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Una cambiale si aggira per via XX Settembre: è legata a 300 miliardi, euro più euro meno, che al momento non sono conteggiati nel bilancio dello Stato. È una cifra mostruosa ereditata dagli anni del Covid. È il film dell’orrore che il ministero dell’Economia si augura non vada mai in onda.
Tutto ha inizio nel 2020, nei giorni drammatici della pandemia, quando l’Italia chiude, il Paese si ferma e il sistema rischia di collassare. L’imperativo è impedire il crac. Il governo giallorosso di Giuseppe Conte vara misure eccezionali con un provvedimento di sostegno che spazia dalle grandi imprese alle piccole partite Iva. È il decreto Liquidità: la garanzia pubblica su trecento miliardi di prestiti alle imprese che sono lo scudo con cui si intendono proteggere le aziende e i loro lavoratori.

Viene chiesto alle banche di intervenire, fornendo il contante necessario all’operazione di salvataggio. E lo Stato fornisce la copertura attraverso le sue strutture: da una parte il Mediocredito Centrale, emanazione di Invitalia; dall’altra Sace, il gruppo assicurativo-finanziario che è direttamente controllato dal ministero dell’Economia. I prestiti sono a tasso agevolato ed è previsto che una quota del 10% sia a fondo perduto.

In questa fase di emergenza molti debiti pregressi vengono ristrutturati, perché il saggio d’interesse è molto più vantaggioso. E gli istituti di credito favoriscono questo processo, perché la copertura delle esposizioni viene scaricata sulle spalle dello Stato. Il meccanismo produce così un effetto: fa lievitare i costi del decreto, che aumentano in modo esponenziale. Ma siccome c’è il Covid, il fenomeno non è considerato una priorità. Le banche così assolvono al loro ruolo e iscrivono tutto a bilancio.

Quattro anni dopo però il nodo inizia ad aggrovigliarsi, perché gli istituti di credito cominciano a chiedersi quando rientreranno in possesso della liquidità stanziata. È vero che, grazie agli alti tassi d’interesse dell’ultimo periodo, hanno realizzato considerevoli profitti. Ma se le grandi banche di «sistema» possono spostare in avanti il loro timing senza molti problemi, le più piccole mostrano i primi segni di difficoltà e devono tenerne conto nel loro bilancio. Perciò si è accesa una luce rossa: le strutture dello Stato coinvolte nel 2020 nell’operazione di salvataggio sarebbero in grado di far fronte alle richieste?

È la domanda che si sono posti autorevoli rappresentanti del governo. «E non da oggi — raccontano — ma da quando ci siamo insediati». Non è dato sapere al momento a quanto possa ammontare l’effetto del decreto sulle casse pubbliche, e se le riserve accantonate da Mediocredito Centrale e Sace siano sufficienti a coprire gli eventuali mancati pagamenti. È certo che nel 2023 il tasso di default generale — cioè il parametro in base al quale si misura la probabilità che un debitore non sia in grado di ripagare un finanziamento — è rimasto al di sotto del due e mezzo per cento. Ma si tratta di un dato generale, che non si concentra quindi sui soldi stanziati attraverso il decreto Liquidità.

«Il problema — aggiungono dall’esecutivo — è che nel frattempo i debiti pregressi sono arrivati a scadenza. E se gli imprenditori non riescono a farvi fronte, le banche iscrivono il credito girandolo sullo Stato». Perché, se Mcc e Sace non riuscissero a coprire, in ultima istanza toccherebbe all’Economia pagare: solo che a quel punto il debito andrebbe messo a bilancio. E il fantasma della cambiale si materializzerebbe a via XX Settembre, dove — raccontano — «Giorgetti non sa da quale parte voltarsi». L’era del gratuito è finita, se mai ci sia davvero stata.

 

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