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Nel nostro ordinamento giuridico il termine “prelazione” indica due fattispecie diverse tra loro.

Per “prelazione” si può intendere tanto il diritto del creditore a vedersi preferito, nella ripartizione dell’attivo, rispetto ad altri creditori; quanto il diritto, attribuito dalla legge o dalla volontà delle parti, ad un soggetto (detto “prelazionario”) di essere preferito a terzi nella stipulazione di un determinato contratto, qualora un altro soggetto (detto “promittente”) decida di stipulare il contratto stesso.

Nel presente articolo si farà riferimento, col termine “prelazione”, al secondo dei significati appena richiamati, con particolare focus sulla funzione della prelazione societaria, ossia della clausola di prelazione inserita nello statuto di una società (specificamente di S.p.A. o di S.r.l.).

Secondo una ricostruzione giurisprudenziale accolta anche in dottrina, “dal diritto di prelazione scaturiscono due obbligazioni: una di carattere negativo o di non fare (il divieto, a carico del promittente, di stipulare il contratto con soggetti diversi dal prelazionario senza averlo prima informato o, avendolo interpellato, senza averne atteso la risposta nel termine all’uopo fissato), ed una di carattere positivo o di fare (ossia quello di compiere la c.d. denuntiatio)” (Corte d’Appello di Trento; 6 dicembre 2005, n. 422).

La prima domanda da porsi è quali siano le conseguenze della violazione delle suddette obbligazioni. Per rispondere a tale quesito, appare necessario una breve analisi sulla natura, sociale o parasociale, della clausola in esame.

Secondo un minoritario (e più risalente) orientamento dottrinale e giurisprudenziale, il diritto di prelazione, benché inserito nello statuto sociale, sarebbe pur sempre funzionale ad interessi individuali ed extrasociali dei soci, dal momento che attribuirebbe il relativo diritto a tutti i soci uti singoli. Pertanto, la clausola di prelazione, attuando un regolamento di interessi tra soci “estraneo” all’interesse sociale, avrebbe sempre natura parasociale.

Tale classificazione non appare di poco conto se si considera che, se si optasse per la natura parasociale, la regola prelazionaria, seppur inserita nello statuto, non si eleverebbe quale norma a valenza organizzativa della società ma avrebbe solo valore di regolamentazione di interessi personali dei soci, con la conseguente efficacia meramente obbligatoria della clausola stessa.

Ciò sta a significare che, nel caso di cessione della partecipazione sociale in violazione della clausola di prelazione, l’unico rimedio possibile per i soci pretermessi sarebbe quello del risarcimento del danno, essendo la cessione valida ed efficace tanto inter partes, quanto nei confronti della società.

Tale tesi, tuttavia, non sembra possa essere accolta.

Infatti, “l’inserimento della clausola di prelazione nello statuto determina il riconoscimento alla clausola di regola organizzativa della società e, di conseguenza, conferisce alla stessa valore sociale assoluto sia nel regolare i rapporti con la società che i rapporti tra soci, impedendo che rimanga un qualche spazio per configurare un parallelo ambito/natura parasociale” (Carlo Alberto Busi – La prelazione societaria, Cedam, 2019).

Così intesa, la clausola di prelazione avrebbe, secondo un’espressione frequentemente utilizzata sia in dottrina che in giurisprudenza, “efficacia reale” (anche se, con espressione più appropriata, si dovrebbe dire che la clausola di prelazione sarebbe opponibile erga omnes).

Traducendo il tutto in termini pratici, riprendendo un’importante pronuncia della Suprema Corte,“la violazione della clausola statutaria contenente un patto di prelazione comporta l’inopponibilità (della cessione) nei confronti della società e dei soci titolari del diritto di prelazione” (Cass. 2 dicembre 2015, n. 24559), pur rimanendo valido inter partes (ossia tra socio cedente e terzo cessionario) l’atto di cessione.

Ma quali sono le conseguenze dell’inefficacia nei confronti di determinati soggetti (soci e società) e della, contemporanea, validità/efficacia nei rapporti tra cedente e cessionario?

In tal senso, occorre analizzare le singole posizioni dei soggetti coinvolti e i rapporti che intercorrono tra loro.

Per il terzo cessionario, effetto principale dell’inefficacia della cessione nei confronti della società sarà che costui non potrà acquisire lo status socii e, conseguentemente, non potrà esercitare tanto i diritti patrimoniali quanto i diritti amministrativi. E, ben inteso, ciò anche qualora avvenga l’iscrizione del cessionario a libro soci (per le S.p.A.) o nel registro delle imprese (per le S.r.l.), in quanto l’ottenimento dell’iscrizione non potrebbe esplicare alcun effetto sanante dell’operazione.

Per quanto attiene alla posizione del socio cedente, secondo parte della giurisprudenza,“dichiarato inefficace rispetto alla società il trasferimento a titolo oneroso delle azioni avvenuto senza il rispetto della clausola statutaria di prelazione, il cedente rimane legittimato all’esercizio dei diritti sociali inerenti le azioni in forza della iscrizione nel libro soci” (Tribunale di Napoli, ordinanza 7 aprile 2005).

Tale ricostruzione sarebbe condivisibile qualora si aderisse alla tesi secondo cui la cessione della partecipazione in violazione della clausola statutaria di prelazione comporti la nullità o l’annullamento dell’atto, in quanto nessun trasferimento patrimoniale si produrrebbe tra i contraenti.

Tale tesi, tuttavia, non appare accettabile considerato che il contratto di cessione in sé non presenta vizi o difetti che determinino la nullità o l’annullabilità dell’atto, in quanto il cedente è certamente legittimato a disporre delle partecipazioni, dato che la clausola di prelazione statutaria non ne limita la legittimazione ma ne condiziona soltanto l’efficacia. Pertanto, essendo valida ed efficace la cessione inter partes, neanche il socio cedente sarebbe legittimato ad esercitare i diritti sociali in quanto non più proprietario.

Tuttavia, giungere a tale conclusione produrrebbe una possibile situazione “di stallo”, in cui né cedente né cessionario sono legittimati ad esercitare i diritti sociali.

Al fine di evitare ciò, si è ritenuto che il socio cedente, stante l’inefficacia della cessione nei confronti della società, essendo “ancora” iscritto nel libro soci (o nel registro delle imprese), sarebbe legittimato ad esercitare i diritti sociali.

Ad ogni modo, anche questa soluzione non può essere suffragata, tenuto conto della ratio della clausola di prelazione: l’inserimento della stessa nello statuto societario risponde all’interesse sociale a mantenere tendenzialmente omogenea la compagine societaria, evitando l’ingresso di terzi estranei che potrebbero alterare l’equilibrio formatosi, evidentemente ritenuto ottimale per il miglior conseguimento dell’oggetto sociale, determinando peraltro anche la moltiplicazione dei partecipanti alla società e il rischio di scalate ostili.

La clausola di prelazione, dunque, avrebbe la funzione di evitare l’ingresso di soggetti sgraditi all’interno della compagine sociale.

Motivo per cui, ove dovessero essere riconosciuti diritti sociali al socio venditore, vi è l’inaccettabile rischio che quest’ultimo possa trasformarsi in un prestanome dell’acquirente qualora questi accettasse di esercitare i diritti sociali nell’interesse del cessionario, raggirando così gli interessi che si sono voluti tutelare con l’inserimento nello statuto della clausola di prelazione. E comunque, al di là di ogni possibile accordo, il socio cedente (apparentemente legittimato) verserebbe in una situazione di indifferenza che rischia di sfociare in un conflitto continuo, come tale idonea a inquinare il procedimento decisionale. D’altronde, come osservato in dottrina, quale che sia l’interesse concreto che ispirerebbe il voto dell’apparente legittimato non proprietario delle azioni (o comunque disinteressato ad esse), esso si collocherebbe per definizione fuori dall’area del contratto sociale (F. Murino – Circolazione della quota, legittimazioni e autonomia privata nella S.r.l. Milano, 2017).

Tale situazione di “congelamento” della partecipazione ceduta, in cui né il cedente né il cessionario sarebbero legittimati ad esercitare alcun diritto sociale, potrebbe produrre una pericolosa situazione di stasi in seno alla società. Basti pensare alle possibili ripercussioni in materia di quorum costitutivo, specialmente nell’ambito delle assemblee straordinarie (per le S.p.A.) e delle decisioni dei soci di cui all’art. 2479 n.4 e 5 c.c. (per le S.r.l.). Come superare tale impasse?

Nulla quaestio nel caso in cui siano le stesse parti a far venir meno gli effetti del contratto. Infatti, è ben possibile che in seguito alla privazione della legittimazione ad esercitare i diritti sociali, il terzo cessionario agisca per la risoluzione del contratto (per mancanza delle qualità essenziali ex art. 1497 c.c., o, in via alternativa, per dazione di “aliud pro alio”).

Ancora, secondo un’altra possibile soluzione prospettata da una recente pronuncia, “appare più confacente […] ritenere che la cessione di quote in violazione dell’altrui diritto di prelazione, quando la violazione era nota a cedente e cessionario, debba essere ritenuta implicitamente sottoposta alla condizione risolutiva dell’esercizio (fruttuoso) dell’azione per declaratoria di inefficacia della cessione stessa (o dell’esercizio fruttuoso di un’eccezione stragiudiziale di inefficacia che sia accolta dalla società, che, quindi, provveda a far cancellare la cessione dal registro delle imprese)” (Tribunale di Milano, 20 ottobre 2016, n. 11519).

Pertanto, o attraverso lo strumento della risoluzione del contratto (che potrebbe avvenire anche per mutuo consenso) o con l’apposizione di una condizione risolutiva “implicita”, le parti potrebbero porre nel nulla gli effetti del contratto concluso in violazione della clausola di prelazione.

Tuttavia, ove tutto ciò non accada – ed è ben possibile che non accada, in quanto, sebbene l’esercizio dei diritti sociali sia lo scopo normalmente perseguito dalle parti del negozio di cessione della partecipazione sociale, non è escluso che le stesse possano perseguire altri interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico e perciò accontentarsi della titolarità senza investitura all’esercizio dei diritti – quali sarebbero i “rimedi” riconosciuti alla società?

Parte della dottrina, per superare tale situazione “di stallo”, ha inteso definire la prelazione statutaria come un’ipotesi di prelazione “legale”, attraverso un richiamo agli art. 2355-bis e 2469 c.c. che sembrerebbero riconoscere natura legale (e non convenzionale) alla clausola in esame.

Attribuire natura legale alla clausola di prelazione inserita nello statuto sociale, infatti, potrebbe comportare (anche se ciò non è così “scontato”) l’attribuzione alla clausola stessa della cd. “efficacia reale” – questa volta nel senso proprio del termine – con il conseguente riconoscimento del cd. “diritto di retratto”, ossia il diritto dei soci titolari di prelazione a riscattare le partecipazioni acquistate dal terzo in violazione della clausola.

Ad ogni modo, come sostenuto da dottrina e giurisprudenza maggioritaria, la disciplina societaria “consente” il patto di prelazione ma ciò non vuol dire che ci si trovi di fronte ad un’ipotesi di prelazione legale. Infatti, un conto è affermare che la prelazione di cui agli art. 2355-bis e 2469 c.c. è una prelazione legale, altro è parlare di “prelazione consentita dalla legge”. Il mero rinvio all’atto costitutivo, quale fonte di eventuali limitazioni alla circolazione delle partecipazioni sociali, pare dimostrare inequivocabilmente la natura convenzionale della prelazione societaria, con la conseguente impossibilità di affermare l’esistenza di un diritto di retratto in capo ai soci pretermessi dall’atto di cessione.

Alla luce di quanto detto, deve giungersi alla conclusione che non esistono per la società strumenti giuridici per far fronte a tale situazione d’incertezza, dovuta alla violazione di una propria regola statutaria?

In realtà una possibile (se non l’unica) risposta può essere rinvenuta nella previsione di un diritto di riscatto, regolato direttamente dallo statuto, esercitabile ogniqualvolta venga violata la clausola prelatizia. Come suggerito dal notariato (Massima n.99 del Consiglio notarile di Milano.), infatti, i soci potrebbero adottare all’interno dello statuto una prelazione “rafforzata” dalla previsione di una clausola di riscatto delle azioni (o delle quote) a favore della società o dei soci pretermessi nei confronti del socio cedente, subordinata al verificarsi della violazione di obblighi specificamente individuati dalla clausola stessa.

Ovviamente dette clausole andrebbero redatte con particolare attenzione, innanzitutto individuando gli “inadempimenti” che legittimano l’esercizio di siffatta clausola. In secondo luogo, calcolando il prezzo di riscatto, che potrà essere stabilito sulla base dei criteri corrispondenti a quelli applicati nell’ipotesi di recesso ex art. 2437-ter c.c. per le S.p.A. e 2473 c.c. per le S.r.l. E, infine, privilegiando il riscatto dapprima in capo ai soci e, solo successivamente, in capo alla società, limitata nel suo agire dal rispetto di norme quali gli artt. 2357 c.c. e ss.

Alla luce di quanto sostenuto fin ora, il riscatto delle partecipazioni sembra rappresentare la risposta positiva al problema dell’aggiramento della clausola statutaria di prelazione, sia per i soci pretermessi, sia per la società, potendo risolvere in tempi relativamente brevi la situazione “di stallo” che si verrebbe a creare in seguito alla cessione delle partecipazioni sociali in violazione della clausola prelatizia.

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