Il nuovo contratto per gli statali propone di opporsi alla “fuga” dalla Pubblica amministrazione. Al di là delle divisioni sindacali – Cgil e Uil non hanno firmato l’intesa – potrebbe essere un’intenzione lodevole, che inserisce la Pa nel clima della contemporaneità: come attrarre e come trattenere le proprie risorse umane.
E allora si comprendono, oltre agli aumenti retributivi, anche i “benefit” che riguardano l’organizzazione del lavoro. Il nuovo contratto di lavoro prevede smart working (anche “south working” per le condizioni speciali assicurate ai dipendenti nelle Regioni del Mezzogiorno d’Italia), settimana corta, buoni pasto non penalizzati dal lavoro da remoto, progressioni di carriera non agganciate alla sola anzianità. La misura definita per i buoni pasto e la settimana corta supera le differenze di trattamento che, finora, vedevano le singole amministrazioni decidere autonomamente se riconoscere i buoni pasto per chi lavora da remoto. Inoltre i dipendenti con particolari necessità – come genitori di bambini piccoli o persone che assistono familiari disabili – potranno beneficiare di ulteriori giorni di lavoro agile, che dovranno essere definiti dalla contrattazione integrativa.
Ormai il mercato del lavoro mostra che sono proprio i benefit non monetizzati a offrire la maggiore attrattività per i lavoratori. Almeno nel settore privato. L’obiettivo della Pa di allinearsi a questo nuovo “mood” è comprensibile. È giusto che la Pubblica amministrazione si renda più appetibile, anche per colmare i saldi negativi di risorse, a fronte delle uscite non rimpiazzate dai nuovi ingressi. Ma c’è un ma: di quante risorse ha bisogno? Prima di strapparsi i capelli per il mancato turnover, e quindi prima di rincorrere a tutti i costi nuove assunzioni, bisognerebbe sapere di quanti dipendenti ha bisogno la Pa (meglio sarebbe dire le Pa, visto che è un soggetto plurale, con servizi e fabbisogni diversi).
Di quanti dipendenti ha bisogno la Pubblica amministrazione? La domanda sembra la grande assente dal dibattito. La definizione della pianta organica in un’azienda dipende dal suo piano industriale, e questo si articola in relazione alla tipologia di business in cui opera l’impresa. Nella Pa il piano industriale dovrebbe essere tutto rivolto alla soddisfazione del cittadino-utente, o cliente se preferite. Ma chi si è adoperato per fare queste valutazioni prioritarie? La soddisfazione dei cittadini – in relazione all’erogazione dei servizi – dovrebbe essere l’unico metro per definire il numero dei dipendenti necessari, tenendo conto delle nuove tecnologie, della digitalizzazione e della dematerializzazione in corso. Ma anche considerando le diverse tipologie di utenti: la digitalizzazione è un’opportunità per razionalizzare processi, ma non per aggiungere distanza tra Pa e utenti non alfabetizzati.
Senza la preventiva misurazione della soddisfazione dei cittadini/clienti, ogni quantificazione delle assunzioni necessarie finisce per essere un’operazione “politica”, una “captatio benevolentiae” verso questo o quest’altro soggetto attivo sul palcoscenico pubblico. Si potrebbe dire che il rischio della clientela è assai alto, senza la definizione di un rigoroso piano industriale. Insomma, l’ennesimo atto di quella infinita campagna elettorale che non finisce mai.
La produttività nella Pa dovrebbe coincidere con la soddisfazione dei cittadini. Se per avere una carta di identità elettronica devono passare da 8 a 15 settimane, se per ottenere il passaporto si è costretti a compilare due diversi bollettini e ad aspettare qualche mese, il problema sono le risorse umane disponibili o le procedure informatiche utilizzate? In un caso o nell’altro la Pubblica amministrazione dovrebbe partire da qui, non dalla definizione di nuove assunzioni o di nuove opportunità per dipendenti che potrebbero rivelarsi ridondanti (o insufficienti?). La spesa corrente (il pagamento delle retribuzioni degli assunti) viene ancora prima di ogni progetto di spesa per investimenti (l’innovazione di processi e procedure). Una cattiva abitudine che non sembra essere stata abbandonata.
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