Nei primi nove mesi del 2024 i cinque maggiori istituti hanno realizzato 19 miliardi di profitti netti. Un risultato che fa bene al sistema e testimonia un cambiamento di rotta dopo scandali e fallimenti. Ma adesso serve meno burocrazia
Settimane di conti. E settimane di utili, soprattutto per le banche. L’Italia è in un momento di passaggio molto delicato. L’elezione di Donald Trump a capo degli Stati Uniti sicuramente cambierà la postura di quella che resta la prima potenza economica, e non solo, mondiale. Ha con l’Italia una relazione importante. Nel 2023, secondo United Nations Comtrade, l’Italia ha esportato negli Usa 72,7 miliardi di dollari. E tra il 2017 e il 2022, il tasso di crescita dell’export del nostro Paese verso gli Usa ha viaggiato a una media del 22%. Il neoprotezionismo potenziale americano andrà a sovrapporsi a una frenata delle esportazioni che nei primi otto mesi di quest’anno sono scese dello 0,6%. Può consolare il fatto che contendiamo alla Corea del Sud il quarto posto nella classifica dei Paesi esportatori. Ma le nubi all’orizzonte sintetizzate da quei 63 mila lavoratori che sono coinvolti nei tavoli di crisi aperti al Ministero del Made in Italy, come quel 19º calo consecutivo della produzione industriale ad agosto, devono spingere a una reazione l’intero sistema economico. Abbiamo assistito con piacere all’annuncio degli utili miliardari da parte delle banche nei primi tre trimestri del 2024. Qualcosa come 19,3 miliardi di euro per le sole prime cinque. Ma quanto il sistema del credito sta contribuendo, attraverso gli impieghi del denaro raccolto, a spingere il sistema economico? Nonostante la Bce abbia tagliato i tassi per tre volte di un quarto di punto da giugno, l’erogazione del credito avviene con difficoltà.
Cordoni stretti
L’avversione al rischio ha fatto stringere i cordoni della borsa. La Banca d’Italia nel numero di ottobre de L’Economia italiana in breve, evidenzia come due anni fa i prestiti al settore privato erano in crescita del 5 per cento sui 12 mesi precedenti. Oggi sono in calo del 4 per cento. E questo anche se i tassi di deterioramento del credito sono sotto il 2 per cento. Erano al 10 nel 2014. Il tutto nonostante il sostanzioso intervento pubblico che, dopo la pandemia e attraverso Sace e Mediocredito centrale, tutela molte esposizioni bancarie con garanzie concesse per nuovi finanziamenti a micro, piccole e medie imprese.
Certo, l’Italia non può pensare di fare tutto da sola. Ma credere che l’Europa possa essere il luogo dello sviluppo e il nostro Paese quello della redistribuzione, del welfare e via dicendo, sarebbe non solo sbagliato ma anche miope. La stessa Unione ha i suoi problemi. Il peso del prodotto interno lordo europeo sul Pil globale è passato dal 28,7 del 1992 al 16,6% di trent’anni dopo. Ed è vero che negli altri Paesi membri la Borsa svolge un ruolo di reperimento dei capitali fondamentale.
Secondo uno studio del Teha Club, il mercato finanziario francese pesa per il 127,8% sul Pil della Francia, per il 71,3% nel Regno Unito e per il 36,5% in Italia. Quanto hanno fatto le banche per agevolare il rafforzamento del mercato dei capitali? È innegabile che la lezione degli ultimi dieci anni l’abbiano imparata bene. Hanno cambiato volto. Erano tra le ultime in Europa. Unicredit è stata invece capace di immaginare con Commerzbank un’operazione transfrontaliera. Intesa Sanpaolo è prima nella Ue per capitalizzazione, davanti sia alla francese Bnp Paribas che agli spagnoli del Santander.
Il valore che il mercato riconosce ai principali istituti italiani è ovviamente legato alla generosità con la quale si tengono i soldi in casa attraverso buy back e dividendi ai soci. Ma è anche il frutto di un profondo processo di ristrutturazione aziendale che è passato attraverso cambiamenti normativi, taglio dei rami marci e una vasta digitalizzazione. Nel 2014 il sistema delle banche italiane era attraversato dalla tempesta che portò a fondo, con perdite miliardarie, le due principali banche popolari, entrambe con sede nel Veneto. L’anno successivo il totale dei prestiti concessi alla clientela che non venivano restituiti toccò il record di 361 miliardi di euro, una cifra colossale che fece scricchiolare l’intero sistema creditizio italiano.
I rischi del credito facile
All’improvviso gli effetti di decenni di credito facile, allegro e, in alcuni casi, concesso senza garanzie a controparti amiche, emersero in tutta la loro pericolosità. Alle due grandi popolari venete si affiancarono, sull’orlo del baratro, altri istituti di piccola e media dimensione, da Ancona a Ferrara, da Arezzo a Chieti.
Il conto da pagare fu salatissimo, i piccoli istituti vennero salvati fondendoli in Intesa Sanpaolo, Crédit Agricole, Bper Banca. Altri, di grande dimensione, chiesero pesanti sacrifici ai soci: il Monte dei Paschi di Siena nel 2017 deliberò un aumento di capitale da 5 miliardi di euro che, in assenza di azionisti privati, portò il governo italiano a controllare il 68 per cento del capitale della banca. Un intervento legato alla necessità di evitare un vicinissimo fallimento che avrebbe avuto conseguenze devastanti. Unicredit, nel 2017, chiese ai soci 13 miliardi di euro cash, a cui si aggiunsero le vendite di asset per circa 7 miliardi, tra cui il risparmio gestito targato Pioneer. Fu, con ampio distacco, la più grande operazione di salvataggio mai realizzata sul territorio dell’Unione Europea.
Nuove regole
Da quella stagione di resa dei conti derivò una lezione importante, fortemente voluta dalle autorità di vigilanza, sia italiane che europee e rapidamente messa in pratica dagli istituti bancari. La concessione dei crediti doveva sottostare a regole ben precise, a parametri da rispettare rigorosamente, norme così stringenti da mettere in dubbio il mestiere stesso del banchiere, ovvero la sua capacità di valutare i rischi d’impresa nel concedere credito: la valutazione del merito creditizio. Non solo. Tutti i ritardati pagamenti dovevano venire evidenziati e classificati nei bilanci delle banche, non era più possibile spazzarli con la polvere sotto il tappeto in attesa di tempi migliori. Andava data loro evidenza pubblica. E successivamente queste pratiche andavano espulse dai bilanci bancari, tanto era la loro potenziale pericolosità sistemica. Come? Vendendole a società specializzate nel recupero dei crediti. Si creò un mercato che non c’era, quello degli Npl, ovvero dei prestiti non restituiti o restituiti in ritardo, con molti operatori specializzati, anche provenienti dall’estero.
Bilanci in miglioramento
Nel settembre scorso in occasione dell’Npl Meeting, la più importante manifestazione italiana del settore, Banca Ifis ha fotografato la situazione del mercato domestico: i 361 miliardi di Npl del 2015 scenderanno alla fine di quest’anno a 290 miliardi (-71). Soprattutto, i bilanci bancari si sono svuotati dei crediti a rischio: inizialmente erano defluiti sui bilanci delle società specializzate solo 20 miliardi di euro, oggi sono 200. Questa severa ristrutturazione – criteri più rigidi nella valutazione del credito da concedere e cessione dei crediti non performanti a società specializzate -, associata a una stagione di tassi alti che hanno gonfiato i margini di interesse, ha portato a un netto miglioramento dei bilanci delle banche italiane.
La scorsa settimana sono stati presentati i risultati dei primi nove mesi del 2024: Intesa ha registrato utili netti per 7,1 miliardi, Unicredit per 7,7; 1,69 miliardi il Banco Bpm, 1,5 miliardi il Monte dei Paschi di Siena e 1,1 miliardi Bper.
Sforzo comune
Ma così come si premiano azionisti e manager e indirettamente, con un forte sistema creditizio, l’economia italiana, non si vede un’analoga spinta a finanziare imprese di rischio, a rendere accessibile il credito alle aziende e alle famiglie. Ogni banca penserà di aver fatto il suo. A casa propria. Purtroppo oggi è tempo di uno sforzo che vada al di là dell’ultimo rigo di bilancio, decisivo e fondamentale certo, ma non sufficiente per un Paese che senza l’impegno di tutti, a cominciare dalle banche, rischia di trovarsi a essere un vaso di coccio.
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