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L’8 ottobre 2016, durante un attacco aereo condotto dall’aviazione dell’Arabia saudita contro il villaggio yemenita di Deir-Al-Hajari, quasi tutta la famiglia Husni fu sterminata: sei morti e un unico sopravvissuto. Tra le macerie della casa distrutta furono trovati resti di bombe che portavano il marchio della Rwm Italia, la società con stabilimenti a Ghedi in Lombardia e a Domusnovas in Sardegna controllata dal colosso tedesco degli armamenti Rheinmetall. Le foto del marchio Rwm Italia impresso sui frammenti degli ordigni recuperati tra le rovine a Deir-Al-Hajari fecero il giro del mondo.

Ora i parenti delle vittime e l’unico membro della famiglia Husni scampato alla morte hanno presentato una denuncia contro l’Italia alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ricorrono contro l’archiviazione, da parte del giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma, del procedimento giudiziario avviato dalla procura della Repubblica nel 2018 in seguito a un esposto che metteva sotto accusa sia i manager Rwm Italia sia i funzionari dell’Autorità nazionale per l’esportazione di armamenti (Uama). L’esposto era firmato da Rete pace e disarmo, dal Centro europeo per i diritti costituzionali e umani e dalla ong yemenita Mwatana for human rights.

«Vendendo le armi ai Sauditi – sostenevano le tre associazioni promotrici dell’esposto – i vertici Rwm Italia e Uama si sono resi responsabili della violazione del trattato Onu sul commercio delle armi ratificato nel 2013 dal parlamento italiano, che proibisce agli stati firmatari la vendita di armi se si è a conoscenza del fatto che esse verrebbero utilizzate contro obiettivi civili o per commettere crimini di guerra».

È con una sentenza del marzo dello scorso anno che il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma ha invece dichiarato Rwm Italia e Uama non perseguibili. Impossibile infatti, secondo il giudice, dimostrare che l’azienda abbia «tratto profitto dall’abuso di potere»: i funzionari Uama hanno «rispettato le procedure formali del processo di autorizzazione all’esportazione di armi» e rispettata la procedura, le conseguenze (i morti sotto le bombe) sono giuridicamente irrilevanti.

In opposizione alla decisione del gip romano arriva ora il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo da parte dei parenti della strage del 2016 nel villaggio di Deir-Al-Hajari. A sostenere l’azione giudiziaria sono, ancora una volta, Rete pace e disarmo, Centro europeo per i diritti costituzionali e umani e Mwatana for Human Rights. «Il fatto che non sia stata aperta un’indagine su un caso di omicidio colposo, mentre sono stati commessi migliaia di crimini di guerra contro la popolazione dello Yemen, è scioccante», dice Radhya Al-Mutawakel, presidente e fondatrice di Mwatana for Human Rights. E aggiunge: «In assenza di giustizia, che valore hanno norme giuridiche come il diritto penale internazionale e il diritto umanitario internazionale? Quando le norme nazionali e internazionali sul commercio di armi non vengono applicate, a cosa serve averle se i trasgressori non sono chiamati a risponderne?».

«I paesi europei Italia compresa – spiegano le tre organizzazioni che sostengono il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo – alimentano il conflitto in corso in Yemen fornendo bombe, missili e jet da combattimento. Rifiutandosi di indagare sulle responsabilità delle autorità e delle aziende che rilasciano le licenze e i cui armamenti sono collegati a potenziali crimini di guerra sotto la sua giurisdizione, l’Italia non soltanto sta legittimando queste esportazioni di armi e limitando l’accesso alla giustizia per le vittime, ma sta anche violando i suoi stessi obblighi di proteggere il diritto alla vita sancito dalla Convenzione europea dei diritti umani. Una scelta pericolosa e insensata».

 

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