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In caso di licenziamento, il datore di lavoro ha l’obbligo di prospettare al licenziando un’opportunità di reimpiego in mansioni equivalenti o anche inferiori; l’impossibilità di repêchage deve risultare da circostanze oggettive provate dal datore di lavoro.

È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, Sezione lavoro, con la sentenza 13 novembre  2023, n. 31451 (testo in calce).

Il fatto

In seguito al licenziamento intimato, un lavoratore aveva azionato nei confronti della società datrice di lavoro, un procedimento ex lege n. 92 del 2012.

Il ricorso era stato accolto dal giudice di primo grado, nonché dalla Corte territoriale, secondo la quale, sebbene la soppressione del posto di lavoro cui era adibito il dipendente era stata dovuta ad effettive scelte datoriali, la società non aveva dato prova di aver adempiuto all’obbligo di repéchage, per cui era stata condannata al pagamento di una indennità risarcitoria in favore del lavoratore.

Quest’ultimo ha proposto ricorso per cassazione sulla scorta di tre motivi, e la società ha resistito con un ricorso incidentale.


La decisione

La Cassazione ha respinto il controricorso della società, ritenendo che i motivi proposti, scrutinabili congiuntamente per connessione, non potessero trovare accoglimento.

Secondo una consolidata giurisprudenza di legittimità, spetta al datore di lavoro dimostrare l’impossibilità di repéchage del dipendente licenziato, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili; essendo una prova negativa, il datore di lavoro ha sostanzialmente l’onere di fornire la prova di fatti e circostanze idonei a convincere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nell’azienda.

Orbene, la persistente impossibilità della prestazione lavorativa può giustificare il licenziamento oggettivo ex art. 3 l. n. 604 del 1966 sempre che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni non solo equivalenti, ma anche inferiori; detto principio, riferito originariamente al solo caso di sopravvenuta infermità permanente, è stato poi esteso anche alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovute a soppressione del posto di lavoro per riorganizzazione aziendale, considerando le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore.

Pertanto, prima di intimare il licenziamento, il datore di lavoro deve cercare possibili soluzioni alternative e, se esse comportino l’assegnazione a mansioni inferiori, deve prospettare al prestatore il demansionamento; solo qualora la soluzione alternativa proposta non sia accettata dal lavoratore, potrà recedere dal rapporto di lavoro.

Nel caso di specie, la mancata deduzione da parte della datrice di lavoro in merito alle ulteriori posizioni di altri lavoratori eventualmente assunti in livelli di inquadramento inferiori al sesto, ha precluso qualsiasi valutazione circa la compatibilità con la professionalità del dipendente licenziato, avendo la difesa della datrice di lavoro proposto la comparazione solo con i lavoratori assunti nel 6° e 7° livello. Dunque, ammesso che l’obbligo di repéchage possa incontrare un limite nel fatto che il licenziando non abbia la professionalità richiesta per occupare un altro posto di lavoro, ad avviso della Cassazione ciò deve risultare da circostanze oggettive fornite dal datore di lavoro. In caso contrario, si lascerebbe l’adempimento dell’obbligo suddetto alla sola volontà del datore di lavoro, che potrebbe decidere sulla scorta di valutazioni che non potrebbero essere sindacabili nella loro effettività e veridicità.

Pertanto, il datore di lavoro dovrebbe indicare quali sono le mansioni eventualmente affidate ai neoassunti, anche impiegati in mansioni inferiori, onde consentire al giudice del merito di verificare, sulla base di circostanze precise e riscontrabili, se le capacità e le esperienze professionali possedute dal licenziato fossero davvero tali da precludergli di essere impiegato in mansioni, anche inferiori, cui sono stati invece destinati i nuovi assunti.

Tutto ciò in coerenza con il principio del primario interesse alla conservazione del posto di lavoro rispetto alla tutela della professionalità, a meno che, una volta prospettata al lavoratore l’eventualità di essere adibito a compiti meno qualificanti, questi decida di non accettare la soluzione alternativa.

Sulla scorta delle suesposte argomentazioni, la Cassazione ha confermato l’illegittimità del licenziamento, accolto il ricorso principale e rigettato quello incidentale.

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