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Anche la finanza palestinese sta collassando #finsubito prestito immediato


Israele sta distruggendo l’economia della Palestina, per sempre. Non è una boutade di qualche attivista pro-Hamas, come i più conservatori potranno pensare, ma il contenuto della lettera che la segretaria al Tesoro statunitense uscente Janet Yellen, insieme ai ministri delle Finanze di sette altri Paesi, ha inviato al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, sollevando l’allarme sull’imminente collasso dell’economia palestinese.

La preoccupazione principale riguarda la decisione del ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, che ha prorogato di un solo mese l’estensione della corrispondenza bancaria tra Israele e i territori occupati della Palestina, in scadenza il 31 ottobre. Se il sistema non verrà approvato nuovamente, il sistema bancario palestinese rischia il collasso.

L’incontro “Palestina. La finanza rasa al suolo” durante FestiValori 2024 al Teatro San Carlo di Modena © Valori.it

Senza stabilità finanziaria, non c’è sviluppo

La posizione intransigente di Smotrich ha già fatto temere agli alleati degli Stati Uniti che il mancato rinnovo dei rapporti finanziari tra le banche potrebbe avere effetti devastanti. Non solo sulla tenuta economica della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, ma anche sulla sicurezza dell’intera regione. Di fronte a un rischio di destabilizzazione senza precedenti, che potrebbe portare anche alla caduta dell’Autorità Palestinese, i ministri delle Finanze coinvolti hanno sottolineato le conseguenze negative di un’interruzione dei flussi economici. Oltre 13 miliardi di dollari in scambi commerciali tra Israele e Palestina si fermerebbero, penalizzando sia l’economia israeliana sia quella palestinese.

Secondo quanto indicato dal rapporto pubblicato ad aprile dalla Banca Mondiale, la guerra condotta da Israele ha provocato 18,5 miliardi di dollari di danni. Il che corrisponde al 97% del Prodotto interno lordo congiunto della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. In questo senso, l’insieme dei territori palestinesi è stato cancellato e “azzerato” anche dal punto di vista economico.

Le difficoltà per la popolazione palestinese sono però ben radicate, andando oltre la questione bancaria. Come ci ha tenuto a raccontare Rami Radwan Ali Takhman dell’Autorità Monetaria Palestinese, ospite quest’anno di Festivalori. Infatti, l’assenza di una valuta nazionale e le condizioni di conflitto rendono estremamente complessa la gestione economica e finanziaria nei territori occupati. «Senza stabilità finanziaria sarà impossibile pensare a una ripresa. Per questo, l’obiettivo prioritario è porre fine alla guerra», afferma.

La situazione è inoltre aggravata dalla distruzione di quasi tutte le infrastrutture nella Striscia di Gaza, dai blocchi israeliani che ostacolano il commercio in tutta la Palestina e dalla disoccupazione dilagante. Per rilanciare l’economia, ci sarebbe bisogno di un ambiente sicuro e di investimenti significativi. Anche nel microcredito, strumento essenziale per le donne e per le fasce vulnerabili della popolazione.

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Israele ha distrutto il 65% delle imprese palestinesi

Mustafa Tamaizeh di Oxfam Palestina, descrive come a Gaza la situazione sia ancora più drammatica. Oltre il 65% delle imprese è stato distrutto e il territorio è diventato una «prigione a cielo aperto». Con la distruzione di università, industrie e attività agricole, la popolazione soffre in una condizione disperata e senza possibilità di ripresa. «Non c’è un solo metro sicuro che si possa percorrere», afferma Tamaizeh. La difficoltà di spostare merci a causa dei 750 checkpoint in Cisgiordania rallenta ogni tentativo di sviluppo e rende il territorio palestinese quasi invivibile. Questa, dicono gli attivisti, è una condizione che esisteva già prima del 7 ottobre. Esportare un bene all’interno della Palestina costa 45 volte un bene esportato da Israele al Giappone. Come se un chilometro in terra palestinese valesse 10mila km. E il responsabile di tutto ciò è Israele.

A complicare il quadro è la pressione economica esercitata da Israele. Che, oltre a trattenere parte delle tasse palestinesi, limita l’accesso ai fondi internazionali per i settori chiave dell’economia del territorio. Gli aiuti umanitari, resi impossibili dal Parlamento israeliano, non sono mai stati sufficienti e limitati sui bisogni di base come istruzione, cibo e acqua. Mentre settori strategici come le infrastrutture e la finanza, essenziali per lo sviluppo a lungo termine, sono stati trascurati.

Ci vogliono liquidità e microcredito

La ricostruzione richiederebbe un massiccio afflusso di liquidità, tassi d’interesse favorevoli e flessibilità finanziaria per supportare progetti di microcredito che potrebbero ridare impulso all’economia e aiutare le donne e i giovani, tra le categorie più colpite dal conflitto. «Il microcredito esiste da oltre 30 anni in Palestina», ha raccontato a Modena Samar Husary dell’ong Acad Finance, specializzata nell’accesso al credito di agricoltori, in particolare donne e giovani. «Il microcredito è stato il primo sistema finanziario ad essere sospeso dall’inizio di questa guerra. Un duro colpo per donne, giovani, diversamente abili: le categorie più vulnerabili potevano contare su prestiti agevolati e a tassi zero. Ora non più».

L’insolvenza dello Stato palestinese è dietro l’angolo. E pure i lavoratori palestinesi che prima potevano – seppur tra grandi difficoltà – recarsi in Israele, ora sono disoccupati e non possono ripagare i propri debiti. Alcune stime parlano del 50% di forza lavoro che ora è disoccupata. In questo momento storico, il microcredito potrebbe rappresentare la leva per la ripresa. Ma il peggioramento delle condizioni di sicurezza economica e sociale ne rende l’utilizzo una prospettiva irraggiungibile.

Anche se la guerra terminasse domani, le sfide economiche e sociali resterebbero insormontabili senza un cambiamento radicale. «La Palestina potrebbe essere un Paese prospero, ma le sue risorse sono sotto controllo israeliano, controllo che impedisce un vero sviluppo», conclude Tamaizeh. L’occupazione rappresenta dunque un ostacolo fondamentale alla crescita economica e alla stabilità del territorio, alimentando una spirale di povertà e incertezza che richiede una risposta internazionale decisa e orientata a lungo termine. Risposta che finora non è ancora arrivata.

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