Una società immobiliare notifica all’acquirente il precetto per il pagamento del residuo prezzo di una compravendita immobiliare stipulata con atto pubblico notarile.
Parte debitrice propone opposizione contestando, oltre a ragioni di merito, la mancata apposizione della formula esecutiva nell’atto notarile notificato assieme al precetto.
Il Tribunale di Ancona accoglie l’opposizione esecutiva, ritenendo assorbite dalla questione procedurale le altre contestazioni di merito.
La Corte d’appello, impugnata la sentenza dalla soccombente, respinge sia l’opposizione agli atti esecutivi che (per le altre ragioni di merito) quella all’esecuzione e accoglie l’impugnazione sostenendo che il vizio della carenza della formula esecutiva è stato sanato dalla proposizione dell’opposizione; l’esperita opposizione avrebbe cioè dimostrato la compiuta acquisizione, da parte dell’esecutanda, delle ragioni del credito fatto valere nei suoi confronti.
Il processo giunge dinanzi alla Suprema Corte (Sezione III civile) che si pronuncia con sentenza 12 febbraio 2019, n. 3967.
Tre sono, ad avviso di chi scrive, i passaggi di maggiore interesse della pronuncia:
il primo, in cui la S.C. si limita a rilevare la non impugnabilità della sentenza resa nella causa di opposizione ex art. 617 c.p.c.. Se il vizio dedotto rispetto all’atto notarile notificato è – come la Suprema Corte effettivamente accerta – l’omessa apposizione della formula esecutiva, esso si concretizza in una irregolarità formale, come tale censurabile mediante opposizione ex art. 617 c.p.c.; pertanto la sentenza di 1° grado non poteva/doveva essere impugnata (vogliamo rammentarlo) per il limpido comando contenuto nell’art. 618 c.p.c. La Suprema Corte non può allora che rilevare d’ufficio l’improponibilità dell’appello. A tale esito si perviene correttamente “anche nel giudizio di legittimità, trattandosi di questione che determina l’accertamento dell’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza di 1° grado (…)”. Altro discorso avrebbe dovuto farsi laddove il vizio si fosse concretizzato non già nell’irregolarità bensì nell’inesistenza del titolo esecutivo, perché quella avrebbe dovuto essere dedotta con l’opposizione ex art. 615 c.p.c.. In conclusione la sentenza d’appello è cassata senza rinvio;
il secondo, con il quale la S.C. risponde al quesito se l’opposizione agli atti esecutivi da parte del debitore cui è stato notificato un titolo sprovvisto della formula esecutiva, possa determinarne la sanatoria per raggiungimento dello scopo. Si tratta di una questione assorbita dalla decisione, è vero, ma l’argomento è “di rilievo nomofilattico” e la Suprema Corte, invocando l’art. 363, comma 3, c.p.c., desidera in ogni caso affrontarlo. Così passa in rassegna gli scopi effettivi, elaborati/proposti dalla dottrina, in base ai quali l’art. 475 c.p.c. impone la spedizione in forma esecutiva del titolo. L’apposizione della formula esecutiva: 1) secondo la dottrina più risalente rappresenta l’affermazione esteriore e solenne d’una efficacia già consustanziale al titolo, sarebbe pertanto un requisito formalistico, un “residuo storico”; 2) è funzionale a suggellare la rilevanza dell’atto come idoneo a sostenere l’azione esecutiva ovvero ad attestare che esso è “formalmente perfetto”, ex art. 153, comma 1, disp. att. c.p.c.; 3) serve ad individuare la parte cha ha diritto all’utilizzazione del titolo, perché ad essa soltanto può esserne attribuito il possesso (art. 475, comma 2. c.p.c.); infine, con riferimento all’art. 476 c.p.c., consente il controllo del numero di copie del titolo esecutivo che sono destinate alla circolazione. Da quanto precede consegue che è estraneo all’adempimento in questione lo scopo di consentire al debitore di prendere piena cognizione dell’obbligazione alla quale è soggetto, funzione che spetta piuttosto all’atto di precetto. L’argomento difensivo usato del creditore/società immobiliare risulta allora privo di fondamento: la conoscenza dell’atto dimostrata con l’opposizione esecutiva non è sufficiente a sanare, in base all’art. 156, comma 3, c.p.c., il vizio della mancata apposizione della formula sulla copia del rogito di compravendita notificata;
il terzo, con cui la S.C. affronta il diverso, ulteriore profilo per cui si determina la sanatoria dell’atto nullo ogni volta che non risulti leso, nel concreto, l’interesse tutelato dalla norma processuale che regola la fattispecie. La Suprema Corte qui ribadisce, in sostanza, che non esiste “un interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria” e per ciò “la parte che intende far valere la nullità processuale deve (…) indicare quale attività processuale le sia stata preclusa per effetto della denunciata nullità”. Il principio è riaffermato (di nuovo in virtù dell’art. 363, comma 3, c.p.c., essendo già altrimenti decisa la controversia rimessale) anche con riguardo alla materia esecutiva e allora la disciplina dell’art. 617 c.p.c. (cioè di quella opposizione preordinata a far valere errores in procedendo ovvero nel quomodo dell’azione esecutiva) è da coordinare con le regole generali in tema di sanatoria degli atti nulli (Cass., Sez. VI-3, ordinanza n. 25900 del 15/12/2016) per cui “l’opponente non può limitarsi a lamentare l’esistenza dell’irregolarità formale in sé considerata, senza dedurre che essa abbia davvero determinato un pregiudizio ai diritti tutelati dal regolare svolgimento del processo esecutivo”. E’ in evidenza un problema di concreto interesse ad agire, che la Suprema Corte torna a chiamare in causa nel nome di esigenze di economia processuale e di ragionevole durata del processo.
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