Marco Carlomagno, segretario generale della Flp – Ansa
Da Salerno, dove è riunita in congresso la Flp-Federazione italiana dei lavoratori pubblici e del pubblico impiego, si mette sotto la lente la Pa-Pubblica amministrazione, un comparto che rappresenta la croce e la delizia per molti cittadini. A cominciare dall’analisi dei concorsi pubblici, delle retribuzioni e dello smart working.
Ma qual è l’identikit dei candidati? Hanno tra i 30 e i 40 anni (41%), una laurea magistrale (38%) per la maggior parte a indirizzo giuridico (43,3%) e un’aspettativa di crescita della retribuzione che, a giugno 2024, era di tre punti percentuali inferiore a quella del settore privato. Secondo un’analisi di Bigda, dal 2010 al 30 giugno 2022 sono 168 i bandi di concorso gestiti da Formez PA, per un totale di 47.448 posti messi a concorso. Dal 2021 e fino a giugno 2022, il processo selettivo ha raggiunto un’intensità senza precedenti: solo nel 2021 sono stati indetti 105 bandi per oltre 30mila posti, contro i 18 del quinquennio 2010-15 quando sono stati banditi poco più di 1.600 posti e i 24 del triennio 2016-19 con meno di 6mila posti. Nel biennio 2021-22, dunque, sono state aperte 395 sessioni d’esame che hanno attirato 1,6 milioni di candidature e hanno registrato una partecipazione effettiva di 620mila persone. Di questi, 114.000 candidati hanno superato le prove, con un significativo numero di idonei pronti a entrare nei ranghi della Pa. La maggior parte dei concorsi è stata indetta dalle amministrazioni centrali, che hanno pubblicato il 71,5% dei bandi e offerto il 76,1% dei posti disponibili. Le amministrazioni locali, invece, hanno avuto un ruolo minore, rappresentando solo il 28,5% dei bandi e il 23,9% dei posti. Ogni bando è mirato a ricercare un determinato numero di figure professionali: nel periodo 2021-22, più di un posto su due sono stati destinati a profili da funzionario (il 22,9% per i funzionari tecnico specialistici, il 19,2% per gli addetti all’ufficio per il processo e il 18,5% per i funzionari giuridico-amministrativi). Solo 3mila posti per gli operatori data entry, poco più di mille per gli operatori amministrativo gestionale e altri mille per l’assistente amministrativo.
«Il reclutamento maggiore di funzionari rispetto agli operatori o assistenti è da ricercarsi nel fatto che, negli anni precedenti, le poche assunzioni registrate hanno privilegiato questi ultimi profili per una ragione meramente economica: quelle assunzioni costavano meno – spiega Marco Carlomagno, segretario generale di Flp -. Rispetto alle skill generali maggiormente ricercate nei concorsi, invece, si ha una prevalenza della lingua inglese (99,1%) e delle tecnologie informatiche (97,5%). Se guardiamo, infine, la progressione dal 2010 al 2022 della copertura dei posti per anno di pubblicazione dei bandi, notiamo che più ci avviciniamo a oggi e maggiori sono i posti rimasti scoperti: se fino al 2018 la percentuale era del 100%, dal 2019 ci attestiamo tra l’80% e il 90%».
Se guardiamo le retribuzioni contrattuali e le variazioni in percentuale tendenziali mensili del 2023-2024, vediamo come gli impiegati non dirigenti della Pa abbiano una crescita molto inferiore della propria retribuzione contrattuale rispetto agli stessi nel settore privato: solo nel giugno 2024 c’è un +1,6% contro un +4,2%. Sono le variazioni mensili dei dirigenti della Pa a risollevare un po’ il settore: a giugno 2024 registrano un +3,5% sul mese precedente dello scorso anno, quasi in linea con l’indice generale dell’economia (3,6%). Nonostante nella Pa ci siano più donne che uomini, la retribuzione media annua per le prime è di circa 10mila euro in meno rispetto a quella dei secondi (30.262 euro contro 40.157 euro).
Inoltre nella Pa ci sono 500mila smart worker e si stima che nel 2025 ci sarà un aumento del 23%. Finora, l’andamento nell’uso dello smart working dal 2020 in poi ha fatto piccoli passi avanti, con qualche passo indietro: se guardiamo alla sola Pa, nel 2023 erano 515mila gli smart worker, ma nel 2024 c’è stata una flessione. Movimenti, questi, che accomunano la Pa al resto dei settori: anche le pmi non sono state innovatrici in questo senso, così come le micro imprese. Solo le grandi imprese, dal 2021, hanno registrato segni positivi anno su anno. Eppure, i vantaggi sono evidenti: dall’analisi emerge che sono 93 le ore di viaggio che un lavoratore nella Pa risparmia ogni anno grazie allo smart working, mentre è di 250 euro il risparmio annuale per ciascuna postazione lavorativa ottenibile adottando lo smart working per due giorni a settimana.
Dall’indagine emerge anche una mancanza di attrattività dell’intera Pa nei confronti dei giovani. L’analisi di Flp, infatti, basandosi sui dati del report Ocse Government at a Glance 2021, osserva che la quota di dipendenti tra i 18 e i 34 anni nelle amministrazioni centrali è ferma al 2,5% e l’Italia è penultima tra i Paesi Ocse dove la media è di poco superiore al 19%. Fra i Paesi europei dell’Ocse solo la Grecia fa peggio con 1,8%. Lontanissimi, neanche a dirlo, dai Paesi del G7: il dato migliore è quello del Giappone con il 27%. Secondo una stima Flp su dati Aran, inoltre, emerge che in totale nella Pa italiana (3,2 milioni di dipendenti) gli under 35 sono 336.598 e rappresentano il 10,4%, percentuale che si abbassa ulteriormente se guardiamo alla fascia 18-29 anni, che con 155mila rappresentanti non arriva al 5% del totale. La classe di età più rappresentata è quella 50-59 anni con il 39,1%, 1,2 milioni di dipendenti.
E sulla digitalizzazione come strumento di semplificazione per il cittadino e le imprese, l’Italia non va meglio. L’indice Desi, strumento della Commissione Europea per misurare la digitalizzazione dell’economia e della società, infatti, assegna all’Italia un punteggio di 68,3 su 100 per quello che riguarda la presenza di servizi pubblici digitali per i cittadini, che equivale a un 24esimo posto. Solo quattro Paesi fanno peggio dell’Italia nell’Unione Europea: Bulgaria, Croazia, Polonia e Romania. Parlando, invece, di servizi pubblici digitali per le imprese, la situazione non cambia. L’Italia presenta un punteggio di 76,2 e solo Ungheria, Polonia, Croazia e Romania fanno peggio. Un dato generale che si riflette direttamente sull’accessibilità digitale della Pa. «Il nostro Paese sta scontando gli effetti di una condizione che ha comportato un profondo ritardo e mancate innovazioni, duplicazioni organizzative, con ricadute negative nei confronti della qualità dei servizi e della prestazioni rese a cittadini e imprese», conclude Carlomagno.
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