibile, si può affermare siano valutazioni demandate a un tipo di discrezionalità “tecnica” del Giudice, sindacabili anche in sede di legittimità.


Il legislatore ha deciso di non limitare in una troppo ristretta cornice edittale l’azione del Giudice in relazione all’entità della sanzione pecuniaria (soluzione peraltro di fatto impraticabile a causa della potenziale atipicità delle situazioni sostanziali coinvolte) e di connettere la misura coercitiva ai valori patrimoniali sempre dedotti nell’obbligazione, invece allontanandosi dalla disciplina dei punitive damages tipici dell’esperienza dei Paesi anglosassoni (specificamente americani).


Il riferimento soggettivo alle condizioni personali e patrimoniali delle parti, presente nel testo originario del disegno di legge, è stato soppresso durante l’esame al Senato, con la conseguenza di impedire che si considerassero, ai fini della liquidazione, il comportamento del debitore e la rilevanza (anche non patrimoniale) degli interessi coinvolti. Ciò non esclude affatto che il Giudice possa comunque dar rilevanza anche a tali condizioni.


L’importanza invece dei soli elementi di tipo oggettivo, con riguardo a una valutazione economica della prestazione dell’obbligazione, esalta il collegamento con l’area del risarcimento del danno, dalla quale, invece, l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale del modello francese si era distaccata per accogliere una tendenza maggiormente sanzionatoria.


Dato che l’efficacia esecutiva della misura coercitiva è subordinata al verificarsi dell’inadempimento dell’obbligazione principale e dunque da configurarsi come “condanna in futuro”, si deve pure ammettere, secondo le regole generali e nonostante la mancanza di un’esplicita previsione dell’articolo 614 bis, la possibilità che il debitore contesti il preteso suo inadempimento o che invece affermi la impossibilità di realizzare la prestazione dovuta per causa a lui non imputabile, tramite opposizione all’esecuzione.


Nel caso di impiego dello strumento di cui all’articolo 615 c.p.c. sembra però che il criterio avallato anche dalle SS.UU della Corte di Cassazione[68], per cui l’onere della prova grava sempre sull’obbligato, non possa essere utilizzato a causa della particolarità dell’oggetto del processo, costituito da obblighi sostanziali con funzione processuale di esecuzione indiretta e non necessariamente legato all’ambito contrattuale.


Parimenti, il debitore dovrebbe essere dotato della possibilità di contestare la valutazione compiuta dal Giudice sui presupposti esistenti per pronunciare la misura coercitiva quando risulti connessa a un provvedimento di condanna cui in alcun modo si potrà reagire tramite rimedi di tipo impugnatorio.


Ulteriore peculiarità prevista in capo all’articolo 614 bis deriva dall’espressa esclusione dello stesso nel caso si verifichino alcune particolari controversie.


Considerando il riferimento situato nell’ultima parte del c.1 della norma, il legislatore ha evidentemente voluto favorire talune tipologie di debitori di obblighi di fare infungibile o di non fare, come i datori di lavoro nell’ambito dei rapporti di lavoro subordinato (pubblico e privato) e di collaborazione coordinata e continuativa.


Tale precisazione, in parte corrispondente alla tesi sostenuta da CHIARLONI negli Anni ’80[69] e inserita al momento dell’esame alla Camera dei deputati del disegno di legge, sembra tentare di evitare che, prevedendo la sanzione coercitiva, si introducano in simili specifici settori misure analoghe a quelle previste dalla tormentata L. 300/70, da tempo al centro di un acceso dibattito in sede politica e sindacale[70].


Proprio in ambito giuslavoristico la misura coercitiva pecuniaria nei confronti dei datori di lavoro ha statisticamente assunto notevole importanza[71].


Numerose sono state le critiche rivolte a tale esclusione: potrebbe giustificarsi attraverso una valutazione ex ante del carattere personalissimo delle prestazioni che formano generalmente l’oggetto di tali controversie, in quanto tali sottratte a ogni forma di coercizione.


A causa della impossibilità di applicare la nuova norma a qualunque tipologia di obbligazione derivante dai rapporti in oggetto, è condivisibile la lettura restrittiva proposta da una parte della dottrina,conformemente a Costituzione. Di conseguenza, la limitazione sarebbe da circoscrivere alle controversie relative a prestazioni di lavoro subordinato pubblico o privato e anche a prestazioni di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409.


Non se ne rinviene facilmente una ratio giustificatrice di ordine logico-giuridico o sistematico, tanto più che l’esclusione in esame potrebbe essere in contrasto con il testo della Carta fondamentale, quanto all’articolo 3 sui principi di uguaglianza e di ragionevolezza. Più probabile appare una motivazione di carattere contingente, legata a ragioni di opportunità e seguita dall’ Esecutivo del periodo di emanazione della L. 69/09, che non intendeva ostacolare lo sviluppo di un mercato del lavoro sostanzialmente flessibile.


La suddetta esclusione conferma la infungibilità caratteristica di obbligazioni derivanti da rapporti di lavoro[72] e che la reintegra nel posto di lavoro non sia realizzabile coattivamente.


È da sottolineare anche il dubbio relativo alla applicabilità o meno della menzionata esclusione ai rapporti agrari previsti ex articolo 409, c.1, n. 2, c.p.c.


In base al dato letterale della norma si dovrebbe rispondere negativamente; in senso contrario, invece, considerandone la ratio e l’assenza di differenze tra detta ipotesi e le altre in disposizione.


Sono probabilmente escluse dall’ambito di applicazione in questione anche le obbligazioni di fare e di non fare gravanti sul datore di lavoro che non presentino in genere alcun elemento di coinvolgimento personale o intellettuale e le obbligazioni derivanti da rapporti di lavoro continuativo.


La legge è silente con riferimento alle obbligazioni di facere e di non facere per rapporti di collaborazione anche occasionale che implichino prestazioni d’opera, specie se di tipo personale e intellettuale[73].


Colpisce che analoga esclusione non sia stata prevista per i rapporti di lavoro autonomo o professionale ove richiedano tutela sia il valore della dignità sia quello della libertà del prestatore d’opera. Tale dislivello di garanzia non sembra giustificato dalla mera assenza della subordinazione o della parasubordinazione e comporta quindi dubbi di illegittimità costituzionale.


Nonostante opinioni contrastanti, non sembra necessario escludere in materia familiare l’applicazione dello strumento processuale esaminato, in quanto non espressamente vietato e anzi particolarmente funzionale ai casi di inadempimento di obblighi coniugali e parentali posti in essere in pendenza del vincolo coniugale o che, più in generale, non siano riconducibili a quanto previsto dall’articolo 709 ter c.p.c.


La soluzione più idonea dovrebbe ravvisarsi nel brocardo secondo cui il legislatore plus dixit quam voluit: la esclusione dell’applicazione della misura coercitiva pecuniaria varrebbe solo per le controversie relative a prestazioni di lavoro subordinato pubblico o privato e di collaborazione continuata e continuativa dell’articolo 409 c.p.c.


Il recente sistema introdotto non è previsto in caso di obbligazioni di facere fungibile[74]. Soluzione contraria potrebbe essere ricavata dal dato testuale: il comma 1 dell’articolo 614 bis c.p.c. non precisa infatti la tipologia di obbligazione cui faccia riferimento.


Soltanto la rubrica della norma specifica invece che gli obblighi siano “di fare infungibile o di non fare”, permettendo dunque di ricomprendere, quantomeno in via interpretativa, anche altre obbligazioni, non espressamente indicate, che riconoscano e ammettano l’esecuzione forzata diretta ex artt. 605 ss. e 612 ss. c.p.c.


Invece l’articolo 54 del disegno di legge n. 1441, presentato dal Governo alla Camera il 2 luglio 2008, richiamava esplicitamente i provvedimenti “di condanna all’adempimento di un obbligo di fare infungibile o di non fare”.


Punto fermo della questione è la rilevanza operativa della disposizione sulla distinzione tra obbligazioni “fungibili” e “infungibili”, che può essere chiara in astratto ma non altrettanto nella prospettiva concreta. Un esempio in tal senso è dato dalle divergenti opinioni dottrinali e giurisprudenziali sull’esecuzione coattiva dell’obbligo di reintegra nel posto di lavoro, derivante dalle opposte teorie inerenti al carattere “fungibile” o “infungibile” dell’obbligo.


Qualora l’ammontare stabilito nella misura coercitiva eccedesse il danno provato nel giudizio risarcitorio, non si potrebbe accogliere una domanda riconvenzionale restitutoria presentata da parte del debitore.


La somma versata è, difatti, per la quota che eccede il danno patito, giustificata e sostenuta dalla prevalente funzione di mezzo di coazione, quale parte della più ampia categoria delle pene private, che si appunta in capo al rimedio in commento”[75].


Una volta determinato l’ammontare della misura coercitiva, il debitore deve poter adempiere spontaneamente l’obbligazione principale entro un termine congruo e ragionevole.


Le disposizioni non trattano il profilo del decorso della misura coercitiva quando questa si correli a unità di tempo e non a parametri diversamente oggettivi.


A tal fine non si considera sufficiente la mera comunicazione o notificazione del provvedimento; anzi sarà ivi più efficace una notificazione personale e specifica al debitore.


CONSOLO[76] ha sostenuto, a seguito della novella del 2009, la possibilità di cumulare (e non già di prevedere in alternativa), nel caso di contratto preliminare di vendita, i due capi di domanda, l’uno costitutivo ai sensi dell’articolo 2932 c.c. e l’altro di condanna a eseguire l’obbligo infungibile di concludere il contratto. In tal modo si consente al promissario acquirente di non attendere necessariamente il passaggio in giudicato della sentenza costitutiva.


Come naturale, però, si sono avanzate diverse perplessità e lo stesso Autore scrive che tale soluzione “assieme a cospicui vantaggi, pone una serie di problemi[77] di cui il legislatore dovrà occuparsi attentamente.


La sanzione pecuniaria, contenuta nella sentenza di condanna di primo grado, potrà essere sospesa dal Giudice di appello ai sensi dell’articolo 283 c.p.c., così come qualunque altra statuizione.


È ovviamente possibile che, comunque, essa sia in seguito confermata: l’obbligo di pagamento della somma sarà attuale alla pronuncia della relativa sentenza di secondo grado.


Qualora il debitore abbia dato inizio all’attuazione dell’obbligazione di fare infungibile e comunque la statuizione compulsoria accessoria sia pretesa sul piano concreto, il quesito verte sulla proponibilità o meno dell’appello da parte dell’obbligato, al fine di evitare il pagamento di cui all’ articolo 614 bis c.p.c.


L’attenzione si deve al riguardo concentrare non tanto sulle sentenze di condanna a distruggere un bene quanto su quelle di condanna all’adempimento di un obbligo di fare infungibile insuscettibili di esecuzione forzata, assistite unicamente dallo strumento di coercizione indiretta.


Non convince sufficientemente la rigorosa prospettazione dell’esistenza di un’acquiescenza che precluda l’impugnazione: l’articolo 329 c.1 c.p.c. fa riferimento ad “atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni ammesse dalla legge” e quindi le condotte tenute dalla parte assumono rilevanza se riflettono la volontà spontanea di quest’ultima nell’accettare la sentenza.


Diverso è invece il caso in cui l’esecuzione della sentenza sia attuata al solo fine di evitare l’applicazione in concreto della sanzione pecuniaria coercitiva.


Per il legame di interdipendenza tra l’obbligazione principale e la sanzione coercitiva pecuniaria, nonostante quest’ultima si configuri quale capo autonomo, pur se accessorio, della condanna, è possibile impugnare solo tale singolo capo[78].


L’esecutività o meno della misura coercitiva non può essere disgiunta da quella del provvedimento principale, cui accede: la prima sarà esecutiva negli stessi termini e con i medesimi limiti propri della condanna principale divenuta esecutiva.


Anche sul capo accessorio relativo alla misura coercitiva si forma, ai sensi dell’articolo 324 c.p.c., la cosa giudicata formale e quindi il giudicato materiale, attinente al potere del Giudice di pronunciare la misura coercitiva stessa e in modo simile a quanto previsto per le pronunce costitutive e di condanna, rispetto a quelle di mero accertamento.


Con il giudicato materiale è bloccata ogni pretesa di azione per la ripetizione dell’indebito o per l’ingiustificato arricchimento che il destinatario della misura pensi di poter promuovere. Inoltre si risolvono anche eventuali e potenziali conflitti con la fase dell’esecuzione.


In tal sede non potranno essere sindacati i presupposti della concessione della misura coercitiva nè la relativa quantificazione, diversamente da quanto risulta nel caso opposto, ove il Giudice della cognizione non conceda la misura coercitiva sul presupposto della possibile esecuzione in forma specifica o abbia pronunciato una sentenza di condanna qualificandola come titolo esecutivo volto a promuovere l’esecuzione forzata e il Giudice dell’esecuzione neghi l’attuazione in forma specifica.


Se attualmente la questione è prevista nei termini summenzionati, è anche da ricordare come ben potesse prospettarsi anche prima dell’entrata in vigore della L. 69/09.


Quanto all’efficacia nel tempo delle misure coercitive, si deve ritenere che, salvo diversamente disposto, tale provvedimento non preveda limitazioni temporali.


Dovrebbe comunque essere salvaguardata la libertà del debitore rispetto a una sanzione che eventualmente si estenda in modo indeterminato nel contenuto o nel tempo.


La fattispecie in cui la dottrina sente con maggior urgenza tale problema è quella in cui il comportamento richiesto al debitore si risolva nel compimento di un’attività personale.


Davanti a una simile questione sembra preferibile prevedere che sia il Giudice a definire il limite temporale imposto dalla misura coercitiva, permettendo al creditore di agire di nuovo alla scadenza del termine e di ottenere così una nuova statuizione.


Il debitore può utilizzare le tutele per opporsi innanzi al Giudice della cognizione e ottenere la modifica o la eliminazione della misura coercitiva, in occasione di fatti sopravvenuti che già consentirebbero di superare il giudicato.


In conclusione, occorrerà attendere gli esiti dell’applicazione pratica dell’istituto per poterne verificare la idoneità a soddisfare gli interessi del soggetto creditore che veda riconosciuto in giudizio un proprio diritto: una simile esigenza ha fortemente influenzato il legislatore nell’opera di elaborazione e di introduzione dell’attuale articolo 614 bis c.p.c.


5. La sentenza di condanna per obblighi infungibili di fare e di non fare. Esecuzione forzata. Provvedimento cautelare d’urgenza.


L’attività giurisdizionale di esecuzione forzata è disciplinata all’interno del Libro III del vigente codice di procedura civile.


Le norme relative, a carattere descrittivo, come per i procedimenti di cognizione e speciali, sono necessariamente coordinate alla materia del Libro I, intitolato “Disposizioni generali”.


L’istituto dell’esecuzione è soprattutto una forma di tutela giurisdizionale piena e diretta dei diritti soggettivi, distinta da ogni ipotesi di attuazione forzata di provvedimenti istruttori, ordinatori, cautelari, possessori, cui talvolta lo stesso codice riserva la qualifica di “esecuzione”.


Il rapporto rispetto alla cognizione è solo eventuale, come dimostra, da un lato, l’ampio settore dei titoli esecutivi stragiudiziali che comportano la tutela esecutiva delle obbligazioni pecuniarie e, dall’altro, il campo delle conciliazioni giudiziali.


La forma esecutiva opera in attuazione di una previa fase di cognizione solo nel caso di provvedimenti di condanna: davanti all’insufficienza, dal punto di vista dell’efficacia satisfattiva e reintegrativa della tutela giurisdizionale, sia del mero accertamento che dell’effetto costitutivo operato dal provvedimento, sarà necessario procedere tramite “condanna” nei confronti dell’obbligato.


“Ove (..) la pronuncia dell’autorità giudiziaria abbia il potere di produrre quegli stessi effetti giuridici che, fuori del processo, non potrebbero derivare che da una dichiarazione di volontà negoziale dell’obbligato, è evidente che la volontà del Giudice, operando in luogo dell’obbligato entro quel dominio nel quale normalmente è sovrana la volontà di lui, viene, per forza di legge, a sostituirsi ad essa, la quale, nei limiti in cui questa sostituzione avviene, cessa di essere indispensabile per il conseguimento degli stessi effetti. La volizione del debitore, che finora era per legge giuridicamente infungibile, diventa fungibile per legge: lo Stato, che aveva riconosciuto alla persona il potere esclusivo di disporre entro la propria sfera giuridica, ammette che un’altra volontà, quella del Giudice, invada quella sfera giuridica e ne disponga senza e contro la volontà del debitore”[79].


Davanti a un’obbligazione infungibile però è irrealizzabile un tipo di esecuzione in forma specifica, dato che lo Stato non sarebbe comunque in grado di superare tanto la infungibilità quanto la inimitabilità di certe attitudini naturali, né potrebbe imporre all’autorità giurisdizionale l’adempimento di una simile prestazione.


Il limite naturale menzionato è determinato dall’ impossibilità materiale da parte di un terzo di surrogare l’attività dovuta dal debitore e così soddisfare il creditore in via immediata e diretta.


E’ però anche vero che la stessa giurisprudenza di legittimità ritenga ammissibile la pronuncia del Giudice di merito a una condanna relativa al suddetto facere, sia pure infungibile, poichè l’obbligato potrebbe, in ogni caso, spontaneamente ottemperare alla decisione o, in mancanza, proporre ex post una domanda di risarcimento a fronte della violazione posta in essere.


Altrimenti, impedendo la tutela di condanna per un’intera categoria di diritti soggettivi, si rinuncerebbe a priori alla “giustiziabilità” di questi ultimi.


I provvedimenti giurisdizionali possono essere garantiti nella loro attuazione mediante alcune tipologie di strumenti nonostante il relativo oggetto sia insuscettibile di esecuzione forzata in forma specifica. Il riferimento è alla tutela costitutiva, all’impiego di mezzi di coazione o di misure coercitive, connotati sia come minaccia di una lesione sia anche nella forma del contempt of Court di derivazione anglosassone.


In primo luogo, la tutela costitutiva intende superare le difficoltà ex artt. 612 ss. c.p.c., con riferimento alle prestazioni di “facere giuridico”, connettendo la modificazione giuridica, che normalmente dovrebbe seguire l’adempimento dell’obbligato, all’accertamento giudiziale dell’obbligo.


Inasprendo invece una sanzione contro il soggetto inadempiente si giungerebbe a influire sulla volontà di costui e quindi a permettere, eventualmente, una spontanea soddisfazione di controparte.


Infine, il contempt of Court comporterebbe l’imposizione di una sanzione penale in senso stretto per una effettiva inottemperanza dell’ordine operato in giudizio.


Data l’affermazione secondo cui “nel campo del diritto lo Stato può tutto[80], a fronte della riserva in capo a un soggetto della potestà esclusiva di disporre, lo Stato stesso eventualmente modificherà e circoscriverà tale riconoscimento, in favore di altri o avocando a sè il potere di intervenire nelle sfere giuridiche con poteri pari o superiori a quelli del titolare.


Nell’ambito di pertinenza esclusiva statale se non è possibile trasformare una prestazione “naturalmente infungibile” in “fungibile”, diversamente sarà ove si intenda operare la stessa modifica in riferimento a un obbligo fino a quel momento “infungibile” giuridicamente.


L’esecuzione forzata non si risolve nel solo impiego della forza materiale sul debitore o sui beni di cui egli sia titolare ma rappresenta anche un’invasione della sfera giuridica di quest’ultimo e quindi la menomazione del potere esclusivo di disposizione suo proprio che, in genere, è inviolabile in quanto tale.


Ricordando gli insegnamenti di CHIOVENDA[81], secondo cui l’espropriazione forzata verterebbe non sul diritto di proprietà ma sulla facoltà giuridica concreta di disposizione spettante al proprietario, CALAMANDREI ha ivi individuato “il germe fruttuoso di una generale ricostruzione dogmatica di tutto il processo esecutivo, fondata sulla idea che la esecuzione forzata, anche se apparentemente sembra cadere sui soli beni, colpisce in realtà in ogni caso la personalità del debitore, con riduzione di quella capacità d’agire in forza della quale la volontà della persona è normalmente sovrana sulla propria sfera giuridica”.


Nel momento in cui lo Stato si introduce autoritativamente nella sfera giuridica del debitore per compiere al suo posto negozi giuridici, è caratteristica la sostituzione della volontà statale a quella negoziale del debitore che comunque precede, in caso di esecuzione forzata delle obbligazioni, l’impiego della forza fisica.


La distinzione tra diritti obbligatori e diritti reali è rinnovata nell’ambito dell’esecuzione forzata: ove si tratti di adempimento di prestazioni incoercibili l’impiego della forza fisica è inadeguato e impotente. Diversamente invece è per la categoria dei diritti reali: di conseguenza l’istituto dell’esecuzione forzata delle obbligazioni risulterebbe volta a consentire contro il debitore l’utilizzo fruttuoso della forza fisica.


Per tale finalità lo Stato potrebbe operare una modificazione nel solo campo del diritto e lo scopo dell’esecuzione forzata risulterebbe volto alla trasformazione del debitore in non domino.


Il meccanismo per pervenire al risultato finale è incentrato sulla sostituzione della volontà dello Stato alla volontà negoziale del debitore, cui prima si è accennato, elidendo il potere esclusivo di disposizione in capo a quest’ultimo.


Il legislatore, in tema di “tutela di condanna”, non ha esplicitato in alcun modo che la relativa domanda sia ammissibile solo se inerente obbligazioni eseguibili in forma coattiva[82].


Su questo argomento si può sottolineare, per esempio, il contributo elaborato da S. CHIARLONI, il quale ha ripetuto quanto già da PROTO PISANI sostenuto relativamente alla non perfetta tenuta nell’ambito della correlazione, normale o necessaria, tra condanna ed esecuzione forzata. Non è tuttavia stato oltremodo esteso tale assunto[83].


“Azione di condanna” deve essere intesa restrittivamente nel senso in cui sia possibile attivarla anche dove, seppur raramente, sul convenuto gravi non un obbligo qualunque ma l’adempimento di una prestazione tutelata da espresse e specifiche misure coercitive.[84]


Nonostante ciò, nel sistema processuale civile italiano, la sanzione dell’esecuzione forzata per surrogazione è il fondamentale strumento che, tramite l’apparato coercitivo dello Stato, in caso di mancata esecuzione spontanea della sentenza, consente di distinguere la tutela di condanna dalla tutela di mero accertamento.


Inoltre, in base alle osservazioni di C. MANDRIOLI e dello stesso MONTELEONE, è stata esclusa la possibilità di superare, senza una previsione legislativa espressa in tal senso, la necessarietà della correlazione tra esecuzione forzata e condanna[85], contrariamente a quanto invece sostenuto da PROTO PISANI, secondo cui sarebbero disposizioni generali e speciali ad ammettere quale oggetto della condanna anche obblighi non suscettibili di esecuzione forzata[86].


Parte della dottrina ha sostenuto una radicale negazione della suddetta correlazione necessaria[87]; nonostante quanto precedentemente indicato, in opposizione a tale ultimo orientamento, si era posto anche lo stesso MANDRIOLI[88], mutando però idea successivamente.


La necessità del legame in esame era negata da CHIOVENDA e CARNELUTTI[89].


Anche N. RESTAINO ha comunque ritenuto ammissibili sentenze di condanna all’adempimento nonostante l’impossibilità dell’esecuzione forzata dell’obbligazione: mentre la condanna tende a realizzare il diritto, l’istituto processuale esecutivo rappresenta solo un mezzo per la suddetta attuazione[90].


Nel diritto positivo esistono diverse fattispecie prive della necessità di correlazione tra sanzione di condanna ed esecuzione forzata: le tipologie di esecuzione previste dal Libro III c.p.c. risultano infatti volte a soddisfare solo le pretese sostanziali cui corrisponda un dare o un fare fungibile.


E’ indispensabile distinguere tra la “possibilità” e la “coercibilità” dell’adempimento: il Giudice quindi potrà condannare all’adempimento di un obbligo insuscettibile di esecuzione coattiva a prescindere dalle difficoltà riscontrate nella suddetta procedura o per la materiale impossibilità di costringere l’obbligato a rispettare l’ordine del magistrato.


Malgrado la incoercibilità relativa a un adempimento, che sia comunque giuridicamente possibile, la sentenza di condanna esplicherà la propria forza etica finalizzata a indurre l’obbligato a soddisfare controparte.


La tecnica dell’esecuzione forzata non risulta esperibile[91] per attuare tanto obblighi di fare materialmente o giuridicamente infungibili, per il cui adempimento sarebbe infatti sempre necessaria la cooperazione dell’obbligato, quanto obblighi di fare “fungibili” ma con particolari complessità quantitative o qualitative nella loro esecuzione da parte di un terzo e infine anche per obblighi di non fare e quindi per una tutela di tipo preventivo.


L’instaurazione di una correlazione necessaria o normale tra condanna ed esecuzione forzata comporta pertanto due importanti conseguenze: 1) tutti i diritti il cui godimento è assicurato da obblighi (originari o derivati) non suscettibili di esecuzione forzata, possono essere tutelati solo tramite la forma dell’equivalente monetario[92] e 2) tale mercificazione dei diritti obbligatori ha perso ogni possibilità di giustificazione teorica nel vigore della Costituzione repubblicana del 1948, in cui “lavoro” e “persona” risultano essere i fondamentali valori guida.


RESTAINO riteneva che la tutela di condanna esercitasse una funzione soltanto repressiva della violazione già effettuata e mai preventiva, nel qual caso sarebbe occorsa l’assicurazione della condanna tramite misure coercitive.


Tale duplicità di funzione (repressiva e preventiva), oltre alla rispettiva possibilità di attuazione della tutela di condanna tramite esecuzione forzata o misure coercitive e, altrove, con sentenze costitutive, richiede un’indagine sul bene oggetto dell’obbligazione, sul carattere degli effetti della violazione e infine anche sulla fungibilità o meno della prestazione[93].


A metà degli Anni ’70 MANDRIOLI commentava in negativo uno scritto di PROTO PISANI[94], ritenendo, anche per l’assenza di riscontri in tal senso nelle norme, di “non poter condividere le argomentazioni del valoroso processualista fiorentino secondo le quali la suddetta correlazione necessaria tra condanna ed eseguibilità forzata sarebbe ormai superata (..)”[95].


Quanto alla problematica in sé, MANDRIOLI si è perfino domandato se fosse un problema concreto e reale oppure soltanto una questione terminologica[96].


Il punto di partenza dev’essere ricercato nella dottrina in passato prevalente, secondo cui il termine “condanna” si sarebbe dovuto utilizzare per provvedimenti giudiziari di accertamento sia di un diritto sia della relativa esigenza di tutela, mediante esecuzione forzata successiva, in presenza dei necessari presupposti.


Un provvedimento non può essere “di condanna” qualora la legge non gli attribuisca l’efficacia esecutiva individuata, ex articolo 474 c.p.c., nell’attitudine a fondare uno dei procedimenti esecutivi disciplinati nel Libro III del codice di rito[97].


Il quesito verte, in modo particolare, sul vero significato dell’affermazione di PROTO PISANI quanto a ritenere superata la necessaria correlazione tra condanna ed esecuzione forzata.


Il proposito non sembrerebbe poter consistere nella considerazione per cui l’esecuzione forzata tenda sempre più a conseguire, per quanto possibile, la prestazione dovuta.


MANDRIOLI, nell’opera “Esecuzione forzata in forma specifica”, ha ammesso che oggetto della sentenza di condanna potessero essere anche obbligazioni infungibili non suscettibili di esecuzione forzata. Nello scritto “Sulla correlazione necessaria”, però, l’A. sembra riflettere diversamente, affermandovi che la posizione più volte citata di PROTO PISANI avrebbe inteso includere nel novero delle condanne i provvedimenti giudiziari di accertamento dell’esigenza di tutela esecutiva di un diritto, di cui è però ovvia la non eseguibilità tramite una delle forme di tutela previste nel Libro III del codice di rito.


Di conseguenza sarà possibile mantenere la nozione di “condanna”, agganciata alla qualità di titolo esecutivo, allargando l’efficacia propria di quest’ultimo (e quindi di conseguenza delle possibilità di esecuzione forzata) oltre le forme di tutela codificate. In alternativa, tralasciando la correlazione tra condanna e titolo esecutivo giudiziario, è proponibile una più estesa nozione di “condanna” nel senso che anche i provvedimenti giudiziari che accertano un diritto insuscettibile di esecuzione forzata debbano indicarsi con la qualifica di “condanne”.


La prima opzione necessiterebbe di dati positivi a suo sostegno; la seconda, comunque piuttosto insoddisfacente dal punto di vista sistematico, sarebbe connotata da una sua non ampia applicazione nella pratica.


Dunque, di conseguenza, l’eventualità di costruire forme di tutela esecutiva altre rispetto a quelle tipiche è prospettabile solo attraverso precise disposizioni idonee a superare il richiamo agli artt. 2930 ss. c.c.


Altrimenti, senza l’introduzione di simili norme, un superamento della tipicità in questione sarebbe immaginabile unicamente in via eccezionale, grazie all’intervento legislativo e comunque sempre nei limiti di quest’ultimo[98].


Secondo MANDRIOLI, in realtà, PROTO PISANI non intenderebbe considerare il superamento in esame quale effettivo ampliamento delle forme di tutela esecutiva[99].


L’A. ritiene di ravvisare piuttosto un tentativo di estendere la nozione di “eseguibilità”, che è implicita nella “condanna”, oltre i confini dell’eseguibilità propri del titolo esecutivo.


Quindi esisterebbero accertamenti giudiziari che richiedono e presuppongono una successiva esecuzione, non eseguibili mediante le forme codificate e che perciò non sono titoli esecutivi ma che dovrebbero essere qualificate “condanne”[100].


A fronte di ciò si deve però dire anche che nessuno di questi argomenti, inerenti al risultato e non alle forme della tutela esecutiva, possa permettere di prospettare un superamento della tipicità delle forme di tutela esecutiva.


Ove poi PROTO PISANI abbia fatto riferimento a tre strumenti tecnici con cui assicurare l’attuazione anche delle sentenze relative all’adempimento di obbligazioni non suscettibili di esecuzione forzata in forma specifica, questi, se non consistono in misure di coercizione indiretta, operano in un settore ove non risulta possibile l’esecuzione forzata.


A differenza di quanto precedentemente riportato per RESTAINO, PROTO PISANI attribuiva un’importanza sempre maggiore al ruolo preventivo della tutela di condanna[101].


Inoltre, per superare la correlazione tra condanna ed esecuzione, si era ritenuto di far riferimento agli artt. 474, n.1 c.p.c., 2818 e 2953 c.c., i quali però, pur essendo utilizzati dalla dottrina a tale scopo, non sembrano presentare particolare utilità.


La supposta instaurazione della correlazione necessaria tra condanna ed esecuzione forzata appare anche pericolosa e non trova fondamento nel diritto positivo. Anzi, è ivi rilevata l’esistenza di numerose disposizioni di legge che esplicitamente prevedono la condanna all’adempimento di obblighi non suscettibili di esecuzione forzata.


Proprio in questo ambito è utile sottolineare come la tutela urgente rivesta un ruolo fondamentale. La condanna presenta in definitiva sia una funzione repressiva che una di tipo preventivo[102].


In presenza di disposizioni legislative relative a obblighi non suscettibili di esecuzione forzata si è avvertita quindi la necessità di ricorrere alle “misure coercitive”, specialmente per la caratteristica loro propria di consistere nell’inasprimento della sanzione prescritta contro l’obbligato, più grave di quello cagionato dall’adempimento prospettato.


Sul tema della correlazione, MONTELEONE ha inteso evitare il grave ma possibile equivoco di confondere tra loro le fasi della cognizione e dell’esecuzione, nonché le rispettive caratteristiche.


Si ritiene possibile agire fondatamente per la pronuncia di condanna nei confronti del debitore inadempiente riguardo qualsiasi obbligazione, come anche per la tutela e l’accertamento di un diritto leso, senza che una preventiva considerazione sulla eseguibilità dell’emittenda sentenza a mezzo dei procedimenti ad hoc abbia conseguenze inerenti all’ammissibilità dell’azione stessa.


Speculando la problematica dal punto di vista dei processi esecutivi, invece, appare evidente la necessarietà della correlazione tra questi ultimi e la condanna.


Per alcuni Autori risulterebbe inconcepibile un disallineamento, a causa della materiale impossibilità di portare a esecuzione una sentenza senza che in essa siano presenti statuizioni condannatorie, che quindi impongano una successiva attività di adeguamento della realtà di fatto ai dettami della sentenza.


Inoltre “esecuzione” può aversi anche ove non vi sia alcunchè da attuare concretamente: risulta però necessaria l’esistenza di una direttiva predeterminata da tradurre successivamente in atto.


È ammissibile affermare che la definizione di “condanna” sia dotata non di carattere assoluto bensì relativo, inerente all’esecuzione forzata: quando infatti, sulla base di un titolo, si agisce esecutivamente, è esercitata non l’azione di condanna ma quella esecutiva.


Partendo da un raffronto tra la sfera del diritto sostanziale e l’ambito processuale, la tutela di condanna appare come una forma di tutela non trascurabile dagli ordinamenti, ove si intenda assolvere la funzione strumentale di garantire soddisfazione al creditore, titolare del diritto leso e dedotto in giudizio.


Emerge inoltre con assoluta chiarezza che la tutela di condanna possa assumere connotati e funzioni assai diversi, secondo la diversità dei bisogni di tutela propri della struttura delle singole situazioni sostanziali oppure delle peculiarità dell’eventuale crisi di ogni situazione sostanziale.


Qualora si verificasse la violazione di obblighi di facere, assumerebbe grande rilievo la verifica sul piano materiale della fungibilità o meno della prestazione: unicamente nel primo caso, infatti, la condanna potrebbe essere attuata con esecuzione forzata. Altrimenti, in caso di infungibilità, indipendentemente dalla tutela per equivalente monetario, sarebbe possibile attuare la condanna predisponendo un adeguato sistema di misure coercitive finalizzate all’adempimento spontaneo dell’obbligato oppure, se il facere si risolvesse in una dichiarazione di volontà, attraverso una sentenza costitutiva, ove il provvedimento del Giudice determinerebbe la produzione degli effetti giuridici che, normalmente, dovrebbero conseguire all’adempimento della prestazione del facere di tipo “giuridico”[103].


Le obbligazioni di non fare, consistenti nell’obbligo di astensione da un determinato comportamento, sono sempre connotate da un carattere “infungibile” e dunque non surrogabili da parte di terzi. Se si verificasse la violazione in un caso simile, l’oggetto della relativa esecuzione forzata da parte di un terzo sarebbe solamente l’obbligo derivato di disfare, di restituire o di pagare e non invece quello originario di “non fare”[104].


Nell’analisi operata da MONTELEONE si rileva come le riflessioni di PROTO PISANI sulla tutela giurisdizionale relativa all’attuazione delle statuizioni contenute in sentenza, rappresentino un contributo completo e organico in materia[105].


Quest’ultimo Autore considera il processo e i suoi rapporti con il diritto sostanziale per attribuire alla giurisdizione una funzione del tutto secondaria e strumentale, consistente nell’attuazione del “diritto soggettivo” inteso non come la pratica e concreta risultante dell’ordine espresso dal libero alternarsi di azioni e di relazioni umane ma quale soggettiva proiezione dell’astratto disegno realizzato dalle norme giuridiche e quindi di una norma eteronoma imposta ai consociati dall’esterno.


PROTO PISANI è risultato fortemente convinto del superamento della correlazione tra CONDANNA ed ESECUZIONE FORZATA[106].


MONTELEONE[107] individua, in tale correlazione, limiti “politici” e richiama l’autorità scientifica di studiosi quali CHIOVENDA, CARNELUTTI e VASSALLI, attraverso un’indagine approfondita anche sul diritto positivo, volta a dimostrare che la “condanna” goda di ampio contenuto.


Nonostante l’auspicio di PROTO PISANI di utilizzare sanzioni penali e repressive all’interno dell’ordinamento civile, MONTELEONE sottolinea come in realtà tale sistema sia “un invadente ed oppressivo sistema poliziesco (..): per converso il potere politico non incontrerebbe più limiti di sorta nel controllo dei singoli, dal momento che la potestà punitiva e repressiva verrebbe a suggellare ogni minimo risvolto ed aspetto della vita e dell’azione dei cittadini[108].


Attualmente la tutela di condanna trova ormai una applicazione assai più ampia rispetto al passato; in precedenza era ammessa solo nel caso in cui fosse possibile l’esecuzione forzata della decisione giudiziale. Alla luce dell’articolo 614 bis c.p.c. la condanna a eseguire un’obbligazione infungibile è sicuramente possibile nonostante l’oggettiva impossibilità di realizzazione coattiva.


Inoltre la norma in esame evidenzia lo sforzo del legislatore nel costruire una forma di tutela specifica per le obbligazioni in essa considerate, in aggiunta al risarcimento del danno, e che, per alcune obbligazioni di non fare, rappresenta un istituto ulteriore rispetto a quello dell’esecuzione in forma specifica.


Il sistema ex articolo 614 bis c.p.c. non si applica alle obbligazioni di fare fungibili, nonostante le difficoltà giustificative da un punto di vista logico, a eccezione delle obbligazioni, sia pure fungibili, di non fare.


Il comma 1 di tale disposizione chiude con un’esclusione di grande rilievo, relativa alle “controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409”: è in tal modo confermato che simili obbligazioni si debbano considerare “infungibili”. Diversamente, sarebbero state menzionate nell’articolo recentemente introdotto.


In aggiunta si deve considerare però che un dubbio si ponga quanto alla portata di tale esclusione. Non è chiaro se essa valga o meno anche per i rapporti agrari previsti dall’articolo 409, n. 2, c.p.c.


Considerando la norma a un livello letterale, la risposta dovrebbe essere negativa, anche se, guardando alla sua ratio, forse si imporrebbe una risposta invece contraria, a causa della mancanza di differenze tra detta ipotesi e le altre menzionate dalla medesima disposizione.


È ivi richiesto un coordinamento tra le forme di tutela in quanto se si ammettesse la loro utilizzazione cumulativa si rischierebbe un ingiustificato arricchimento del creditore, specialmente laddove, dopo aver chiesto e ottenuto il risarcimento del danno, si verificasse l’adempimento spontaneo.


Al fine di evitare questo risultato la condanna al risarcimento dev’essere intesa in alternativa alla condanna per ottenere la prestazione infungibile (e all’accessoria condanna compulsiva per il mancato adempimento), ai sensi dell’articolo 1453 c.c. In tal modo la richiesta di condanna a un facere infungibile, insieme alla domanda di condanna a una somma di denaro per il ritardato adempimento, sarebbe possibile solo qualora non si intenda risolvere il contratto con relativo risarcimento del danno.


Nessun problema si creerebbe ove seguisse l’esecuzione spontanea ma se, al contrario, così non fosse, la parte avrebbe diritto al pagamento della somma stabilita in giudizio per il mancato adempimento, potendo poi, nelle more dell’inadempimento, chiedere il risarcimento del danno.


In base all’articolo 1453 c.2 c.c., se il creditore volesse chiedere la risoluzione del contratto e il conseguente risarcimento dei danni, non potrebbe allora domandare l’adempimento della prestazione attesa.


La richiesta di adempimento non preclude invece la possibilità, in corso di giudizio, di sciogliere tramite risoluzione il vincolo contrattuale e di pretendere i danni conseguenti.


Nel caso in cui il debitore obbligato, dapprima inadempiente, dia in seguito inizio all’esecuzione dell’obbligo di fare infungibile, ci si è chiesti sia possibile o meno l’appello per evitare l’applicazione della statuizione compulsiva accessoria.


Il dubbio in esame non ha un rilevante risvolto pratico nel caso di sentenze che condannino a distruggere un bene, in quanto, essendo titoli esecutivi, l’esecuzione spontanea non comporta un atto incompatibile con la volontà di avvalersi delle impugnazioni; diversamente, invece, per le sentenze di condanna all’adempimento di un obbligo di fare infungibile dato che non sussiste la possibilità di una loro esecuzione forzata e risultano assistite solo da uno strumento di coercizione indiretta.


Non si può a tal fine trascurare che l’articolo 329, c.1 c.p.c. parli di “atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni ammesse dalla legge”, sicché i comportamenti della parte rilevano in quanto sono univocamente indicativi di una volontà spontanea di accettare la sentenza e tale volontà spontanea non sembrerebbe configurabile nel comportamento di chi dia esecuzione a una sentenza di condanna a un comportamento infungibile, per evitare una sanzione che, diversamente, lo colpirebbe. Al riguardo comunque si osserva come gli strumenti coercitivi non includono un’autentica forma di “esecuzione forzata” poiché volti a un’esecuzione spontanea, seppure coartata.


L’introduzione della misura coercitiva dell’articolo 614 bis c.p.c. consente una riflessione sulla correlazione tra condanna ed esecuzione forzata.


La condanna a una prestazione infungibile non trova di per sé attuazione mediante un processo esecutivo per il quale sia necessario un titolo esecutivo: se, minacciando l’impiego della misura coercitiva, la prestazione è “volontariamente” eseguita e la sentenza non è usata come titolo esecutivo, potrà comunque parlarsi di “condanna” in quanto è previsto un ordine diretto al compimento della prestazione promessa.


La nuova norma risulta essere la migliore conferma all’esigenza di superare la tradizionale opinione relativa alla stretta funzionalità tra condanna ed esecuzione: se anche la prestazione ha un carattere infungibile, la sentenza che la ordina potrà comunque e senza dubbio qualificarsi “condanna”.


È utile in definitiva riferirsi alle riflessioni del processualista CHIOVENDA, che ampia influenza ha esercitato nei decenni successivi, secondo cui “come è vario il concetto di prestazione, altrettanto può esser vario il contenuto di una condanna[109].


Di conseguenza sarà possibile risultare destinatari di una condanna anche relativa a una prestazione infungibile: la modalità per supplire alla eventuale impossibilità di esecuzione diretta non deve necessariamente essere già espressa all’interno della sentenza pronunciata in sede giudiziale.


6. Provvedimento cautelare d’urgenza di un obbligo di facere infungibili.


In passato la dottrina tradizionale, risalente a G. CHIOVENDA, distingueva tra provvisoria esecuzione come ipotesi di “accertamento con prevalente funzione esecutiva” e provvisoria esecuzione come “misura provvisoria cautelare”.


Nonostante le modifiche (e le semplificazioni) operate con il codice del 1942, non fu ridotta la attendibilità della partizione menzionata, continuando quindi a essere seguita da diversi Autori.


La dottrina più recente ha però contestato tale impostazione sotto diversi aspetti, per esempio affermando come, differentemente dal caso dei provvedimenti cautelari, tramite la clausola di provvisoria esecutorietà non si applichi una sanzione diversa e strumentale rispetto a quella contenuta nella sentenza di merito bensì questa stessa sanzione, in tal modo posta in grado di produrre anticipatamente i propri effetti.


Inoltre un provvedimento cautelare è connotato dalla provvisorietà degli effetti che intenderebbe realizzare mentre l’esecutorietà di una sentenza soggetta a gravame risulta provvisoria secondo la caratteristica del titolo resosi “esecutivo” e quindi della possibilità per la sentenza di essere riformata o annullata dopo il giudizio di impugnazione. In questo caso l’attività esecutiva posta in essere si sarebbe concessa inutilmente, comportando restituzioni e l’eventuale risarcimento dei danni.


In dottrina si sostiene che l’attività esecutiva in quanto tale non sia provvisoria e che invece il presupposto per una misura cautelare sia, generalmente, la sola apparenza del diritto o della situazione sostanziale da salvaguardare. Il fondamento per concedere la provvisoria esecutorietà risulterebbe essere l’esistenza di un atto provvisto dell’accertamento pieno dei diritti di cui le parti siano titolari, suscettibile di passare in giudicato.


Secondo la dottrina maggioritaria nel processo esecutivo non si possono usare i provvedimenti d’urgenza
[110] per la natura e la finalità di questo tipo di giudizio, oltre che per i poteri in tal modo esercitati, incompatibili con la tutela cautelare atipica.


La tutela d’urgenza non sarebbe in grado di modificare il regime di validità e di efficacia relativo ad atti o provvedimenti esecutivi ma potrebbe invece tutelare diritti vantati da un terzo e minacciati dall’azione esecutiva.


Inoltre, in giurisprudenza (anche di legittimità), ci sono alcune tendenze ad ammettere la tutela d’urgenza per sospendere l’efficacia esecutiva del titolo esecutivo dopo la notifica del precetto e prima del pignoramento, qualora l’esecuzione non fosse ancora stata avviata.


Anticipare provvisoriamente gli effetti di sentenze di condanna risulta essere lo scopo naturale della tutela ex articolo 700 c.p.c. e, al riguardo, è opportuno operare una preliminare distinzione tra sentenze di condanna aventi a oggetto obblighi di fare e di non fare fungibili, da un lato, e sentenze di condanna riguardanti obblighi infungibili, dall’altro.


Solo nel primo caso le misure in esame possono esplicare una soddisfacente funzione cautelare, potendosi proficuamente ed eventualmente ricorrere alle previsioni sull’esecuzione forzata in forma specifica degli artt. 2931 e 2933 c.c.[111]


Non problematica in questa direzione risulta essere anche l’assicurazione cautelare urgente degli effetti di sentenze di condanna per obbligazioni pecuniarie, per obblighi di consegna di una cosa mobile o di rilascio di un bene immobile.


L’impiego dello strumento cautelare di cui all’articolo 700 c.p.c. è pacifico in caso di obblighi (materialmente o giuridicamente) fungibili mentre più discussa si prospetta nel caso di diritti inerenti la condanna all’adempimento di obblighi di fare o di non fare infungibili; la giurisprudenza aveva spesso escluso l’ammissibilità di un provvedimento d’urgenza qualora la misura richiesta fosse insuscettibile di esecuzione forzata[112].


Nelle fattispecie in cui la tutela d’urgenza è stata invece ammessa, il ragionamento si è fondato sul presupposto che non vi siano motivi, nel testo o nella volontà della legge, volti a impedire l’emanazione di provvedimenti d’urgenza a tutela di rapporti obbligatori per obblighi di fare infungibili[113].


Infatti la semplice constatazione per cui, tramite istanza cautelare ex articolo 700 c.p.c., sia stato chiesto un provvedimento non suscettibile di esecuzione in forma specifica, permette comunque di proporre la suddetta domanda dato che l’eventuale provvedimento di accoglimento potrebbe esercitare un tipo di coazione indiretto sulla mancata ottemperanza al previo ordine giudiziale[114].


Anche riguardo gli obblighi di fare e di non fare infungibili l’orientamento dottrinario prevalente[115] è comunque diretto a ritenere ammissibile l’adozione di provvedimenti di condanna ai sensi dell’articolo 700 c.p.c., dal contenuto inibitorio, a prescindere dalla concreta possibilità di dar loro attuazione.


Nonostante la difficoltà o l’impossibilità di attuazione in via coercitiva dei provvedimenti si mantiene l’idoneità degli stessi a esercitare una certa pressione sull’obbligato per ottenere l’adempimento volontario[116]. Inoltre la condanna a un facere infungibile è stata ritenuta ammissibile sul presupposto che la parte soccombente potrebbe comunque, eventualmente, dare volontaria esecuzione al provvedimento d’urgenza.


L’inidoneità alla cosa giudicata dei provvedimenti diversi dalla sentenza emessa a fine di un processo ordinario di cognizione è connessa all’insieme di garanzie che solo le decisioni rese in un giudizio a contraddittorio e cognizione pieni presenterebbero. “Ora, se è pacifico che il provvedimento cautelare propriamente detto, ovvero quello che presenta le caratteristiche della strumentalità rispetto ad un provvedimento principale e quindi della provvisorietà fino al sopraggiuungere di esso, è ontologicamente inidoneo al passaggio in giudicato, tanto formale quanto sostanziale, perchè destinato per sua natura a spirare ad un certo punto, più o meno lontano nel tempo, qualche considerazione di diverso tenore potrebbe farsi per un provvedimento modellato sullo schema di quello di cui all’articolo 23, d.lgs. n.5 del 2003, e all’articolo 669 octies c.p.c., come novellato[117].


Sulla inammissibilità del provvedimento d’urgenza diretto a cautelare un obbligo di per sè incoercibile, è chiaro il testo dell’ordinanza del Tribunale di Palermo datata 28 luglio 1995, che nel caso di specie ritiene possibile soltanto una tutela accordata tramite risarcimento del danno subito: “..il tribunale ha ritenuto costituire un facere infungibile l’attività, richiesta all’autore-ideatore di un programma di software, di risabilitazione dello stesso, e consistente in specifico nella eliminazione del numero di matricola che ne consentiva l’uso fino ad una certa data (..)[118].


Le ordinanze del 28 luglio 1995 e del 17 gennaio 1996, rispettivamente del Tribunale di Palermo e di Roma, risultano del tutto opposte quanto alla ammissibilità o meno della tutela d’urgenza ex articolo 700 c.p.c., per condannare all’adempimento di un facere infungibile.


La Legge 18 giugno 2009, n. 69, ha introdotto nel codice di rito l’articolo 614 bis, il quale presenta una rubrica insolitamente rilevante, il cui genuino valore esegetico si è imposto sul testo stesso della disposizione.


Il legislatore avrebbe voluto introdurre questo istituto solo per alcuni comandi giudiziali, caratterizzati dall’infungibilità della prestazione di fare, di non fare o di disfare ma non è possibile demandare alla rubrica la risoluzione dei problemi applicativi della norma.


Il modello più evoluto di astreinte, elaborato nell’ordinamento franco-belga, si caratterizza per il coordinamento tra la misura provvisoria e quella definitiva: la prima è una minaccia di sanzione pecuniaria quale conseguenza all’inosservanza spontanea della prescrizione giudiziale, la seconda è una concreta e conseguente condanna che viene liquidata ove, nonostante la astreinte provisoire, sia stato ineseguito l’obbligo da sanzionare di per sé, a prescindere dal danno sorto in capo al destinatario della prestazione non attuata e del conseguente, in ottemperato, ordine.


A seguito dell’introduzione del rito cautelare uniforme, si sono evidenziati nella prassi differenti problemi, tra cui anche il rapporto tra istanza cautelare e domanda di merito, tra l’oggetto della decisione del giudizio cautelare e il processo di merito conseguente, cui il primo è strumentale.


Quanto esposto si è autorevolmente registrato anche nel campo del processo esecutivo e quindi occorre capire se sia possibile recepire tale concetto nel campo della tutela e del processo cautelare e se, rispondendovi affermativamente, sarebbe poi necessario “precisare il significato del riferimento al processo, e indicare se ivi si riproduca quella possibilità di specificazioni ulteriori, concernenti singoli momenti dell’iter processuale, che si manifesta rispetto al processo dichiarativo. Da ultimo, gioverebbe accertare in qual senso l’oggetto del processo esecutivo possa essere rappresentato come un elemento in evoluzione, nel quale si rifletta la dinamica del processo, anziché un dato assolutamente statico[119].


Nell’ambito della tutela cautelare, la riflessione teorica degli ultimi decenni è stata concentrata sia sull’impiego degli strumenti di tutela interinale (soprattutto cautelare atipica), sia, a seguito della riforma del 1990, sul complesso microsistema della disciplina comune a tutte le misure cautelari ex artt. 669 bis ss. c.p.c.


La rottura del nesso di strumentalità da un lato attenua una delle classiche caratteristiche tipiche della cautela civile, dall’altro invece amplifica l’autonomia di tale forma di tutela.


Una simile svolta era necessaria e da tempo auspicata: la tutela cautelare si dimostrava del tutto anticipatoria e idonea a esaurire i bisogni della parte istante. Di conseguenza il giudizio di merito rivelava al contempo la propria superfluità.


Dunque la riforma ha rappresentato un’ulteriore evoluzione all’interno di un quadro di modifiche tese alla elaborazione di strumenti processuali idonei ad assicurare all’avente diritto la formazione di un titolo esecutivo giudiziale in via anticipatoria rispetto all’ordinaria sentenza di condanna.


Strumentalità e provvisorietà rimangono caratteristiche indefettibili della tutela cautelare propriamente e rettamente intesa. Il provvedimento che, richiesto e pensato come cautelare al momento della domanda, possa sopravvivere indipendentemente da una relazione strutturale e funzionale con un giudizio ed un provvedimento di merito, non è qualificabile, applicando le categorie ad oggi unanimemente accettate, come provvedimento cautelare[120].


Ben diversi sono i contenuti della domanda cautelare richiesta ante causam da un lato e della domanda di merito dall’altro.


È possibile che l’unica domanda di cui il Giudice sarà chiamato a conoscere sia quella del provvedimento cautelare medesimo, dato che il giudizio principale mai potrebbe essere instaurato: è dunque necessario prospettare, nel modo più completo ed esaustivo, il petitum urgente connesso a una posizione sostanziale da illustrarsi in modo da consentire all’organo decidente di approntare la più consona e tendenzialmente definitiva tutela.


Non è possibile sostenere che eventuali lacune nella domanda in sede di tutela cautelare urgente possano essere colmate nell’ambito del giudizio principale poiché in questo modo si vulnererebbe la ratio dello strumento in oggetto e quindi la sua finalità propriamente deflattiva.


La dottrina si è spesso interrogata sulle conseguenze più o meno effettive della nuova disciplina, relativi all’eliminazione del nesso di strumentalità necessaria, sul contenuto della cautela a seguito dello sganciamento dal merito: sembrerebbe consentita la non instaurazione del merito anche per provvedimenti d’urgenza meramente conservativi. Tale soluzione è stata ritenuta irragionevole.


Il legislatore avrebbe innanzitutto menzionato i provvedimenti d’urgenza come paradigma di misure cautelari con effetti normalmente anticipatori e poi ogni altra misura propriamente “anticipatoria”.


Proprio sui provvedimenti d’urgenza di cui all’articolo 700 c.p.c. la dottrina ha espresso diverse e anche inconciliabili opinioni.


Da un lato se ne è affermata l’idoneità a incidere sul rapporto dedotto in senso innovativo e di mera conservazione: infatti i provvedimenti d’urgenza non perseguirebbero la finalità di necessaria e strutturale anticipazione della tutela cognitiva principale ma la diversa funzione di assicurare provvisoriamente gli effetti della futura decisione di merito. Secondo tale tesi lo scopo dell’istituto sarebbe solo assicurare e non necessariamente soddisfare, la pretesa sostanziale del ricorrente, senza quindi risolvere la questione sorta in via sommaria e anticipata.


Di conseguenza l’intenzione è approntare rimedi idonei a evitare il pregiudizio che minaccia la posizione giuridica da garantire.


In realtà ogni provvedimento cautelare è richiesto attraverso una domanda il cui oggetto appare diverso rispetto a quello della principale e, tendenzialmente, la domanda di tutela provvisoria urgente non è mai autosufficiente. I provvedimenti cautelari atipici conservativi non fruiscono della disciplina elaborata a seguito del riconoscimento dell’indipendenza delle misure ex articolo 700 c.p.c. dal giudizio di merito.


Inoltre la dottrina, particolarmente orientata alla prospettiva europea, ha criticato il circoscritto allentamento del nesso di strumentalità operato dal legislatore interno solo per i provvedimenti cautelari anticipatori. A tal proposito è da ricordare come la dicotomia tra provvedimenti conservativi e anticipatori sia sconosciuta agli altri ordinamenti[121].


Da alcuni decenni la tutela cautelare si è spesso trasformata da mezzo strumentale e provvisorio in istituto alternativo alla tutela ordinaria. La sua ampia fortuna applicativa è dovuta alla possibilità di imprimere a tali provvedimenti un contenuto idoneo ad attribuire alla parte, con anticipazione degli effetti della sentenza di merito, le utilità che potrebbe conseguire solamente a conclusione di un lungo processo di cognizione.


Quindi il provvedimento d’urgenza avrebbe nel tempo perso progressivamente parte della sua propria e tipica natura cautelare, sia per la combinazione della funzione cautelare dell’istituto con quella genericamente anticipatoria della tutela finale e satisfattiva, sia per la crisi del processo civile, la quale ha indotto a ricercare strumenti idonei a risolverla.


In tal modo è risultato evidente come spesso al provvedimento urgente non seguisse l’instaurazione del giudizio di merito, probabilmente per il totale appagamento ricevuto grazie al primo.


A differenza della disciplina insita nella Legge 31 maggio 1995, n. 218, “Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato”, le “decisioni” automaticamente riconosciute (ivi inclusi i provvedimenti cautelari ai sensi dell’articolo 31 Reg. CE 44/2001) possono essere esportate in ambito europeo se pronunciate dal Giudice cautelare competente anche per il merito della lite.


Quale premessa a una simile conseguenza si deve ricordare la necessità di verificare con rigore il tipo di rapporto sussistente tra cautela e causa principale, secondo i vari profili inerenti al tema dell’oggetto del processo.


In riferimento alla relazione tra domanda cautelare e domanda di merito, la Corte di Cassazione ha statuito: “La circostanza che a seguito delle recenti modifiche dell’articolo 669 octies c.p.c. e articolo 669 novies c.p.c. (..) sia venuta meno la necessità di instaurazione del giudizio di merito ai fini della conservazione della misura cautelare concessa, e che per questa vi si sia allentato il rapporto di strumentalità necessaria della tutela cautelare rispetto al merito, non fa venir meno la configurazione del provvedimento cautelare rispetto al merito, non fa venir meno la configurazione del provvedimento cautelare quale atto di tutela anticipata demandata al Giudice competente per il merito, anche se poi un giudizio di merito dovesse mancare in quanto dal provvedimento emesso in sede cautelare potrebbe essere conseguito un assetto del rapporto controverso che nessuna delle parti ha interesse a modificare[122].


La differenza di rilievo che emerge tra l’esecuzione forzata satisfattiva e l’esecuzione cautelare si rinviene nelle rispettive diverse finalità: nel primo caso è immediato il riferimento alla tutela giurisdizionale dei diritti mentre l’esecuzione per attuare la misura cautelare serve ad assicurare la situazione sostanziale cautelanda.


L’autorità del provvedimento cautelare non è invocabile in un processo diverso dato che si tratta comunque di un’efficacia “provvisoria”, condizionata dalle successive vicende processuali e svincolata dagli effetti del giudicato[123].


Nel giudizio di merito il provvedimento di urgenza esaurisce i suoi effetti, rimanendo assorbito nella sentenza nel caso di esito favorevole, mentre si caduca nel caso opposto”[124]. Pertanto il provvedimento d’urgenza non può formare oggetto di impugnazione autonoma o di ricorso in Cassazione ex articolo 111 Cost[125].


Dopo poco più di un decennio dall’entrata in vigore della Legge 26 novembre 1990, n. 353, sono state apportate significative modifiche alla normativa inerente il procedimento cautelare uniforme: una delle linee direttrici considerate dal legislatore è stata infatti quella dell’allentamento del nesso di rigida strumentalità per le misure cautelari anticipatorie e per i provvedimenti previsti dall’articolo 700 c.p.c.


Le Leggi n. 80 e n. 263 del 2005 (quest’ultima comportante interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con la precedente Legge n. 80) hanno permesso l’ingresso nell’ordinamento del principio di “stabilità” del provvedimento cautelare, grazie a cui quest’ultimo può divenire definitivo e quindi regolare i rapporti tra le parti anche senza previa instaurazione del relativo giudizio di merito[126].


Comunque sia, nonostante le modifiche, il provvedimento cautelare continua a configurarsi quale atto di tutela anticipata demandata al Giudice competente per il merito, a prescindere dal successivo giudizio di merito, poichè dal provvedimento cautelare potrebbe derivare un assetto del rapporto controverso soddisfacente per le parti.


A parziale completamento di quanto detto inizialmente circa i rapporti tra tutela cautelare e tutela giurisdizionale, si ricordi anche la considerazione della Corte Costituzionale per cui i provvedimenti cautelari adottati dal Giudice quale espressione del principio basato sulla necessità di garantire ogni situazione giuridica tramite provvedimento cautelare siano una componente essenziale della stessa tutela giurisdizionale[127].


Recentemente, in via evolutiva, è stata ascritta alla tutela cautelare una ben determinata funzione, ossia quella di garantire un intervento specifico, pur non definitivo, a situazioni caratterizzate da urgenza ove non sia possibile attendere lo sviluppo di una normale procedura giudiziaria a causa di possibili pregiudizi nei confronti dei diritti delle persone interessate.


Quindi lo scopo è quello di emettere misure volte a preservare l’efficacia del provvedimento che definirà la controversia nel merito e che potrebbe nel frattempo essere pregiudicato.


Da ultimo, in relazione al rapporto tra cognizione sommaria e piena, autorevole dottrina[128] ha affermato in prospettiva futura che all’interno della prima si debba distinguere la sommarietà tradotta in mere differenze procedurali rispetto all’iter proprio del processo ordinario di cognizione e la sommarietà consistente anche in una diversa intensità dell’accertamento.


In tale caso si sarebbe in presenza di una vera e propria cognizione sommaria: un procedimento può essere semplificato ma condurre a un provvedimento dotato di effetti identici a quelli del provvedimento definitivo a fine giudizio ordinario. Quando il procedimento semplificato si basa su una cognizione sommaria incompleta, parziale e superficiale dei fatti, il provvedimento che ne deriva non otterrà mai l’efficacia dichiarativa definitiva e incontrovertibile del diritto sostanziale; i relativi effetti saranno passibili di ridiscussione o di revocazione nell’ambito di un processo ordinario.


Il riferimento al “provvedimento di condanna” quale presupposto per la pronuncia di una misura coercitiva, conduce a ritenere che essa possa esservi non solo ove la condanna a un fare infungibile o a un non fare sia contenuta in sentenza ma anche qualora sia inclusa all’interno di provvedimenti di natura condannatoria diversi dalla sentenza (quali i provvedimenti cautelari o, più precisamente, le misure d’urgenza, specie se a contenuto anticipatorio), in provvedimenti sommari decisori pronunciati ex articolo 702 bis c.p.c. oppure, infine, in lodi arbitrali muniti degli “effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria[129].


Oltre a tale premessa però si sottolinea come la misura coercitiva non possa essere disposta dal Giudice in sede di conciliazione giudiziale se dall’accordo conciliativo dovessero per le parti scaturire obbligazioni di fare infungibili o di non fare, dato che non è ivi riscontrabile un avvicinamento al “provvedimento di condanna”. I soggetti coinvolti eventualmente giungerebbero al medesimo risultato imponendo una misura coercitiva pecuniaria proprio in sede di formazione dell’accordo conciliativo.


Assicurare provvisoriamente gli effetti delle sentenze di condanna risulta essere la naturale vocazione della tutela d’urgenza ex articolo700 c.p.c.


Al riguardo è opportuno operare una preliminare e rilevante distinzione tra sentenze di condanna per obblighi di fare e di non fare fungibili e sentenze di condanna relative a obblighi di fare infungibili.


La tutela d’urgenza per obblighi di fare e di non fare fungibili appare pienamente in grado di esplicare la propria funzione cautelare e di soddisfare l’interesse del soggetto attivo, ex artt. 2931 e 2933 c.c.; analogamente si può affermare per cautelare in via urgente gli effetti di sentenze sia volte a condannare all’adempimento tanto di obbligazioni pecuniarie quanto di obblighi di consegna, sia idonee a ottenere il rilascio di un bene immobile.


Anche per gli obblighi di fare infungibili l’orientamento dottrinario prevalente[130] è comunque volto a ritenere ammissibile l’adozione di provvedimenti di condanna ex articolo700 c.p.c. indipendentemente dalla concreta possibilità di attuazione, se in presenza di pericolo imminente e irreparabile della lesione di posizioni sostanziali del ricorrente, a carattere assoluto, interveniente nel periodo di tempo necessario a far valere il diritto in via ordinaria.


La tutela di condanna a un facere infungibile è stata ritenuta ammissibile (anche da parte della Suprema Corte) sul presupposto che la parte soccombente potrebbe comunque dare volontaria esecuzione al provvedimento d’urgenza.


Il ricorso all’articolo 700 del codice di rito sarebbe comunque possibile in tali fattispecie, dato che si riferisce alla pronuncia di un atto giurisdizionale per realizzare la volontà di legge indicata dalla norma e quindi suscettibile di trovare attuazione anche mediante azione di risarcimento danni per inosservanza del provvedimento stesso e per la dipendente lesione derivata al bene o alla situazione protetta dalla norma sostanziale alla cui salvaguardia era appunto diretto.


A fronte di una condanna a un obbligo di fare infungibile, la pronuncia impositiva di un obbligo anche incoercibile costituisce uno strumento di coazione indiretta e, implicando un accertamento dell’illecito, risulta comunque strettamente funzionale alla successiva richiesta di risarcimento danni in caso di inadempimento.


Analogamente, anche un provvedimento cautelare d’urgenza può produrre un’utile funzione compulsoria per indurre psicologicamente l’obbligato ad adempiere spontaneamente.


Con riferimento al contenuto dei provvedimenti d’urgenza diretti ad assicurare gli effetti di future sentenze di condanna, il Giudice adito potrà impiegare i principi-base della funzione cautelare e quindi per esempio, in tema di inadempimento contrattuale, ordinare al soggetto passivo un adempimento solo parziale o il rispetto di determinate modalità di adempimento ed evitare infine effetti irreversibili o difficilmente rimovibili in base all’esito del futuro giudizio di merito.


Il Giudice della cautela deve provvedere anche a tutelare gli interessi contrapposti delle parti, tramite il provvedimento che, anche prescindendo da qualsiasi anticipazione, renda possibile l’integrale realizzazione del diritto in sede di tutela di merito.


Gli effetti della decisione di merito concretamente assicurabili in via d’urgenza, in genere tramite provvedimenti anticipatori, sarebbero i cosiddetti effetti principali della sentenza, oggetto specifico della domanda e della decisione. Ne resterebbero esclusi gli effetti “secondari”, la cui produzione è dal legislatore ricollegata esclusivamente alla sentenza.


Utilizzando un provvedimento d’urgenza non sarebbe possibile iscrivere ipoteca giudiziale perché tale misura non costituirebbe titolo idoneo a tal fine e inoltre il Giudice non la potrebbe inserire nell’ambito di tale catalogo normativo.


Non è possibile cancellare, tramite l’istituto di cui all’articolo700 c.p.c., l’iscritta ipoteca nè la trascritta domanda giudiziale, in quanto la misura non risulta in grado di anticipare l’effetto ricollegato dalla legge al fatto oggettivo del rigetto della domanda documentato dalla sentenza di merito.


In giurisprudenza si è ritenuto ammissibile un provvedimento cautelare d’urgenza avente a oggetto una prestazione di fare infungibile sostenendo che rilevasse “l’operatività di una pronuncia giudiziale nell’ambito del ‘possibile giuridico’ e non già nell’ambito del ‘possibile materiale’” [131].


Oltre a permettere la produzione degli effetti auspicati tramite volontaria esecuzione dell’obbligato, il relativo provvedimento rappresenterebbe anche il presupposto per conseguenze giuridiche scaturite dall’inosservanza dell’ordine pronunciato, come per la domanda di risarcimento del danno[132].


Quanto all’ammissibilità di condanne a un facere infungibile, è significativo ricordare il precedente giurisprudenziale di cui alla sentenza n. 7500 della Suprema Corte, datata 24 agosto 1994, collocatasi nell’ambito di un precedente più consolidato, elaborato dalla giurisprudenza di legittimità[133].


Inoltre le misure cautelari atipiche possono essere dal Giudice impiegate e di conseguenza anche adattate nell’ambito della situazione concreta presentatasi, in quanto strumentali alla decisione di merito e all’esigenza di tutelare il diritto dedotto, evitando effetti irreversibili o difficilmente rimovibili a seguito del giudizio di merito.


In definitiva, a sostegno del collegamento tra l’articolo 614 bis c.p.c. di recente introduzione e la categoria degli obblighi di fare infungibili, è stata rilevata la generalizzata possibilità[134] di imporre mezzi di coercizione indiretta, nei provvedimenti giudiziali condannatori per tali prestazioni, anche nelle fattispecie di provvedimenti cautelari, grazie alla previsione di cui al c. 1 della disposizione, riferibile a qualunque “provvedimento di condanna”.


L’ordine cautelare dato ai sensi dell’articolo 700 c.p.c. è un provvedimento di natura anticipatoria rispetto alla pronunzia di condanna ed è assimilabile a quest’ultima agli effetti dell’applicabilità della disciplina di cui all’articolo 614 bis c.p.c. per l’attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare.


La misura prevista dall’articolo 614 bis c.p.c. è volta ad assicurare l’attuazione sollecita del provvedimento e, come per la condanna, è quindi funzionale, innanzi tutto, a favorire la conformazione a diritto della condotta della parte inadempiente e, conseguentemente, ad evitare la produzione del danno o, quanto meno, a ridurre l’entità del possibile pregiudizio; la misura, in secondo luogo, assicura anche in sede cautelare l’esigenza di garantire un serio ristoro di fronte al perdurare dell’inadempimento, in funzione quindi deflativa del possibile contenzioso successivo, limitato all’eventualità che si produca un danno non integralmente soddisfatto dalla statuizione giudiziale”[135].


La citata ordinanza del Tribunale di Cagliari ha applicato il nuovo articolo 614 bis c.p.c. affermando che l’ordine cautelare urgente sia un provvedimento di natura anticipatoria rispetto alla pronuncia di condanna nel merito, assimilabile a quest’ultima[136].


Si potrebbe forse ritenere che le eventuali conseguenze unicamente risarcitorie, derivanti dall’inottemperanza alla misura cautelare, si ottengano a fronte del mancato rispetto degli obblighi imposti dalla sentenza conclusiva del processo e che l’inadempimento del comando giudiziale, in sede cautelare, non porti a un’autonoma e ulteriore quantificazione della misura del risarcimento.


Sarebbe anche possibile, in casi non certi, che il debitore intenda pagare solo i danni causati dall’inosservanza delle previsioni contenute in sentenza, in quanto previamente non sarebbe in colpa.


La precedente considerazione non si potrebbe sostenere se prima della sentenza il comportamento da tenere fosse già ingiunto tramite previsione di una misura cautelare pronunciata dopo la valutazione del fumus bonis iuris a opera del Giudice competente.


Ove eventualmente la condanna cautelare a eseguire la prestazione rimanesse inadempiuta, potrebbero verificarsi danni ulteriori rispetto a quelli all’inizio imprevedibili[137].


Al fine di vietare un’attività che, se svolta, permette il ritorno allo status quo ante grazie ad attività fungibile di ripristino, essa potrebbe prevedersi in via eventuale già all’interno della misura cautelare di divieto e comunque appare successivamente concedibile ex articolo 669 duodecies c.p.c., semplicemente come attuazione della misura cautelare in primis resa.


L’orientamento che negava l’ammissibilità delle ordinanze d’urgenza in funzione della condanna a un fare infungibile, muoveva dal presupposto dell’impossibilità di attuare coattivamente simili obblighi e, dunque, dall’inutilità a priori della concessione della misura cautelare.


Rispetto al provvedimento giudiziale condannatorio, prevedere una misura coercitiva non deriva dalla verifica del mancato adempimento imputabile al debitore ma risulta in funzione di un futuro ed eventuale inadempimento.


In relazione all’esperibilità della cautela d’urgenza per tutelare prestazioni infungibili, è da ricordare ancora una volta il motivo per cui abbiano trovato accordo dottrina e giurisprudenza.


“Si tratta di un argomento strettamente tecnico ma che investe anche opzioni decisive sui rapporti tra diritto sostanziale e diritto processuale, sul ruolo che si assegna alla tutela giurisdizionale, nonchè all’estensione che si attribuisce al principio di effettività della tutela giurisdizionale per i diritti a prestazioni che sfuggono all’attuazione coattiva nelle forme dell’esecuzione forzata o in quelle, previste per la tutela cautelare, di cui all’articolo 669-duodecies introdotto dalla recente riforma del rito civile[138].


Quando si parla di “diritti non realizzabili coattivamente”, il richiamo non è unicamente agli obblighi implicanti un facere infungibile, che quindi possono essere adempiuti solo tramite la cooperazione dell’obbligato, ma anche ai diritti, a contenuto negativo, relativi a obblighi di non fare che si risolvono dunque in doveri di astensione la cui attuazione forzata necessariamente si sposta sul momento del ripristino (ossia del risarcimento in forma specifica).


Il tema sconfina dall’ambito stesso della tutela cautelare, inserendosi in quello della tutela di cognizione e soprattutto “di condanna”: il quesito controverso sulla necessaria correlazione tra condanna ed eseguibilità si ripropone anche nell’ambito della tutela cautelare, in termini sostanzialmente identici.


A fine Anni ’90 sembrava prevalente la tendenza a escludere provvedimenti d’urgenza per l’anticipazione cautelare degli effetti di una sentenza di condanna non suscettibili di esecuzione forzata[139].


La caratteristica dell’ “utilità” della tutela cautelare, come requisito per l’ammissibilità, diventa problematica quando la tutela d’urgenza è domandata per anticipare gli effetti di una sentenza di condanna, ossia quando è essa stessa “tutela di condanna”.


In realtà però la tutela cautelare non si esaurisce nella funzione di mera “tutela cautelare di condanna”: la stretta correlazione tra la tutela di cognizione e la tutela cautelare, fondata sull’articolo 24 Cost. si esprime nella constatazione per cui il bisogno della seconda menzionata possa presentarsi ove sia necessaria la prima (e quindi non si tratta necessariamente di “condanna”).


Ormai è certo che la tutela cautelare d’urgenza possa essere utilizzata anche con preordinazione strumentale ai processi di mero accertamento e di accertamento costitutivo, ambiti dai quali l’esecuzione forzata per definizione risulta esclusa.


E’ richiesta una misura cautelare nel momento in cui si tema un pericolo di tardività per il mancato adempimento tempestivo della sentenza di merito e il conseguente ritardato prodursi di tutti i possibili effetti di quest’ultima.


In riferimento allo specifico caso dell’attuazione del contratto preliminare, è possibile ricordare la sentenza n. 2018 della Corte di Cassazione datata 21 luglio 1962, che ha consentito una domanda di condanna ordinaria, permettendo così di superare il preconcetto della menzionata correlazione necessaria e anche riconoscendo l’utilizzo della condanna al fine di raggiungere “..uno scopo per il quale il legislatore ha costruito altro e più agevole percorso[140].


Se il provvedimento d’urgenza non potesse realizzarsi anche tramite esecuzione forzata, la sua attuazione sarebbe lasciata all’arbitrio del destinatario della misura, il quale potrebbe anche non adeguarvisi, demandando all’ordine giudiziale il solo valore di flatus vocis.


Nonostante la considerazione per cui il provvedimento d’urgenza abbia una sua specifica funzione, è stato da Alcuni sottolineato come in realtà, nonostante l’impossibilità di attuazione mediante esecuzione forzata, esso potrebbe produrre diverse conseguenze di rilievo in ordine alla determinazione futura dell’entità del danno risarcibile, della colpa e della malafede dell’inadempiente obbligato.


L’attenzione però dev’essere appunto focalizzata sullo scopo precipuo della cautela d’urgenza, cioè sul raggiungimento di un’efficace attuazione della sentenza definitiva di merito.


In dottrina si è sostenuta la indispensabilità della caratteristica della “coercibilità” per l’ordine giudiziale ex articolo 700 c.p.c., in quanto, altrimenti, non si potrebbe più definire “ordine” e diverrebbe inutile la sua eventuale emanazione, in quanto volta a costringere a tenere una condotta che, in definitiva, sarebbe impossibile imporre. Pertanto il suddetto problema è spesso apparso senza soluzione.


Quanto invece alle eventuali conseguenze meramente risarcitorie derivanti dall’inottemperanza di una misura cautelare, le si potrebbe ritenere assimilate a quelle scaturite dall’inottemperanza agli obblighi imposti dalla sentenza conclusiva del processo, cui comunque si dovrà giungere, non portando quindi a un’autonoma e ulteriore quantificazione della misura del risarcimento.


Sarebbe allora possibile per il debitore sostenere di dover pagare unicamente i danni occorsi per non aver rispettato quanto previsto in sentenza, dato che, precedentemente, non sarebbe invece in colpa. Non potrebbe agire in tal senso se prima della sentenza medesima il comportamento da tenere già gli fosse ingiunto mediante una misura cautelare.


È poi anche possibile rafforzare l’efficacia di un provvedimento siffatto tramite altre e differenti misure cautelari.


Un ultimo cenno si affronta in relazione all’ammissibilità di una tutela cautelare a fronte di situazioni sostanziali che nel giudizio di merito necessitino di una sentenza costitutiva, dato che si manifesta molto controversa la possibilità di anticipare gli effetti di tale tipologia di provvedimento.


Seguendo l’insegnamento di CHIOVENDA, la dottrina prevalente in primis individua, quali caratteristiche dell’azione costitutiva, il fatto che la pronuncia di una simile sentenza esiga l’accertamento del diritto potestativo a ottenere la creazione ex novo, l’annullamento o la modifica dei preesistenti rapporti sostanziali.


La sentenza costitutiva quindi produce effetti sia dichiarativi che costitutivi e proprio per questo alcuni studiosi hanno escluso che si possano anticipare in sede cautelare gli effetti del suddetto provvedimento giudiziale. Non è stato ritenuto dunque possibile tutelare in sede cautelare una situazione giuridica formatasi solo tramite sentenza costitutiva. La tutela relativa a questa non è considerata ammissibile in quanto il diritto stesso non esisterebbe.


L’ordinanza emessa dal Tribunale di Verona il 18 marzo 2009[141] ha invece ritenuto solo dubbia la possibilità di accogliere l’istanza presentata per una pronuncia cautelare costitutiva (nel caso di specie, si trattava di una revoca anticipatoria della qualifica di “socio”) ove l’efficacia di questa fosse soggetta al formarsi del giudicato e non fosse ravvisato pericolo di pregiudizio nel ritardo.


Per giustificare l’incertezza dell’impiego della tutela cautelare qualora il merito della controversia necessiti di una pronuncia costitutiva con efficacia connessa al passaggio in giudicato della relativa sentenza, M. NARDELLI, nella nota a sentenza relativa all’ordinanza in oggetto, ha riportato il tradizionale argomento per cui, prima della sentenza costitutiva, si riterrebbe insussistente una posizione soggettiva connotata dall’attualità. “Prima della decisione giudiziaria non vi sarebbe invece spazio per una tutela anticipata, rispetto ad un diritto solo sperato, e quindi ancora non suscettibile di tutela. Tale tesi è stata sottoposta però a una rivisitazione da parte di altro orientamento, nella misura in cui si è evidenziato che anche nel caso della tutela costitutiva può esservi la doverosa necessità di anticipare gli effetti della futura decisione giudiziaria, al fine di non pregiudicare la posizione giuridica del soggetto interessato. D’altra parte, non si è neppure mancato di osservare come la sentenza costitutiva tutelerebbe un diritto soggettivo preesistente al processo, e che sarebbe stato oggetto di una precedente violazione, sicchè non vi sarebbe motivo per negare in tali casi l’applicabilità della tutela d’urgenza”.


7. Angolo visuale della giurisprudenza.


La giurisprudenza è risultata restrittiva e refrattaria rispetto alle tesi dottrinali in argomento, ancorate invece a una visione reazionaria o di conservazione.


Le applicazioni pratiche dell’istituto del provvedimento cautelare d’urgenza ex articolo 700 c.p.c. sono riscontrabili in molteplici settori.


Preliminarmente si deve affermare l’esistenza di una interferenza tra profili di tutela processuale e di diritto sostanziale. La tutela di condanna può assumere connotati e funzioni diversi in base a eterogenee esigenze o secondo la struttura delle singole situazioni sostanziali.


Con riferimento all’ambito lavorativo, ad esempio, il legislatore, nonostante la qualifica di “prestazione infungibile” per la reintegrazione del lavoratore e la conseguente impossibilità di esecuzione in forma specifica, ha tentato di usare ogni mezzo disponibile per ottenerne il relativo adempimento, sia pure in via coattiva.


Il rimedio è stato quindi impostato sul ricorso a forme di esecuzione indiretta per conseguire il risultato atteso dal lavoratore-creditore e sull’attribuzione della qualifica di “titolo esecutivo” a una sentenza non eseguibile secondo le forme processuali codificate.


All’inizio degli Anni Duemila alcune ordinanze del Tribunale di Napoli hanno affrontato la questione della tutela cautelare in materia di lavoro con soluzioni anche contrastanti rispetto alle tesi interpretative allora prevalenti in giurisprudenza e dottrina.


L’ordinanza datata 7 maggio 2002, inerente alla richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro da parte di un dirigente licenziato, aveva rilevato il requisito del periculum in mora e quindi riconosciuto l’ammissibilità della tutela cautelare del diritto di credito e la gravità del pregiudizio alla professionalità e all’immagine, a condizione però che fosse provata in concreto la lesione attuale dei beni da garantire.


Un secondo provvedimento di tal genere, del 13 aprile 2002, si era invece attestato sulla inapplicabilità della tutela cautelare in presenza della violazione dell’articolo 2103 c.c.[142], in quanto non si riteneva possibile, senza una norma quale l’articolo 18 della L. 300/70, costringere il datore di lavoro a ripristinare l’originaria situazione pregressa e a ottenere con il provvedimento d’urgenza un risultato che non si sarebbe potuto ottenere con la sentenza di merito.


In simili fattispecie si è ritenuta adeguata la misura coercitiva prevista nel caso di illegittimo licenziamento ai danni di un sindacalista interno: il datore che non rispetti quanto previsto nella sentenza di condanna o nel provvedimento sommario emesso ex articolo 18, c.10 dello Statuto dei lavoratori, dovrebbe pagare al Fondo adeguamento pensioni la retribuzione e una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore, per ogni giorno di ritardo nella reintegra.


Proprio in riferimento al suddetto articolo 18, esso costituisce l’atteggiarsi a “sanzione civile” di una misura coercitiva consistente nel pagamento di una somma di denaro al creditore o a un terzo.


Inteso “sanzione penale”, l’ulteriore inadempimento si presenta come fosse un reato, collegato all’articolo 28 della medesima L. 300/70[143], al cui interno le funzioni repressiva e preventiva della condanna risultano chiaramente distinte.


In generale comunque si ritiene che, attraverso una sentenza o un provvedimento cautelare che prescriva ai sensi dell’articolo 18 la reintegrazione del lavoratore precedentemente licenziato, il rapporto di lavoro possa essere giuridicamente ricostituito.


In simili fattispecie, il Giudice condanna il datore di lavoro a reintegrare il dipendente ma anche a risarcire il danno subìto a fronte dell’illegittimo licenziamento con una indennità rapportata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegra. In alternativa il lavoratore ha la facoltà di chiedere un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto.


In materia di controversie di lavoro la giurisprudenza di merito ha ritenuto che l’esistenza del periculum in mora debba essere accertata caso per caso in relazione all’effettiva situazione socioeconomica del “lavoratore”: il ricorrente dovrà quindi allegare e provare circostanze relative non solo alla sua situazione familiare ma anche alla necessità di affrontare spese indilazionabili e alla compromissione del proprio equilibrio psico-fisico.


Simili riferimenti devono permettere di rilevare che la perdita del posto di lavoro o la mancata assunzione, con conseguente perdita o non acquisizione della retribuzione, possano configurarsi come fonte di irreparabile pregiudizio.


Si è considerato che il periculum in mora vada oltre il semplice fatto della disoccupazione poiché, in caso contrario, ogni licenziamento integrerebbe un pregiudizio imminente e irreparabile, rendendo il ricorso all’articolo 700 c.p.c. uno strumento ordinario per rilevare l’illegittimità del recesso datoriale, in contrasto con la disciplina del processo del lavoro la cui naturale forma di impugnativa del licenziamento è prevista ex articolo 414 c.p.c.


Nel 2002 l’impiego del provvedimento cautelare d’urgenza era stato richiesto al Tribunale di Roma nel caso relativo al giornalista RAI Michele Santoro, per adibire quest’ultimo “alle mansioni di cui al contratto del 14.4.1999, così come effettivamente svolte ed esercitate in concreto, ovvero alla realizzazione e alla conduzione di programmi televisivi di approfondimento dell’informazione di attualità”, sostenendo l’illegittimità del comportamento datoriale che ne aveva determinato il demansionamento.


A fronte del reclamo ex articolo 669 terdecies c.p.c., del 9 dicembre 2003, presentato dalla RAI contro l’ordinanza del Tribunale di Roma, in accoglimento del ricorso per applicare l’articolo 700 c.p.c., fu pronunciata un’ordinanza di conferma dell’obbligo di reintegra, richiamando la consolidata giurisprudenza quanto al periculum in mora,secondo cui la privazione del contenuto professionale proprio della qualifica di appartenenza integra in re ipsa un pregiudizio, avendo il lavoratore il diritto a vedere mantenuto integro il proprio status, e, a prescindere da eventuali profili di danno patrimoniale indotti dalla situazione, egli ha comunque diritto a vedere reintegrata la propria posizione lavorativa lesa dal comportamento datoriale illegittimo. Ed infatti il ridimensionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’articolo 2103 c.c., ma ridonda in lesione del diritto fondamentale, da riconoscere al lavoratore anche in quanto cittadino, alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro (cfr. Cass. 11727/99). La circostanza che un lavoratore sia privato delle mansioni rende configurabile un danno a carico dello stesso, consistente nell’impoverimento delle sue capacità professionali dovuto al mancato esercizio della professione (Cass. n.9228/2001, nella causa RAI – Martorano). A tali considerazioni di carattere generale, peraltro di per sé assorbenti, si impone nella fattispecie l’ulteriore osservazione che la posizione assunta dal Santoro nel non breve esercizio di mansioni di oggettivo rilievo all’interno della programmazione RAI e l’elevato livello di competenza e professionalità raggiunta, costituiscono sicuri indici di apprezzamento dell’entità del danno indotto dalla denunciata privazione di mansioni”.


Ancora a favore dell’applicazione dell’articolo 700 c.p.c. si è espresso il Tribunale di Roma in relazione alla controversia tra la giornalista Tiziana Ferrario e la RAI, con ordinanza del 28 dicembre 2010, confermata successivamente tramite il rigetto del reclamo proposto.


In tale fattispecie erano ravvisate una lesione della professionalità della lavoratrice e l’attuazione di una condotta discriminatoria nei suoi confronti, derivante dallo spostamento incorso dalle mansioni precedentemente svolte di conduttrice di telegiornale.


Il Giudice dell’ordinanza aveva ritenuto di non condividere la preliminare doglianza in memoria relativa all’inammissibilità del ricorso in quanto, pur essendo la prestazione della reintegra incoercibile in executivis, l’ordine in tal senso avrebbe potuto già di per sé indurre l’obbligato a conformarvisi spontaneamente.


Quanto alle conseguenze del licenziamento illegittimo non si produrrà, anche a fini previdenziali, l’estinzione del rapporto lavorativo. In tal senso, inoltre, la sentenza giudiziale è considerabile quale forma di controllo a garanzia della parte debole del rapporto lavorativo (lo si ricostruisce retroattivamente).


Per quanto attiene all’interesse protetto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, è stato autorevolmente osservato come l’eventuale infungibilità riscontrata non dipenda da caratteristiche “naturali” della prestazione richiesta al datore: il ripristino della collaborazione lavorativa può essere conseguito anche senza la cooperazione dell’obbligato e quindi, ad esempio, tramite la nomina di un commissario ad acta per reintegrare il lavoratore leso, nonostante sia diritto del datore organizzare la propria attività imprenditoriale.


In tal caso però è evidente non si tratti di incoercibilità in re ipsa dato che l’infungibilità non risulta intrinseca alla richiesta prestazione.


Il contenuto dell’obbligo di reintegra ha natura complessa e consiste nella riammissione nel posto della controparte “debole” per poter essere in tal modo produttivamente reinserita.


La relativa attuazione esige quindi che l’imprenditore ponga in essere più comportamenti tipicamente rivolti tanto a riammettere il lavoratore nella sua precedente posizione (obbligo di pati) quanto a pianificare l’attività lavorativa attraverso un insostituibile comportamento attivo del datore di lavoro (obbligo di fare in senso stretto).


La verifica su coercibilità e surrogabilità del comportamento datoriale deve tener conto del carattere continuativo degli obblighi mirati all’effettivo reinserimento del lavoratore.


L’incoercibilità specifica della reintegra deriva dalla natura intrinsecamente esclusiva del potere organizzativo cui l’obbligo accede, che è un potere riservato all’imprenditore e ai suoi collaboratori gerarchici, ex artt. 2104 e 2086 c.c., necessariamente coordinato alla collaborazione cui è tipicamente finalizzata la prestazione del lavoratore subordinato, ai sensi dell’articolo 2094 c.c.


L’orientamento preminente in giurisprudenza e in dottrina afferma la totale infungibilità dell’obbligo di reintegra e individua l’apposita misura compulsoria voluta dal legislatore nell’obbligo di erogare comunque la retribuzione in un momento successivo alla sentenza.


La giurisprudenza di merito ha poi cercato di “dimostrare che, ai fini dell’eseguibilità in via coattiva, l’obbligo di reintegra, non consistendo in una prestazione omogenea, dovrebbe essere ‘scomposto’ in una pluralità di singole prestazioni articolate, tra loro eterogenee, ed obblighi, alcuni dei quali possono essere ottenuti in executivis, altri no.


Andrebbe, pertanto, di volta in volta verificato, all’interno della fattispecie, quali obblighi siano fungibili, e di conseguenza direttamente coercibili, e quali, diversamente, siano attività assolutamente infungibili e pertanto sfuggenti ad ogni coercizione diretta[144].


In altro ambito, relativo al rapporto di subfornitura, ove è stata varata la Legge 18 giugno 1998, n. 192, il legislatore ha preso in maggiore considerazione la posizione degli imprenditori economicamente più deboli rispetto ai committenti, spesso anche “cattivi” pagatori.


Il provvedimento cautelare d’urgenza è stato ammesso anche in relazione all’ “abuso di dipendenza economica”[145], previsto ai sensi dell’ articolo 9 della suddetta legge[146].


Il Tribunale di Catania, con ordinanza del 9 luglio 2009, ha accordato “la tutela cautelare al subfornitore che lamenti l’abuso del proprio stato di dipendenza economica, in considerazione dell’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali da parte del suo unico committente (nel caso di specie si ordina a quest’ultimo di mantenere in vita il rapporto commerciale per i successivi cinque anni sulla base di determinate condizioni contrattuali)”.


In senso contrario è possibile ricordare le ordinanze del Tribunale di Roma, datate 20 maggio


e 12 settembre 2002[147]: “Occorre osservare che costituisce orientamento consolidato della Suprema corte, in tema di inammissibilità della condanna all’adempimento di un’obbligazione avente ad oggetto un facere infungibile, quello secondo il quale il requisito essenziale di ogni pronuncia è la sua coercibilità e quindi la fungibilità della prestazione dovuta senza la quale l’esecuzione in forma specifica, ai sensi dell’articolo 612 c.p.c., è addirittura fisicamente impossibile, nemo ad factum cogi potest; ne discende quindi che, alla luce di tale indirizzo giurisprudenziale ed alla stregua del principio di strumentalità che caratterizza il provvedimento ai sensi dell’articolo 700 c.p.c. rispetto alla proponenda azione di merito, la tutela anticipatoria del diritto invocata dalla reclamante non appare esercitabile in considerazione del fatto che essa non potrebbe essere eseguita e poi, in sede di giudizio di cognizione, trovare conferma ed applicabilità.


Giova inoltre sottolineare che attraverso un provvedimento di tutela atipica quale quello ex articolo 700 c.p.c., non può essere alterata la struttura dei rapporti sostanziali discendenti da un contratto al fine di collocare uno dei contraenti in una posizione privilegiata concretizzantesi nell’inibire, attraverso tale strumento, l’esercizio di poteri attribuiti dal contratto ai soggetti di un rapporto obbligatorio come nella fattispecie, ove si controverte in merito alla validità ed all’esecuzione del sinallagma tra essi intercorso”.


Per approfondimenti:


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(Altalex, 13 novembre 2014. Articolo di Francesca Saccaro)


________________ 


[1] F. CARNELUTTI, Sistema del diritto processuale civile, I, Padova, 1936, p. 181.


[2] G. BORRE’, Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, Napoli, 1966, p.136 (nota 188); v. anche G. MONTELEONE, Recenti sviluppi nella dottrina dell’esecuzione forzata, in Riv. dir. proc., 1982, p. 297 e D. AMADEI, Una misura coercitiva generale per l’esecuzione degli obblighi infungibili.


[3] S. CHIARLONI in Misure coercitive e tutela dei diritti, Milano, 1980, pp. 15 ss. (nota 22) ha rilevato come in Francia, ad esempio, “ai sensi dell’articolo 2069 Code Napoléon, in materia di contrainte par corps ‘l’exercice de la contrainte par corps n’empeche ni ne suspend les poursuites et les exécutions sur les biens’. E la stessa prassi giurisprudenziale delle astreintes si è affermata – contrariamente a quanto sembra ritenere BORRE’ – anche con riferimento ad obblighi in relazione ai quali l’esecuzione forzata per surrogazione è prevista, rivelandosi così erroneo, se inteso in senso assoluto e non come semplicemente rappresentativo di una linea di tendenza, l’asserto secondo il quale alle astreintes si ricorre quando sia impossibile far conseguire il risultato dell’adempimento mediante l’esecuzione forzata (..)”; in aggiunta, si può ricordare, sulle caratteristiche della misura dell’astreinte francese, B. CAPPONI, Astreintes nel processo civile italiano?, in Giust. civ., 1999, II, p.163: “Va sottolineato che il pagamento, anche a seguito di espropriazione forzata, dell’astreinte non fa venir meno l’obbligazione principale (non vi è, in altri termini, un rapporto di alter natività tra condanna principale e condanna accessoria a seguito della liquidazione dell’astreinte): può anzi darsi il caso di un duplice processo esecutivo, l’uno per l’esecuzione forzata dell’obbligazione principale (che può anche essere una condanna al pagamento di somme), l’altro per l’astreinte (concorso tra esecuzione ‘diretta’ ed esecuzione ‘indiretta)”.


[4] G. CHIOVENDA, Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1912 (ristampa inalterata, Napoli, 1965), p. 81.


[5] Vedi, tra gli altri, N. RESTAINO, L’esecuzione coattiva in forma specifica, Roma, 1948.


[6] S. CHIARLONI, Misure coercitive, cit., p. 112.


[7] Così il Progetto Liebman, poi recepito nel d.d.l. delega del 1981 per la riforma del codice di rito, al punto 24.


[8] S. CHIARLONI, Misure coercitive, cit., pp. 117 e 118.


[9] Articolo 18, u.c. della Legge 20 maggio 1970, n. 300: “Nell’ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all’articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all’ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal Giudice che l’ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore”.


[10] Già gli artt. 86, c. 1 del r.d. 29 giugno 1939, n. 1127 sui brevetti per invenzioni industriali e l’ articolo 66, c.2, r.d. 21 giugno 1942, n. 929 in materia di brevetti per marchi d’impresa, una volta accertata la violazione dei diritti di brevetto di invenzione industriale o la contraffazione del marchio, attribuivano al Giudice il potere di fissare “una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constata e per ogni ritardo nella esecuzione dei provvedimenti contenuti nella sentenza”. Inoltre, attualmente, la disposizione secondo cui “Pronunciando l’inibitoria, il Giudice può fissare una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata o per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento” è parimenti contenuta negli artt. 124, c.2 e 131, c.2 del Decreto Legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, “Codice della proprietà industriale, a norma dell’articolo 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273” oltre che nell’articolo 163, c.2 della Legge 22 aprile 1944, n. 633 su “Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”.


[11] Vedi anche G. DE MARZO, Legge comunitaria 2001 e tutela del contraente debole, in Corr. giur., 2002, pp. 681 ss.


[12] Articolo 667 Progetto Carnelutti: “Della pena pecuniaria per l’inadempimento di un obbligo di fare o di non fare: Se l’obbligo consiste nel fare e nel non fare, il creditore può chiedere che il debitore sia condannato a pagargli una pena pecuniaria per ogni giorno di ritardo nell’adempimento a partire dal giorno stabilito dal Giudice. Tale condanna può essere pronunziata con la sentenza che accerta l’obbligo o con altra successiva”.


Articolo 668 Progetto Carnelutti: “Liquidazione della pena pecuniaria: Il creditore, che ha ottenuto la condanna prevista dall’articolo precedente, può chiedere che l’ufficio esecutivo liquidi la pena pecuniaria per il ritardo già verificatori, salvo il suo diritto per il ritardo ulteriore. Ove gli sia proposta tale domanda, l’ufficio convoca il creditore e il debitore giusta l’articolo 498. Se il debitore non comparisce o, comparendo, ammette il ritardo, il capo dell’ufficio esecutivo gli ordina di pagare la somma dovuta per il ritardo già verificatosi. L’ordinanza ha valore di titolo esecutivo e non è soggetta a reclamo. Se il debitore contesta il suo obbligo, il capo dell’ufficio esecutivo rimette le parti avanti al Giudice competente per la decisione della lite”.


[13] Articolo 459 Progetto Carnelutti: “Limiti dell’esecuzione forzata: Di qualunque obbligo può essere richiesta, nelle forme previste dal secondo libro, esecuzione forzata quando non sia vietata dalla legge o materialmente impossibile, purchè l’obbligo sia scaduto e il debitore non vi adempia spontaneamente”.


[14] Al riguardo vedi L. MONTESANO, Le prove, in Incontro sulla riforma del processo civile, Milano, 1979,


pp. 32 e ss: “Unificazione nel c.p.c. della disciplina delle prove, aumento dei poteri istruttori officiosi del magistrato, drastica riduzione dei limiti legali al libero convincimento del Giudice (i giuramenti decisori e suppletori sono aboliti, le prove legali sono ridotte a quelle documentali, ma con deroghe ben più ampie delle attuali), forte rilievo alle dichiarazioni delle parti come fonti d’informazione ai fini probatori, sono le caratteristiche essenziali della proposta di riforma delle prove civili, che si collegano, in coerente disegno, alla progettata ristrutturazione del processo civile di cognizione in chiave di oralità”.


[15] Un sostanziale “scarso interesse dei sapientes” per la specifica materia è lamentato da V. ANDRIOLI, Intorno al disegno di legge delega per il nuovo codice di procedura civile, in Dir. giur., 1983, p. 820: “Il dibattito ha evidenziato lo scarso interesse dei sapientes, se si escludono gli interventi di MONTESANO sull’insufficienza del vigente a. 612 e di VELLANI sull’inefficienza dell’assegno alimentare provvisorio previsto dall’a. 46 c.c., su cui si è intrattenuto il relatore nella replica. Tale essendo lo stato degli atti, non rimane che attendere quel che il Governo e, ove la delega decadrà nè sarà prorogata o rinnovata, il Parlamento statuiranno”.


[16] A. PROTO PISANI, Brevi note in tema di tutela specifica e tutela risarcitoria, in Foro it., V, 1983, pp. 141 ss.


[17] Vedi al riguardo F. P. LUISO, Prime osservazioni sul disegno Mastella, in http://judicium.it/news/ins_02_04_07/PLuisoPrimeOsservazioniMastella.html: “L’articolo 44 del disegno introduce – finalmente ! – anche nel nostro ordinamento l’esecuzione indiretta per gli obblighi di fare infungibili e per gli obblighi di non fare. La scelta è caduta sulla tecnica francese delle astreintes, individuando nell’avente diritto il beneficiario della pena pecuniaria.

L’intentio legis
è dunque da approvare incondizionatamente: non così, invece, la tecnica di determinazione dell’astreinte, in quanto si prevede che la misura esecutiva sia stabilita dal Giudice della cognizione, quanto emette un provvedimento di condanna. Con ciò vengono tagliati fuori dall’esecuzione forzata indiretta tutti i titoli esecutivi diversi dai provvedimenti di condanna: col risultato di costringere la parte, che pure ha un titolo esecutivo, a proporre una domanda in sede dichiarativa al solo fine di ottenere la misura esecutiva; e col risultato di scoraggiare la conciliazione, giudiziale e soprattutto stragiudiziale, della controversia. Una corretta tecnica, invece, dovrebbe prevedere che l’avente diritto, munito di titolo esecutivo e persistendo l’inadempimento, si rivolga al Giudice dell’esecuzione per ottenere da lui la determinazione della somma dovuta dall’obbligato per ogni frazione di tempo di ritardo nell’adempimento dell’obbligo di fare infungibile, ovvero per ogni violazione dell’obbligo di non fare”.


[18] V. anche N. RESTAINO, L’esecuzione, cit., pp. 1 ss.


[19] Gaio, Inst., IV, 48: “Ad pecuniariam aestimationem condemnatio concepta est”.


[20] In base alla Lex Poetelia Papiria del 326 a.C.: “pecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium esse”.


[21] Dig., II, 3, 1: “Omnibus magistrati bus non tamen duumviris, secundum ius potestatis suae concessum est iurisdictionem suam defendere poenali iudicio”.


[22] V. G. BORRE’, Esecuzione forzata, cit., pp. 12 e 13.


[23] A. FRIGNANI, Le penalità di mora e le astreintes nei diritti che si ispirano al modello francese, in Riv. dir. civ., 1981, I, p.521: “Nell’ambito legislativo è utile ricordare che penalità di mora erano espressamente previste nell’articolo 7 del disegno di legge sulla repressione della concorrenza sleale predisposto dalla Commissione Reale il 28 febbraio 1911, come pure nell’articolo 1, comma 3, dell’analogo disegno elaborato nella stessa materia dalla Commissione Reale del 1919 (..)”.


[24] G. BORRE’, L’esecuzione forzata, cit., p. 29 (nota 31): “il risultato, cui l’Autore perviene, è quello di concepire la sanzione compulsoria civile come rivalsa del danno morale provocato dall’inadempimento, danno che cresce col persistere della resistenza dell’obbligato e che è determinato preventivamente in funzione del suo eventuale verificarsi”.


[25] G. BORRE’ in Esecuzione forzata, cit., p. 29, ricorda studiosi quali GIORGI, POLACCO, ARE e SARFATTI.


[26] V. N. RESTAINO, L’esecuzione coattiva, cit., p. 20: è datata 13 dicembre 1946 la sentenza della Corte di Cassazione con cui è stata cassata una sentenza della Corte di Appello di Milano del giugno 1941 che “nel prescrivere alla Ditta Rabarbaro Zucca l’obbligo di aggiungere alle denominazioni ed ai marchi Zucca e Carlo Zucca le parole ‘fu Gerolamo’, nel termine di sessanta giorni dalla notifica della sentenza, aveva ritenuto di comminare, per il caso di inosservanza, una penale di lire cento per ogni giorno di ritardo, senza che peraltro la Ditta istante Carlo Zucca avesse chiesto la comminatoria di una penale qualsiasi”. Dal punto di vista della motivazione, la Suprema Corte ha affermato: “La Corte di merito ha violato il precetto secondo il quale il Giudice non può pronunciare oltre i limiti della domanda, e perciò la denunciata sentenza, essendo in questa parte viziata di ‘ultra petita’, dovrebbe, non fosse che per tale motivo, essere limitatamente alla parte stessa, cassata”.


[27] Il riferimento è ancora una volta al noto principio nemo ad factum praecise cogi potest, fondamentale riferimento nel dibattito dottrinale e recepito poi anche dalla giurisprudenza.


[28] V. F. D. BUSNELLI, Verso una riscoperta delle pene private?, in Resp. civ. e prev., 1984, pp. 26 ss.: proprio tra gli Anni ’70 e ’80 si è assistito a un risveglio di interesse in dottrina per le “pene private”, antico istituto su cui però si sono sviluppati atteggiamenti di diffidenza e addirittura di ostilità. “Per pena (privata) giudiziale si intende solitamente una sanzione (prevista dalla legge, ma) determinata nella sua misura e/o nelle sue modalità dal Giudice (..)”.


[29] Articolo 650 c.p.: “Inosservanza dei provvedimenti dell’autorità: Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 206”.


Articolo 388 c.p.: “Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del Giudice: Chiunque, per sottrarsi all’adempimento degli obblighi civili nascenti da una sentenza di condanna, o dei quali è in corso l’accertamento dinanzi l’autorità giudiziaria, compie, sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti, è punito, qualora non ottemperi alla ingiunzione di eseguire la sentenza, con la reclusione fino a tre anni o con la multa da euro 103 a euro 1.032.

La stessa pena si applica a chi elude l’esecuzione di un provvedimento del Giudice civile, che concerna l’affidamento di minori o di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito.

Chiunque sottrae, sopprime, distrugge, disperde o deteriora una cosa di sua proprietà sottoposta a pignoramento ovvero a sequestro giudiziario o conservativo è punito con la reclusione fino a un anno e con la multa fino a euro 309.

Si applicano la reclusione da due mesi a due anni e la multa da lire sessantamila a lire seicentomila se il fatto è commesso dal proprietario su una cosa affidata alla sua custodia e la reclusione da quattro mesi a tre anni e la multa da euro 51 a euro 516 se il fatto è commesso dal custode al solo scopo di favorire il proprietario della cosa.

Il custode di una cosa sottoposta a pignoramento ovvero a sequestro giudiziario o conservativo che indebitamente rifiuta, omette o ritarda un atto dell’ufficio è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 516.

La pena di cui al quinto comma si applica al debitore o all’amministratore, direttore generale o liquidatore della società debitrice che, invitato dall’ufficiale giudiziario a indicare le cose o i crediti pignorabili, omette di rispondere nel termine di quindici giorni o effettua una falsa dichiarazione.

Il colpevole è punito a querela della persona offesa”.


[30] A. PROTO PISANI, Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, pp. 174 ss.


[31] C. SILVESTRI e M. TARUFFO, voce: “Esecuzione forzata e misure coercitive”, in Enc. giur., XIII, Roma, 1988, p. 8.


[32] V. G. MONTELEONE, Recenti sviluppi nella dottrina dell’esecuzione forzata, in Riv. dir. proc., 1982, p. 284.


[33] V. G. MONTELEONE, Recenti sviluppi, cit., p. 300.


[34] V. A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di condanna, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1978, II, p. 1175.


[35] A. PROTO PISANI, Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, p. 178.


[36] R. GUASTINI, Interpretare e argomentare, Milano, 2011, p. 4.


[37] S. CHIARLONI, Misure coercitive, cit., pp. 177 ss.


[38] G. VASSALLI, La mancata esecuzione di provvedimento del Giudice, Torino, 1938.


[39] G. MONTELEONE, Recenti sviluppi, cit., p. 289.


[40] V. N. TROCKER, Il valore costituzionale del “giusto processo”, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2001, pp. 381 ss.


[41] N. TROCKER, Il nuovo articolo 111 della costituzione e il “giusto processo” in materia civile: profili generali, in Riv. trim. dir. e proc. civ., I, Milano, 2001, p. 385.


[42] M. CAPPELLETTI, Diritto di azione e di difesa e funzione concretizzatrice della giurisprudenza costituzionale. Articolo 24 Costituzione e “due process of law clause”, in Giur. cost., 1961, pp. 1286 ss.


[43] V. Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950.


[44] V. B. CAPPONI, Astreintes nel processo civile italiano?, cit., pp. 157 ss.; V. DENTI, A proposito di esecuzione forzata e di politica del diritto, in Riv. dir. proc., 1983, pp. 130 e ss; M. TARUFFO, L’attuazione esecutiva dei diritti: profili comparatistica, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1998, pp. 142 ss.


[45] Articolo 3, c. 5 bis, Legge 30 luglio 1998, n. 281, modificata dopo il 2002: “In caso di inadempimento degli obblighi stabiliti dal provvedimento reso nel giudizio di cui al comma 1, ovvero previsti dal verbale di conciliazione di cui al comma 4, il Giudice, anche su domanda dell’associazione che ha agito in giudizio, dispone il pagamento di una somma di denaro da 516 euro a 1.032 euro, per ogni giorno di ritardo rapportato alla gravità del fatto. Tale somma e’ versata all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnata con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze al Fondo da istituire nell’ambito di apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero delle attività produttive, per finanziare iniziative a vantaggio dei consumatori”.


[46] Di ausilio alla comprensione del tema relativo alla “infungibilità” di un obbligo v. la decisione delle Sezioni Unite del 5 ottobre 2007 n. 36692, tramite cui il Collegio si è interrogato sull’esatto ambito applicativo dell’articolo 388 c.p.; in riferimento all’utilizzo dell’articolo 614 bis in giurisprudenza, v. Trib. Varese, Sez. I, ord. 16 febbraio 2011.


[47] F. LUISO, Diritto processuale civile, III, Il processo esecutivo, Milano, 2009, p. 235.


[48] V., tra gli altri, A. LOMBARDI, Le modifiche apportate dalla l. n. 69 del 18 giugno 2009 in materia di processo di esecuzione, in Giur. merito, 2009, II, p. 2086.


[49] Tuttavia, in giurisprudenza, è stata avanzata la tesi contraria secondo cui l’articolo 614 bis c.p.c. troverebbe applicazione a qualunque sentenza di condanna. V. Trib. Terni, 6 agosto 2009 (ord.): “Trattasi di una misura coercitiva pecuniaria per rendere effettiva l’esecuzione. L’introduzione dell’articolo 614 bis cpc ha come scopo quello di rendere effettiva e sicura l’esecuzione degli obblighi di fare infungibile o di non fare (ma anche—a parere del giudicante—di tutte le sentenze di condanna o dei provvedimenti cautelari anticipatori della condanna, poiche´ la limitazione agli obblighi di fare o di non fare e` contenuta solo nella rubrica dell’articolo e non anche nel corpo della norma) rispetto ai quali l’esecuzione tradizionale del codice di procedura civile italiana ha spesso avuto effetti deludenti”.


[50] Il riferimento è alle seguenti disposizioni: articolo 163, c.2 della Legge 22 aprile 1941 n. 633, su “Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio”; articolo 8, c.3 del Decreto Legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, su “Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”; artt. 124, comma 2 e 131, comma 2, del Decreto Legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, su “Codice della proprietà industriale, a norma dell’articolo 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273”-


[51] V. anche F. LUISO, Diritto processuale civile, III, Il processo esecutivo, Milano, 2009, p. 236.


[52] Ed infatti, l’articolo 25 lett. a) del disegno di legge delega predisposto dalla Commissione Tarzia, in Riv. dir. proc., II, 1996, pp. 956-957, fra i “principi e criteri direttivi” prevedeva il riconoscimento del “potere del Giudice, che accerta la violazione di un obbligo di fare o di non fare, eccettuati gli obblighi del lavoratore autonomo o subordinato, o di consegna o rilascio non derivante da contratto di locazione ad uso abitativo, di fissare una somma dovuta al creditore, oltre al risarcimento dei danni, per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dell’obbligo inadempiuto, anche con decorrenza successiva alla sentenza ed anche con provvedimento successivo”.


[53] In linea con tale pensiero e quindi per la ammissibilità, V. C. MANDRIOLI e A. CARRATTA, Come cambia il processo civile, Torino, 2009, p. 97. Però E. VULLO, L’attuazione dei provvedimenti cautelari, Torino, 2001, pp. 246-247, ha ricordato come vi siano “autori i quali, all’indomani della riforma del 1990, hanno ritenuto che la discrezionalità riconosciuta al Giudice nello stabilire le forme di esecuzione dei provvedimenti cautelari a contenuto non pecuniario, possa comportare in capo a costui il potere di determinare ‘modalità attuative alternative attraverso forme di esecuzione indiretta imposte alla parte, come pene civili o astreinte‘. Questa proposta interpretativa, tuttavia, è rimasta fortemente minoritaria, senza raccogliere il consenso neanche di quella parte della dottrina che ha sempre manifestato un atteggiamento estremamente favorevole verso forme di esecuzione indiretta, vuoi reputandole già esistenti de iure condito, vuoi auspicandone fortemente l’introduzione nel nostro ordinamento de lege ferenda”.


[54] C. CONSOLO, Una buona “novella” al c.p.c.: la riforma del 2009 (con i suoi artt. 360 bis e 614 bis) va ben al di là della sola dimensione processuale, in Corr. Giur., Milanofiori Assago, 2009, 6, pp. 740 ss.


[55] A. LOMBARDI, Le modifiche apportate dalla l. n. 69 del 18 giugno 2009 in materia di processo di esecuzione, in Giur. merito, 2009, II, p. 2086.


[56] In ciò si riscontra una differenza rispetto al modello francese.


[57] Così era invece previsto all’articolo 25 del disegno di legge delega predisposto dalla Commissione Tarzia e, precedentemente, lo stesso Progetto Carnelutti del 1926, il cui articolo 667, u.c. recitava: “Tale condanna può essere pronunziata con la sentenza, che accerta l’obbligo, o con altra successiva”.


[58] Così E. F. RICCI, Ancora novità (non tutte importanti, non tutte pregevoli) sul processo civile, in Riv. dir. proc., 2008, pp. 1359 ss., spec. p. 1363; nello stesso senso anche C. PUNZI, Novità legislative e ulteriori proposte di riforma in materia di processo civile, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2008, pp. 1189 ss., spec. p. 1203.


[59] V. C. CALVOSA, La sentenza condizionale, Roma, 1948, p. 35, il quale, riportando il pensiero di G. VASSALLI, scrive: “..nel caso, infatti, in cui all’accertamento (oggettivamente) condizionato segua la condanna, il V., dopo aver rilevato che sentenze di condanna per pretese condizionali non posson emettersi se non nei casi espressamente previsti dalla legge e quando il costante uso del foro lo abbia consentito, osserva che talora la condanna è condizionata da quello stesso elemento che costituisce condizione del rapporto giuridico sostanziale, dedotto in giudizio, mentre, altra volta, il rapporto giuridico è puro ed è invece la legge che impone al Giudice di condizionare la condanna o gliene lascia comunque la facoltà. In questa seconda fattispecie la condizionalità avrebbe riferimento direttamente ed esclusivamente alla condanna mentre al contrario l’accertamento sarebbe essenzialmente puro, come era puro il rapporto giuridico oggetto del giudizio. Il ragionamento, prima facie, potrebbe apparire convincente ed anzi la sua suggestività indusse lo stesso Carnelutti a riconoscere che, nell’ipotesi in cui la legge rimette al Giudice, quanto meno per ciò che concerne la determinazione, di subordinare o meno la condanna alla prestazione di una cauzione, si ha la vera condanna condizionale, in quanto la condizionalità dell’obbligo sorge dalla volontà del Giudice e quindi dalla sentenza e non già dalla legge”.


[60] V. C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, I, Torino, 2009, p. 79 (nota 50): “La Cassazione ritiene che il criterio dell’economia dei giudizi consenta questa condanna condizionale, purchè non si richieda poi altra indagine da quella della verificazione dell’evento dedotto a condizione”.


[61] C. CALVOSA, La sentenza condizionale, cit., pp. 88 ss.


[62] V. ROPPO, Il contratto, Milano, 2001, pp. 605 ss.


[63] A. CHIZZINI, Dell’esecuzione forzata degli obblighi di fare o di non fare, in La riforma della giustizia civile, in (a cura di) G. Balena, R. Caponi, A. Chizzini, S. Merchini, La riforma della giustizia civile, Torino, 2009, p. 145.


[64] F. DE STEFANO, Note a prima lettura della riforma del 2009 delle norme sul processo esecutivo ed in particolare dell’articolo 614-bis c.p.c., in Riv. es. forz., 2009, p. 531.


[65] Il C.S.M., nel parere reso il 30 settembre 2008 sulle disposizioni in materia di riforma del codice di procedura civile, contenute nel disegno di legge n. 1441 bis concernente disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e perequazione tributaria, presentato alla Camera dei deputati e approvato in prima lettura il 2 ottobre 2008, aveva osservato che “la previsione secondo la quale il provvedimento non costituisce titolo esecutivo per la riscossione delle somme elide tuttavia gran parte delle potenzialità di accelerata risoluzione delle controversie connesse alla violazione degli obblighi in questione”.


[66] Invece v. articolo 4.174, 2 comma, del Progetto di A. PROTO PISANI (Per un nuovo codice), ove si prevede che “La pena pecuniaria è commisurata all’entità necessaria a indurre l’obbligato all’esecuzione spontanea. Essa, per ogni giorno di violazione, non può essere inferiore a cento euro e superiore a centomila euro”.


[67] Secondo V. CARBONE, nella Relazione sull’amministrazione della Giustizia nell’anno 2009 del Primo Presidente della Corte di Cassazione: “La disciplina introdotta solleva qualche perplessità, per i seguenti aspetti:1. Si prevede che le misure coercitive siano disposte (su istanza di parte) e determinate nel loro


ammontare dal Giudice della cognizione al momento della emanazione del provvedimento di condanna e non dal Giudice dell’esecuzione dopo la notifica del titolo esecutivo e del precetto, come sarebbe stato più opportuno al fine di adeguare meglio l’entità della misura coercitiva al grado e alla qualità dell’inadempimento in atto” e come tipico in Francia. Il sistema che ne deriva appesantisce non poco l’attività del Giudice del merito, il quale valuterà i presupposti per la concessione della misura certamente tenendo conto della decisione da lui stesso emessa.


2. Anziché disporre in via generale che le misure coercitive non possano essere disposte allo scopo di assicurare l’attuazione di obblighi consistenti in prestazioni di lavoro autonomo o subordinato (e ciò a garanzia del valore della libertà personale), si attribuisce al Giudice un incontrollabile potere discrezionale di escludere la misura coercitiva quando ‘ciò sia manifestamente iniquo’.


3. Si elude il problema grave, già postosi e poi risolto in Francia, relativo al se le somme dovute a


titolo di misura coercitiva si sommino o no con quelle dovute a titolo di risarcimento del danno. Sicuramente la domanda di applicazione delle misure coercitive è cumulabile con quella per il risarcimento del danno derivato dalle violazioni già compiute in passato. I problemi riguardano invece i rapporti di cumulo da parte del creditore nel giudizio di merito della domanda di misure coercitive e di risarcimento del danno per equivalente in riferimento alle violazioni future”.


4. Si afferma che il provvedimento di condanna ‘costituisce titolo esecutivo’ per il pagamento delle


somme dovute a titolo di misura coercitiva ‘per ogni violazione o inosservanza’, prima che sia anche solo possibile prevedere se la violazione o la inosservanza vi sarà. Si elude cioè la necessità che il titolo esecutivo offra certezza quanto meno sull’esistenza del fatto costitutivo del credito.


5. Infine, si esclude l’applicabilità della disposizione ‘alle controversie di lavoro subordinato (o


parasubordinato) pubblico e privato’. Non si comprende perché gli obblighi infungibili del datore di lavoro pubblico o privato debbano godere di una simile esenzione: si consideri in senso contrario quanto previsto dal giudizio di ottemperanza e dall’ultimo comma dell’articolo 18 l. 300/70.


L’articolo 614 bis non ha possibilità di operare in caso di inadempimento di un obbligo di rilasciare una


dichiarazione di volontà (tipico è l’inadempimento di un contratto preliminare). In queste ipotesi, infatti, si è alla presenza di una obbligazione fungibile surrogabile tramite un provvedimento ( a struttura cognitiva ma a funzione esecutiva) del Giudice che produce esso stesso gli effetti (giuridici) della dichiarazione di volontà non resa spontaneamente (v. per tutti, l’articolo 2932 c.c.)”.


[68] Cass., Sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533.


[69] V. S. CHIARLONI, Misure coercitive, cit.


[70] V. parere del CSM 30 settembre 2008 sul d.d.l. 1441 bis: “la disposizione non si applica nelle cause di lavoro, con una ingiustificata esclusione…”.


[71] F. CIPRIANI, G. CIVININI, A. PROTO PISANI, Una strategia per la giustizia civile nella quattordicesima legislatura, in Foro it., V, 2001, pp. 81 ss., i quali proponevano l’applicazione anche “al settore del diritto del lavoro con la sola limitazione della sua non applicabilità in caso di condanna a prestare lavoro autonomo o subordinato”; v. anche l’art 4.174 del Progetto elaborato da A. PROTO PISANI (Per un nuovo codice), il cui 3 comma prevede che “la presente disposizione non si applica in ipotesi di obblighi di prestazione di lavoro autonomo o dipendente”.


[72] V. anche G. BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile, III, Bari, 2010, p. 158.


[73] A. LOMBARDI, Le modifiche, cit., p. 2084: “Il settore in cui la questione della coercibilità di provvedimenti di condanna ad un facere è particolarmente dibattuta è quello dell’esecuzione dell’ordine giudiziale di reintegrazione del lavoratore, impartito in via urgente o all’esito del giudizio di merito, con diverse modulazioni e sfumature a seconda che si tratti di dipendente pubblico o privato. Le attuali acquisizioni di dottrina e giurisprudenza vanno nella direzione di ritenere il provvedimento che dispone, con effetti retroattivi, la reintegra del lavoratore complesso e frazionabile, in parte autoesecutivo, in parte suscettibile di esecuzione forzata ed in parte incoercibile. Dalla parziale connotazione autoesecutiva, in particolare, scaturisce l’automatico ripristino delle condizioni economiche, retributive e previdenziali. In assenza di cooperazione, risulta pacificamente coercibile l’ordinanza nella parte relativa alla materiale ricostituzione del rapporto, attraverso atti, consequenziali al provvedimento, non connotati da alcun profilo di discrezionalità (..)”.


[74] V. anche E. MERLIN, Prime note sul sistema delle misure coercitive pecuniarie per l’attuazione degli obblighi infungibili nella L. 69/2009, in Riv. dir. proc., 2009-II, Padova, p. 1548.


[75] A. LOMBARDI, Le modifiche, cit., p. 2088.


[76] C. CONSOLO, Una buona “novella” al c.p.c., cit., p. 741.


[77] C. CONSOLO, Una buona “novella” al c.p.c., cit.


[78] F. DE STEFANO, L’esecuzione indiretta, cit., p. 1184: “L’impugnazione può basarsi sul venir meno del diritto del creditore alla prestazione principale, o sul solo diritto ad agire in executivis per la sanzione privata:possono infatti darsi anche vizi autonomi dell’esecuzione che il creditore abbia intentato sulla base del capo che conteneva la sanzione privata: ed allora il debitore contesterà solo quest’ultima, senza investire anche la condanna principale. In via di fatto, così, ad iniziativa del debitore che contesti la qualificazione operata dal creditore, spetta anche in Italia al Giudice dell’esecuzione, ma quale Giudice dell’opposizione eventualmente dispiegata avverso quest’ultima, la potestà di determinare in concreto l’entità della sanzione privata”.


[79] P. CALAMANDREI, La sentenza come atto di esecuzione forzata, Messina, 1931, p. 9.


[80] P. CALAMANDREI, Opere giuridiche, Napoli, 1983, IX, p. 351.


[81] V. G. CHIOVENDA, Sulla natura della espropriazione forzata, in Riv. dir. proc., 1926, I, pp. 65 e ss.


[82] V. F. TOMMASEO, Provvedimenti d’urgenza a tutela dei diritti implicanti un facere infungibile, in Studium Juris, III, Padova 1997, p. 1280: Ex articolo 1453 c.c. è possibile chiedere la condanna ad adempiere anche in caso di prestazioni infungibili. “Se così non fosse, bisognerebbe giungere alla conclusione che nei contratti a prestazioni corrispettive, in cui resti inadempiuta un’obbligazione infungibile, l’unico rimedio utilizzabile dalla controparte sia ristretto alla domanda di risoluzione del contratto e al risarcimento dei danni, conclusione che è certo contraria alla logica stessa che ispira la disciplina dell’inadempimento dei contratti a prestazioni corrispettive”. Si può anche ricordare l’articolo 1387 c.c. “nell’ambito della disciplina delle obbligazioni alternative e che non subordina la condanna alternativa all’eseguibilità coattiva delle prestazioni oggetto dell’obbligazione”.


[83] V. S. CHIARLONI, Misure coercitive e tutela dei diritti, Milano, 1980.


[84] G. MONTELEONE, Condanna civile e titoli esecutivi, in Riv. dir. proc., 1990, p.1083: “Invero, è assai arduo porre sullo stesso piano da un lato l’esecuzione forzata processuale, che si svolge nelle forme di legge indipendentemente o contro la volontà dell’obbligato ancora inadempiente per giungere infine alla soddisfazione del diritto leso, e dallo altro lato un eterogeneo sistema sanzionatorio volto ad indurre in via preventiva o successiva l’obbligato ad adempiere. Tutti avvertono che si tratta di istituti e sistemi completamente diversi sia logicamente che giuridicamente, pur se accomunati dal generico fine del rispetto della legge e dei diritti, che costituisce la ordinaria tendenza di ogni ordinamento giuridico in quanto tale. Ed allora, l’equiparazione dell’esecuzione forzata processuale con qualunque altra sanzione atta ad assicurare indirettamente l’adempimento di qualsiasi obbligo, rispondente allo scopo di estendere l’ambito della condanna civile, si rivela una operazione razionalmente insostenibile perchè infine confonde in una medesima categoria due specie di sentenze tra loro del tutto diverse: quelle aventi efficacia di titolo esecutivo, e quelle che tali non sono. Per questa strada si giunge, quindi, non già ad una migliore definizione della sentenza di condanna, e neppure ad un allargamento del suo ambito, ma ad una indebita confusione di concetti, il cui finale esito consiste non nel potenziarla, ma nel sopprimerla rendendone impossibile la distinzione da ogni altra”.


[85] V. C. MANDRIOLI, Sulla correlazione necessaria tra condanna ed eseguibilità forzata, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1976, pp. 1342 e ss. e G. MONTELEONE, Condanna civile, in Riv. dir. proc., cit., p. 1083.


[86] V. A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di condanna, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1978, p. 1146.


[87] V. DENTI, «Flashes» su accertamento e condanna, in Riv. dir. proc., 1985, pp. 255 e ss; G. IMPAGNATIELLO, La provvisoria esecutorietà, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1992, pp. 80 e ss.


[88] V. C. MANDRIOLI, L’esecuzione forzata in forma specifica, Milano, 1953.


[89] In proposito è possibile anche ricordare la sent. Cass. Civ., Sez. un., 13.10.1997, n. 9957, secondo cui: “E’ ammissibile la pronuncia di condanna resa dal Giudice nella ipotesi di infungibilità (e, dunque, di incoercibilità) del facere dell’obbligato, in quanto la relativa decisione non solo è potenzialmente idonea a produrre i suoi effetti tipici in conseguenza della (eventuale) esecuzione volontaria da parte del debitore, ma è altresì funzionale alla produzione di ulteriori conseguenze giuridiche (derivanti dall’inosservanza dell’ordine in essa contenuto) che il titolare del rapporto è autorizzato ad invocare in suo favore, prima fra tutte la possibile, successiva domanda di risarcimento del danno, rispetto alla quale la condanna ad un facere infungibile assume valenza sostanziale di sentenza di accertamento”; la Corte di Cassazione, già con la sentenza del 17 luglio 1992, n. 8721, si era espressa a favore della ammissibilità della condanna per un fare infungibile.


[90] N. RESTAINO, L’esecuzione coattiva in forma specifica, Roma, 1948, p. 71.


[91] A. PROTO PISANI, voce: “Sentenza di condanna”, in Dig. disc. priv., sez. civ., cit., p. 301.


[92] N. RESTAINO, L’esecuzione coattiva, cit., p. 71: “..in difetto di mezzi esecutivi di coazione psicologica operanti nella sfera patrimoniale dell’obbligato, l’unica pressione sulla volontà del debitore potrebbe, forse, essere esercitata dalla sentenza che lo condanni ad adempiere anche nei casi in cui, essendo il “facere” insuscettibile di coazione o di attuazione da parte di soggetto diverso, rimanga annullata la facoltà alternativa del creditore, che, non avendo la scelta di costringere il debitore all’adempimento, dovrebbe, per reintegrare nel suo patrimonio l’equilibrio turbato dalla violazione contrattuale, percorrere l’unica via del risarcimento dei danni”.


[93] A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di condanna, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1978, pp. 1108-1109: “..la distinzione fungibilità – infungibilità si rivela in pratica molto meno chiara di quanto non appaia in teoria (e non solo perché – come è stato non senza ragione notato – il limite della incoercibilità degli obblighi di fare infungibili ha svolto di fatto in gran parte una funzione di privilegio dei possidens e di discriminazione dei non abbienti; ma anche) perché spesso accade di essere alla presenza di obblighi di fare che pur potendo essere considerati (materialmente o giuridicamente) fungibili, comportano particolari difficoltà o complessità qualitative o quantitative nella loro esecuzione da parte di un terzo (si pensi all’obbligo dell’imprenditore di effettuare le opere necessarie per la tutela della salute fisica dei lavoratori, o agli obblighi di manutenzione del locatore che attengono ai servizi comuni dell’edificio); l’esperienza seguita alla applicazione dell’articolo 18 l. 20 maggio 1970, n. 300, ha inoltre posto in evidenza come esistano taluni obblighi di fare (quale quello del datore di lavoro di reintegrare nel posto di lavoro il lavoratore illegittimamente licenziato) i quali non consistono in una singola prestazione omogenea, ma in un complesso di prestazioni, tra loro eterogenee, alcune delle quali sono da qualificare come fungibili (..), mentre altre ‘si riducono ad un facere personale infungibile’; in tutte queste ipotesi l’attuazione della condanna può essere di fatto garantita solo attraverso il ricorso alla tecnica delle misure coercitive. (..)”.


[94] V. A. PROTO PISANI, L’effettività dei mezzi di tutela giurisdizionale con particolare riferimento all’attuazione della sentenza di condanna, in Riv. dir. proc., 1975, pp. 620 e ss.


[95] C. MANDRIOLI, Sulla correlazione necessaria, in Riv. trim. dir. e proc. civ., cit., p. 1343.


[96] In tal ultimo senso v. F. LANCELLOTTI, voce: “Sentenza civile”, in Noviss. Dig. it., XIV, 1969, p. 1143 e ss.


[97] C. MANDRIOLI, Sulla correlazione necessaria, in Riv. trim. dir. e proc. civ., cit., p.1344.


[98] Un esempio in tal senso è dato dall’articolo 18 della Legge 20 maggio 1970, n. 300. Ivi “il superamento emerge solo come riflesso dell’esplicita attribuzione della qualità di titolo esecutivo e senza la predisposizione di precise (e nuove) forme di tutela esecutiva: ciò che impegna l’interprete nel delicatissimo compito di cercarne la disciplina implicita nella suddetta enunciazione”.


[99] C. MANDRIOLI, Sulla correlazione necessaria, in Riv. trim. dir. e proc. civ., cit., p.1349: “Secondo l’autore in discorso, infatti, il suddetto superamento, nel nostro ordinamento, sarebbe fondato su due ordini di ragioni: sul rilievo che l’articolo 24 cost. impone all’interprete di tendere per quanto più possibile all’attuazione del principio chiovendiano del ‘tutto quello e proprio quello’; sul rilievo che l’articolo 2818 c.c., parlando esplicitamente di sentenza di condanna, dopo essersi riferito al pagamento di una somma, richiama riassuntivamente e comprensivamente l’adempimento di ogni altra obbligazione”.


[100] C. MANDRIOLI, Sulla correlazione necessaria, in Riv. trim. dir. e proc. civ., cit., p. 1351.


[101] A. PROTO PISANI, Appunti, in Riv. trim. dir. e proc. civ., cit., p. 1161: “Il numero delle ipotesi in cui il nostro ordinamento ammette che la tutela di condanna possa assolvere una funzione preventiva e non solo repressiva è tale da consentire, senza alcuno sforzo interpretativo, di ritenere che la tutela c.d. inibitoria diretta alla cessazione di un comportamento illegittimo e all’adempimento (futuro) di obblighi di non fare o anche di fare a carattere continuativo, ben lungi dall’essere limitata ai casi espressamente previsti dalla legge, abbia invece carattere generale”.


[102] A. PROTO PISANI, Appunti, in Riv. trim. dir. e proc. civ., cit., p. 1162: “Sul piano sistematico le conseguenze consistono nell’imporre di considerare, allorchè si studia la condanna, non solo il suo collegamento con l’esecuzione forzata, ma anche con quegli istituti che vanno sotto il nome di misure coercitive e sono diretti a provocare l’adempimento spontaneo dell’obbligato attraverso la ‘minaccia di una lesione del suo interesse più grave di quella che gli cagiona l’adempimento’. Come infatti si è cercato di porre più volte in rilievo nei paragrafi precedenti, la tecnica dell’esecuzione forzata (anche così come disciplinata dal terzo libro del c.p.c.) è in molte ipotesi inidonea ad assicurare l’attuazione della sentenza di condanna, (pag. 1163) cioè ad assicurare al titolare del diritto di poter conseguire attraverso il processo quelle stesse utilità pratiche garantitegli dalla legge sostanziale”.


[103] A. PROTO PISANI, Appunti, in Riv. trim. dir. e proc. civ., cit., pp. 1163-1164: “..la rilevanza di diritto positivo che, a seguito della costituzione del 1948, hanno assunto gli aspetti non patrimoniali implicati in molte situazioni di vantaggio (talune delle quali elevate anche a rango costituzionale) esclude che l’operatore giuridico, alla presenza di fenomeni del tipo ora in esame, possa accontentarsi del rilievo – espressione di una ideologia economistica ben datata storicamente – secondo cui ove l’obbligo non sia suscettibile di esecuzione forzata in forma specifica (..), esso sarebbe tutelato nella sola forma dell’equivalente monetario”.


[104] A. PROTO PISANI, Appunti, in Riv. trim. dir. e proc. civ., cit., p. 1110: “..una condanna ad adempiere l’obbligo originario di non fare (e non già l’obbligo derivato sorto dalla violazione dell’obbligazione negativa originaria) avrà sempre necessariamente la caratteristica di condanna in futuro e la attuazione dell’obbligo originario di non fare potrà sempre essere ottenuto solo attraverso la tecnica delle misure coercitive e mai attraverso la tecnica dell’esecuzione forzata (che, presupponendo una violazione già effettuata, nell’ipotesi di violazione degli obblighi di non fare, potrà avere ad oggetto solo l’obbligo derivato sorto dalla violazione della obbligazione negativa)”.


[105] G. MONTELEONE, Recenti sviluppi, in Riv. dir. proc., cit., p. 282: “Esemplare, inoltre, perché il richiamato studio mostra in quali equivoci possono cadere anche i più sottili e fervidi ingegni, allorquando vuolsi affrontare e risolvere un problema pratico e scientifico di grande rilievo e di generale portata avendo di mira interessi, esigenze e fini del tutto particolari”.


[106] V. A. PROTO PISANI, L’effettività dei mezzi di tutela giurisdizionale con particolare riferimento all’attuazione della sentenza di condanna, in Riv. dir. proc., cit.; nel senso di superare la correlazione tra condanna ed esecuzione, v. Cass., 17 luglio 1992, n. 8721.


[107] G. MONTELEONE, Recenti sviluppi, in Riv. dir. proc., cit., p. 283.


[108] G. MONTELEONE, Recenti sviluppi, in Riv. dir. proc., cit., p. 284.


[109] G. CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1944, p. 176.


[110] V. Pret. Roma 23 novembre 1970, Foro it., I, p. 1104; diversamente, v. Trib. Milano 27 gennaio 1999, Giur. it., 2000, 945: “E’ ammissibile con provvedimento d’urgenza ordinare al creditore munito di titolo esecutivo, che si sia obbligato a non compiere atti esecutivi, contro costituzione di garanzia, di liberare dal vincolo del pignoramento i beni del debitore successivamente pignorati, in violazione del factum de non exsequendo”.


[111] V. Trib. Ascoli Piceno 26 luglio 1995, Foro it., 1996, I, p. 299.


[112] Trib. Palermo 28 luglio 1995, Foro it., 1996, I, p. 2252: “E’ inammissibile un provvedimento d’urgenza che sia diretto a cautelare un obbligo per sua natura incoercibile, allorchè il bene destinato a soddisfare l’interesse del creditore possa essere prodotto unicamente dall’attività del debitore, rimanendo in questo caso come unica tutela possibile la domanda di risarcimento del danno subito (..)”. Di conseguenza, non potrebbe proporsi istanza cautelare urgente se la tutela anticipatoria non risultasse suscettibile di conferma in sede di cognizione piena.


[113] Trib. Roma 17 gennaio 1996, Foro it., 1996, I, p. 2251: “E’ ammissibile un provvedimento giudiziale di condanna all’adempimento di un’obbligazione avente ad oggetto un fare infungibile, reso con sentenza o anche col relativo provvedimento cautelare urgente”; Trib. Milano 2 ottobre 1997, Foro it., 1998, I, p. 241: “E’ ammissibile la domanda ex articolo 700 c.p.c. anche ove sussista la pattuizione contrattuale di una clausola penale. Poichè l’irreparabilità del danno prescinde dalla ipotetica risarcibilità dello stesso, è ammissibile la domanda cautelare d’urgenza per la tutela di un diritto di credito. L’infungibilità del facere oggetto dell’ordine del Giudice non osta alla concessione del provvedimento cautelare d’urgenza”.


[114] V. Trib. Torino, ord. 16 ottobre 2009, Il Foro padano, 2010, in cui la nota di C. BRUZZONE espressamente ricorda la complessità della questione, diversamente affrontata in dottrina e in giurisprudenza, connesso alla definizione positiva di “infungibilità” e all’attuazione degli obblighi di fare infungibile. Egli ribadisce anche come nel 2009 sia stata introdotta “nel nostro ordinamento una figura generale di cd. penalità di mora che in ultima analisi tende a trasformare un obbligo da infungibile a fungibile, a modificare la prestazione oggetto del diritto fatto valere nella sua essenza ontologica fino a renderlo generico e fungibile nella sua massima espressione quale è il denaro e quindi a renderlo di fatto sempre attuabile: il creditore vedrà così soddisfatto, sia pure in via indiretta, il proprio diritto”.


[115] Gli Autori cui si fa riferimento sono G. ARIETA, E. DINI – G. MAMMONE, A. PROTO PISANI e F. TOMMASEO.


[116] V. Trib. Roma 17 gennaio 1996, Foro it., cit.


[117] L. QUERZOLA, La tutela anticipatoria fra procedimento cautelare e giudizio di merito, Bologna, 2006, p. 195.


[118] Trib. Palermo, ord. 28 luglio 1995, Foro it., cit.


[119] S. RECCHIONI, L’oggetto del processo cautelare civile nell’epoca dell’omologazione europea.


[120] L. QUERZOLA, La tutela anticipatoria, cit., p. 9.


[121] Propende per la previsione dell’eventualità del giudizio di merito per i soli provvedimenti cautelari anticipatori C. CONSOLO, Il nuovo processo cautelare. Problemi e casi, Torino, 1998, p. 24.


[122] V. Cass., Sez. I civ., ord. 24 luglio 2007, n. 16328, in Riv. dir. proc., 2008-I, pp. 849 ss., con nota contraria di U. COREA.


[123] Sul rapporto tra cautela e merito, v. S. RECCHIONI, Strumentalità cautelare e cumulo oggettivo di domande nel processo “di merito”, in Corr. giur., 2002, pp. 638 ss.


[124] Cass., 24 ottobre 1984, n. 5412, in Giust. civ. Mass., 1984, p. 1764.


[125] Cass., 30 settembre 1989, n. 3947, in Foro it., 1991, I, p. 600.


[126] Cass., Sez. civ., ord. 24 luglio 2007, n. 16328, in Riv. dir. proc., 2008-I, p. 849: “La disciplina del procedimento cautelare uniforme introdotta dalla legge n. 353 del 1990 e, nel suo ambito, quella del Giudice competente ad assumere i provvedimenti cautelari, rendono infatti evidente non solo il rapporto di strumentalità tra misura cautelare e procedimento di merito, ma altresì che il legislatore ha considerato la tutela cautelare richiesta anche prima dell’instaurazione di quest’ultimo come forma anticipata di quella che eventualmente verrà fatta valere nell’ambito del giudizio medesimo, configurando il provvedimento che accolga la richiesta (con le eccezioni relative alle specifiche ipotesi di cui all’articolo 669 ter c.p.c., comma 2 e 3) come se fosse un atto emesso dal Giudice del merito”.


[127] Corte cost., 7 novembre 1997, n. 326.


[128] V. A. CARRATTA, Profili sistematici della tutela anticipatoria, Torino, 1997, p. 236.


[129] Articolo 824 bis c.p.c.: “Efficacia del lodo: Salvo quanto disposto dall’articolo 825, il lodo ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria”.


[130] Gli Autori cui si fa riferimento sono G. ARIETA, E. DINI – G. MAMMONE, A. PROTO PISANI e F. TOMMASEO. Quest’ultimo, ne I provvedimenti d’urgenza: struttura e limiti della tutela anticipatoria, Padova, 1983, p. 358, ritiene che l’ammissibilità della tutela d’urgenza a un facere infungibile discenda dalla soluzione della natura della sentenza, se di condanna o di mero accertamento; egli peraltro ritiene ascrivibile la fattispecie in questione al provvedimento di condanna.


[131] Trib. Palermo, ord. caut. 8 gennaio 1999, in Dir. fam. pers.,1999, p. 228.


[132] Trib. Catania-Bronte, ord. 9 luglio 2009, in Foro it., 2009, p. 2813: “E’ ammissibile un provvedimento giudiziale di condanna all’adempimento di un’obbligazione avente ad oggetto un fare infungibile reso con provvedimento cautelare urgente (nella specie, è stato ordinato ad un’impresa di ripristinare l’entità delle commesse richieste al subfornitore e di mantenere alle stesse condizioni il rapporto commerciale per alcuni anni)”.


[133] Cass., 16 settembre 1981, n. 5137; la giurisprudenza più recente, comunque, seguendo soluzioni positive previste a tutela della posizione dei lavoratori e connesse alla normativa inerente al rapporto di lavoro, ha affermato la possibilità di una condanna a un facere infungibile, in quanto il relativo ordine opera nell’ambito del “possibile giuridico”, prevedendo sia “ammissibile la pronuncia di condanna resa dal Giudice nella ipotesi di infungibilità (e, dunque, di incoercibilità) del ‘facere’ dell’obbligato, in quanto la relativa decisione non solo è potenzialmente idonea a produrre i suoi effetti tipici in conseguenza della (eventuale) esecuzione volontaria da parte del debitore, ma è altresì funzionale alla produzione di ulteriori conseguenze giuridiche…che il titolare del rapporto è autorizzato ad invocare in suo favore, prima fra tutte la possibile successiva domanda di risarcimento del danno, rispetto alla quale la condanna ad un ‘facere’ infungibile assume valenza sostanziale di sentenza di accertamento”, per cui v. Cass. 13 ottobre 1997, n. 9957 e Cass. 17 luglio 1992, n. 8721.


[134] Trib. Verona, ord. 9 marzo 2010, in Giur. merito, 2010, p. 1857.


[135] V. Trib. Cagliari, ord. 19 ottobre 2009.


[136] “La disposizione, introdotta dalla l. 18 giugno 2009, n. 69 (disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), impedisce che possa darsi ulteriore seguito all’orientamento risalente e diffuso, per quanto non uniforme, secondo cui, da un lato, non sarebbe mai ammissibile la condanna all’adempimento di un’obbligazione avente ad oggetto un facere infungibile, in quanto non suscettibile di attuazione forzata, e, dall’altro, non potrebbe mai ipotizzarsi, di fronte all’inadempienza del debitore, per le stesse ragioni, una tutela sostitutiva ed anticipata attraverso la misura cautelare atipica prevista dall’articolo 700 c.p.c.”.


In tal senso V. anche Trib. Terni, ord. 4 agosto 2009: “La misura coercitiva pecuniaria ex articolo 614 bis c.p.c., il cui scopo è di rendere effettiva e sicura l’attuazione non solo degli obblighi di fare infungibile o di non fare, ma anche degli obblighi di fare fungibile riconosciuti da sentenze di condanna o da provvedimenti anticipatori della condanna (nella specie, denuncia per danno temuto), si applica trascorso un termine concesso ragionevolmente al debitore per adempiere l’obbligo e decorrente dalla notifica della sentenza o del provvedimento”.


[137] V. Trib. Roma, ord. 17 gennaio 1996, in Foro it., 1996, I, p. 2255: “Non può infatti condividersi la contraria opinione secondo cui al provvedimento giudiziale non è mai riconoscibile natura di autonoma fonte di obblighi, eventualmente sanzionati in modo diverso, rispetto all’originario titolo negoziale.


E’ infatti ammissibile che l’inadempimento, sorto come colposo, possa tramutarsi in omissione dolosa una volta che un provvedimento di condanna abbia eliminato ogni dubbio soggettivo in proposito”.


[138] F. TOMMASEO, Provvedimenti d’urgenza, in Studium Juris, cit., p. 1277.


[139] Istruttivo in tale direzione è il confronto fra le ordinanze del Trib. Roma, datata 17 gennaio 1996 e del Trib. Palermo, datata 28 luglio 1995, in Foro it., 1996, p. I, II, pp. 2251 e ss.: nel primo caso si afferma l’utilità di un provvedimento giudiziale di condanna per la tutela di un diritto non attuabile coattivamente, sia tramite sentenza che con il relativo provvedimento cautelare urgente. Il secondo, invece, è risolto in senso negativo a causa della pretesa insussistenza di un interesse ad avvalersi della tutela cautelare.


[140] F. TOMMASEO, Provvedimenti d’urgenza, in Studium Juris, cit., p. 1279.


[141] Trib. Verona, Sez. IV, 18 marzo 2009, in Giur. merito, 2010, 1, p. 132.


[142] Articolo 2103 c.c.: “Mansioni del lavoratore: Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad una altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive.


Ogni patto contrario è nullo”.


[143] Articolo 28 della Legge 20 maggio 1970, n. 300: “Repressione della condotta antisindacale: Qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il pretore (1) del luogo ove è posto in essere il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione di cui al presente comma, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.


L’efficacia esecutiva del decreto non può essere revocata fino alla sentenza con cui il pretore (1) in funzione di Giudice del lavoro definisce il giudizio instaurato a norma del comma successivo.


Contro il decreto che decide sul ricorso è ammessa, entro 15 giorni dalla comunicazione del decreto alle parti opposizione davanti al pretore (1) in funzione di Giudice del lavoro che decide con sentenza immediatamente esecutiva. Si osservano le disposizioni degli articoli 413 e seguenti del codice di procedura civile.


Il datore di lavoro che non ottempera al decreto, di cui al primo comma, o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione è punito ai sensi dell’articolo 650 del codice penale.


L’autorità giudiziaria ordina la pubblicazione della sentenza penale di condanna nei modi stabiliti dall’articolo 36 del codice penale.


[Se il comportamento di cui al primo comma è posto in essere da una amministrazione statale o da un altro ente pubblico non economico, l’azione è proposta con ricorso davanti al pretore (1) competente per territorio.]


[Qualora il comportamento antisindacale sia lesivo anche di situazioni soggettive inerenti al rapporto di impiego, le organizzazioni sindacali di cui al primo comma, ove intendano ottenere anche la rimozione dei provvedimenti lesivi delle predette situazioni, propongono il ricorso davanti al tribunale amministrativo regionale competente per territorio, che provvede in via di urgenza con le modalità di cui al primo comma. Contro il decreto che decide sul ricorso è ammessa, entro quindici giorni dalla comunicazione del decreto alle parti, opposizione davanti allo stesso tribunale, che decide con sentenza immediatamente esecutiva.]”


[144] R. LONERO, Nemo ad factum cogi potest.


[145] D. MINUSSI, Abuso di dipendenza economica nel contratto di subfornitura: “La nozione di dipendenza economica è ricavata con riferimento ai rapporti di forza tra le imprese, quando una di esse è in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità, per la parte che abbia subìto l’abuso, di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. La condotta abusiva, per propria natura non rigidamente tipizzabile, può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nell’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto”.


[146] Trib. Catania, 5 gennaio 2004, sul provvedimento ex articolo 700 c.p.c. in materia di abuso di dipendenza economica: “In primo luogo risulta rispettata la funzione residuale attribuita ai provvedimenti d’urgenza dall’articolo 700 C.p.C., attesa la mancata previsione di uno strumento cautelare specifico e, per altro verso, considerando come il ricorso alla procedura prevista dall’articolo 700 c.p.c. deve comunque ritenersi ammissibile, – in mancanza di un espressa limitazione normativa e non potendosi tale limite desumere dal sistema, – anche quando il diritto rispetto al quale si denunzia l’esistenza di un pregiudizio imminente ed irreparabile debba o possa essere fatto valere mediante l’esercizio di un’azione avente natura costitutiva, com’e’ quella di merito prospettata nel caso in esame (cfr. Cass. 475/56)”.


[147] Trib. Roma, ord. 12 settembre 2002, in Foro it., 2002, I, pp. 3213 e ss.

 

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