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Una nuova filiera della sostenibilità che parte dal microcredito e dà fiducia ai piccoli agricoltori. Un progetto pilota che riscrive l’origine del caffè che beviamo in Italia, supportando modalità di lavoro eque e inclusive e contribuendo alle sfide globali con pratiche agricole ecosostenibili ma al tempo stesso più produttive. Parte tutto dall’Uganda, la terra madre del caffè Robusta, quello che fa la cremina in tazzina, che a noi piace tanto, e dove la produzione di caffè contribuisce al 2% del Pil nazionale.

Nei distretti di Ibanda e Bushenyi si trovano le mille piantagioni del Mwanyi Women and Youth Project di Caffè Borbone e Ofi a sostegno delle donne e delle piccole comunità rurali. I chicchi che producono arrivano in gran parte in Italia, dove verranno poi trasformati dalle più importanti torrefazioni nostrane, dal polo agroindustriale di Caivano a quelli di Torino, e a beneficiarne sono tutti. In primis i farmer ugandesi, che possono contare sul microcredito per avviare e sostenere la loro piantagione e vengono affiancati da agronomi ed esperti per migliorare la produzione con pratiche ecosostenibili. Questo vuol dire prendersi cura di chi, all’origine della filiera del caffè, s’impegna per migliorare la resa e la qualità dei raccolti, nonché la qualità della vita delle persone che operano nel settore.


Credito foto: Ally Kahashy Nnp_Drc per Caffè Borbone

 

In Uganda produrre mwanyi – che significa caffè – vuol dire poter mantenere l’intera famiglia, mandare i bambini a scuola e diventare a tutti gli effetti degli imprenditori. All’interno della rete di villaggi che producono caffè Robusta e Arabica per il progetto è stato incluso il modello dei Vsla, Village Savings and Loan Associates: associazioni di risparmio e prestito con cui gli agricoltori si auto-aiutano ad accedere ai servizi finanziari di base, compreso il microcredito. Un programma prevede una formazione finanziaria su temi quali l’imprenditorialità, la compilazione di registri di risparmio e metodi per monitorare l’evoluzione della produttività e che sta permettendo alle donne di emanciparsi e di vendere il loro caffè senza che debbano intervenire gli uomini, che finora avevano controllato la loro vita. Ce lo racconta Prisca Tumusiime, che ha iniziato a coltivare caffè a 45 anni. La sua è una storia di rinascita, che parte da un terreno grande meno di un ettaro nella valle di Kicheche dove coltivava principalmente banane, solo per il sostentamento della sua famiglia. “Quando una donna lavora, cambia la vita di tutta la sua famiglia. Ho cinque figli, anche mio marito lavora ma non sa amministrare i soldi. Con questo progetto abbiamo migliorato del 30% la produzione del caffè, che ci viene pagato a un prezzo equo in base al valore delle borse e viene spedito in gran parte in Italia. E sono io stessa a gestire la piantagione e vendere il mio caffè. Sapere che vi piace mi rende molto orgogliosa”.

L’obiettivo finale del progetto sostenuto da Caffè Borbone è costruire da zero un sistema di certificazione della materia prima coltivata a livello locale in zona non deforestata e geolocalizzata, così come imporrà dal prossimo anno la normativa Europea, oltre che realizzare un progetto di alto valore per il tessuto sociale ugandese. Il caffè verde parte dalla piantagione locale e, passando attraverso gli agenti Ofi, giunge dagli esportatori a Kampala per essere poi spedito dai porti del Kenya verso le destinazioni di torrefazione. I commercianti di Olam comprano quindi direttamente dai produttori locali garantendo una filiera diretta e controllata.

“Questo progetto quinquennale con Ofi, con cui abbiamo un rapporto di trust e di relazione, si struttura su due elementi: quello agronomico, per migliorare la produzione e la qualità dei raccolti, e quello formativo – ha spiega Marco Schiavon, amministratore delegato di Caffè Borbone, durante la visita di una delle farm –. Parliamo di alfabetizzazione finanziaria, modelli di risparmio e tecniche di accesso al credito, con grande fiducia nel lavoro delle donne, ma anche di educazione dei giovani Under 24 ai quali sono dedicati progetti per sviluppare competenze nell’utilizzo della chimica legata alla coltivazione di caffè, nella creazione di “nursery”, dove si coltivano le nuove piante di caffè, ma anche di attività collaterali e di diversificare le proprie fonti di reddito, dai negozi di agraria fino all’allevamento”.


Un progetto molto concreto, con un impatto sociale significativo: all’orizzonte c’è anche la prospettiva del piano Mattei per l’Africa, certo, ma un terzo della popolazione dipende da questa materia prima per vivere. “Toccare con mano l’impatto che il progetto sta avendo su queste comunità è importante e ci dimostra come sia possibile pensare a una filiera migliore, commenta Carlo Pesenti, consigliere delegato di Italmobiliare, che controlla il 60% del capitale sociale di Caffè Borbone –. Penso che tutte noi aziende più evolute dovremmo fare la nostra parte in questo perché esiste un modo diverso di produrre e investire nelle materie prime. Questo progetto pilota è un esempio di come si possa migliorare l’aspetto produttivo e quindi far incrementare i ricavi per gli agricoltori, ma anche avere un impatto sociale tangibile, non solo a parole. C’è tantissimo da fare: ben vengano i nuovi regolamenti contro la deforestazione e la sostenibilità del caffè, ma il cambiamento deve partire dal basso e coinvolgere tutti i livelli della filiera”.

 

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