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La fabbrica chiude, il lavoro del futuro può restare: il caso Arçelik-Beko Europe #finsubito prestito immediato – richiedi informazioni –



Avvertenza per i lettori. Questo articolo ha un formato maxi, perché la verità è spesso complicata. Per chi è interessato, il sunto è questo. Trattiamo la crisi innescata dal piano di ristrutturazione di Arçelik-Beko Europe, neo-proprietaria di Whirlpool in Europa, che minaccia la chiusura di tre stabilimenti italiani.

Attraverso l’analisi di casi storici come quelli di Benton Harbor, Norrköping, Trento e Napoli, esploriamo l’impatto devastante delle chiusure di fabbriche sulle comunità locali, ma anche possibili vie di reindustrializzazione. Viene presentato un modello di trasformazione economica ispirato alla Svezia, che unisce formazione, riconversione industriale e partecipazione di istituzioni e imprese, offrendo spunti per affrontare la crisi con una prospettiva di sviluppo sostenibile.

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La cronaca economica, e la storia personale, ci impongono di riflettere a fondo sulla crisi esplosa in relazione alla manifestata volontà di ristrutturazione industriale avanzata da Arcelik alle parti sociali. La proprietà turca di Beko Europe, che ha acquisito il 75% di Whirlpool in Europa, ipotizzerebbe la chiusura fino a 3 siti in Italia. È utile ripercorrere quattro casi di chiusure e ristrutturazioni, tra i molti, relativi alla storia industriale di Ignis e Whirlpool per avere un quadro degli scenari possibili e delle lezioni, a volte tragiche, a volte di risurrezione che si possono determinare.

Benton Harbor (USA), la fabbrica di lavatrici

La storia di Benton Harbor, Michigan, è una delle più emblematiche negli Stati Uniti riguardo al declino industriale e all’impatto sociale devastante della chiusura di una fabbrica principale in una città dipendente dalla produzione manifatturiera. Negli anni ’70, la città viveva un periodo di relativa prosperità grazie alla presenza di Whirlpool Corporation, una delle principali aziende produttrici di elettrodomestici al mondo, che aveva una fabbrica nella zona. Benton Harbor e la vicina St. Joseph rappresentavano due facce opposte di una stessa comunità: una popolazione prevalentemente afroamericana e a basso reddito a Benton Harbor e una comunità bianca e benestante a St. Joseph.

La chiusura della fabbrica di Whirlpool ha segnato l’inizio del declino economico e sociale di Benton Harbor. Gli anni ‘70 furono un periodo difficile per l’economia statunitense, colpita dalla deindustrializzazione e dalla competizione crescente da parte di aziende straniere che offrivano prodotti più economici. Whirlpool, per competere, iniziò a delocalizzare la produzione in aree con costi del lavoro inferiori, spostando gradualmente le attività fuori dagli Stati Uniti. La chiusura della fabbrica principale a Benton Harbor non solo ha lasciato disoccupati migliaia di lavoratori, ma ha anche causato un effetto domino che ha distrutto altre attività locali che dipendevano dalla presenza dell’impianto di produzione.

La città ha subito un calo demografico significativo, un aumento vertiginoso della disoccupazione e della criminalità, e un deterioramento delle infrastrutture. I giovani senza lavoro né opportunità sono diventati vittime di droga e violenza, mentre i servizi pubblici hanno sofferto a causa della diminuzione delle entrate fiscali. Benton Harbor è entrata in una spirale di povertà e declino, con edifici abbandonati, scuole sottofinanziate e un tasso di povertà tra i più alti del Michigan.
Negli anni successivi, Whirlpool ha mantenuto il proprio quartier generale a Benton Harbor, ma ha continuato a operare principalmente con funzioni amministrative e di ricerca, lasciando la città a
offrire del peso della mancanza di lavoro. La comunità è rimasta divisa: la disparità tra Benton Harbor e St. Joseph è ancora presente, simbolo delle profonde ferite lasciate dalla chiusura della fabbrica. Questa vicenda è diventata un esempio della trasformazione dell’industria statunitense e delle città operaie in seguito alla globalizzazione e alla deindustrializzazione, ricordando quanto possa essere fragile l’economia di una comunità troppo dipendente da un’unica industria.

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Norrköping (Svezia), la fabbrica di forni a micro-onde

Nel gennaio 2014, Whirlpool Corporation ha annunciato l’intenzione di chiudere la propria fabbrica a Norrköping, in Svezia, entro la fine dell’anno. Questo stabilimento, che impiegava circa 323 dipendenti, era specializzato nella produzione di forni a micro-onde da incasso.
La decisione di chiudere la fabbrica svedese faceva parte di una strategia aziendale volta a consolidare la produzione europea di elettrodomestici da incasso in un unico hub. Whirlpool ha scelto di trasferire la produzione nello stabilimento di Cassinetta di Biandronno, in provincia di Varese. Questo piano mirava a migliorare la competitività dei prodotti da incasso nell’area EMEA (Europa, Medio Oriente e Africa) e a creare economie di scala. La chiusura dello stabilimento di Norrköping ha avuto un impatto significativo sulla comunità locale, con la perdita di numerosi posti di lavoro. Tuttavia, per lo stabilimento italiano, l’integrazione della produzione ha rappresentato un’opportunità di crescita e sviluppo, consolidando la posizione di Cassinetta di Biandronno come polo tecnologico europeo per gli elettrodomestici da incasso.

Trento, la fabbrica di frigoriferi

Lo stabilimento Whirlpool di Trento, situato a Spini di Gardolo, ha rappresentato per oltre quattro decenni un pilastro dell’industria locale e dell’occupazione nella regione. Inaugurato nel 1970, lo stabilimento si specializzò nella produzione di frigoriferi, contribuendo significativamente allo sviluppo economico del Trentino. Nel corso degli anni, l’impianto raggiunse un picco occupazionale di circa 1.700 dipendenti, diventando uno dei principali datori di lavoro della zona. Negli anni successivi, a causa di strategie aziendali orientate alla razionalizzazione e alla delocalizzazione della produzione verso paesi con costi operativi inferiori (es. Polonia), lo stabilimento iniziò a ridurre gradualmente la sua attività. Nel 2013, Whirlpool annunciò la chiusura definitiva dell’impianto, che avvenne nel febbraio 2014, lasciando senza lavoro 454 dipendenti diretti e 154 lavoratori dell’indotto.

Dopo la chiusura, la Provincia autonoma di Trento, in collaborazione con Trentino Sviluppo, avviò un piano di reindustrializzazione del sito. Nel 2015, l’azienda Vetri Speciali, leader nella produzione di contenitori in vetro per alimenti, presentò un’offerta per rilevare lo stabilimento, impegnandosi a investire 41 milioni di euro e a creare 250 posti di lavoro entro il 2021. La produzione presso il nuovo stabilimento Vetri Speciali iniziò ufficialmente nell’ottobre 2016, segnando una rinascita industriale per l’area precedentemente occupata da Whirlpool.

Napoli, la fabbrica di lavatrici

Lo stabilimento Whirlpool di Napoli, situato in via Argine nel quartiere di Ponticelli, ha una storia industriale che risale al 1964, quando fu inaugurato dalla Ignis di Varese. Grazie ai fondi statali destinati allo sviluppo industriale del Sud Italia, l’azienda avviò la produzione di elettrodomestici, impiegando circa 1.200 giovani operai. Nel 1970, la multinazionale olandese Philips acquisì Ignis, formando la IRE (Industrie Riunite Elettrodomestici). Tuttavia, a causa di risultati economici negativi, la fabbrica di Napoli fu temporaneamente chiusa, provocando l’occupazione dello stabilimento da parte dei lavoratori per sette giorni. Questo evento portò a un piano di ristrutturazione aziendale che migliorò la produttività e permise la riapertura dello stabilimento. Nel 1991, Whirlpool acquisì il marchio Ignis e le sue strutture produttive, implementando ulteriori miglioramenti nei processi produttivi. La produzione aumentò significativamente, superando nel 2007 il milione di lavatrici prodotte in un anno.

Nel 2015, Whirlpool acquisì Indesit, ereditando alcune difficoltà economiche e avviando una nuova ondata di razionalizzazione della produzione nelle regioni meridionali. Il numero di dipendenti nello stabilimento di Napoli diminuì da 600 a 430, e la produzione annuale scese a 320.000 unità, indicando una progressiva dismissione. Nonostante un accordo nel 2018 con il Ministero dello Sviluppo Economico, in cui Whirlpool si impegnava a investire 250 milioni di euro per mantenere i posti di lavoro, nel maggio 2019 l’azienda annunciò la chiusura dello stabilimento di Napoli. Questo portò a quattro anni di proteste e manifestazioni da parte dei lavoratori. Nel dicembre 2022, il governo acquisì lo stabilimento a costo zero, affidandolo alla ZES Campania (Zona Economica Speciale). Nel 2023, l’azienda campana TEA Tek, specializzata in impianti per energie rinnovabili, assunse 312 ex lavoratori Whirlpool e avviò un piano di riqualificazione della fabbrica, segnando una nuova fase per il sito industriale di via Argine.

Le fabbriche italiane di Arcelik

Arçelik, azienda turca proprietaria del marchio Beko, ha recentemente intrapreso una serie di ristrutturazioni industriali che hanno portato alla annunciata chiusura di alcuni stabilimenti in Europa. In particolare, sono in programma di chiusura due impianti in Polonia, decisione che ha suscitato preoccupazione riguardo al futuro degli stabilimenti italiani acquisiti da Whirlpool. Arçelik sembra fortemente intenzionata a dismettere i settori lavaggio e refrigerazione presenti nei siti di Comunanza (AP), Siena e Cassinetta di Biandronno (VA). Vedere l’ampia cronaca su
varesenews.it.

Analisi

Queste decisioni rientrano in una strategia più ampia di Arçelik volta a ottimizzare la produzione e ridurre i costi operativi a fronte di profonde perdite. Tuttavia, il rischio di un impatto devastante è molto alto. I sindacati hanno già proclamato scioperi e richiesto l’intervento del governo per salvaguardare l’occupazione e garantire un futuro sostenibile per gli stabilimenti coinvolti.
Per i dipendenti e i sindacati, la chiusura rappresenta una minaccia diretta alla stabilità economica e personale di migliaia di lavoratori. Il sindacato si trova a dover mediare tra le esigenze di Arçelik di ridurre le perdite e quelle dei dipendenti. Il loro obiettivo immediato è di aprire un dialogo con il governo e la proprietà, cercando soluzioni che vadano oltre una semplice riduzione della forza lavoro.
Anche i fornitori locali, che dipendono dalle attività degli stabilimenti per una parte significativa delle loro commesse, sono fortemente colpiti da queste incertezze. L’eventuale chiusura degli impianti potrebbe mettere in difficoltà aziende di piccole e medie dimensioni, che potrebbero subire una perdita di contratti vitali, portando a loro volta a riduzioni di personale e a un impatto negativo a catena sull’economia locale. Per i fornitori la chiusura significherebbe anche un’interruzione delle partnership costruite nel tempo. Essi potrebbero vedere svanire improvvisamente anni di collaborazione e fiducia, con poche possibilità di trovare nuovi clienti nel breve termine in un contesto già segnato da una competizione crescente.

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La comunità locale intorno a questi stabilimenti percepisce l’instabilità come una minaccia al proprio tessuto sociale ed economico. Gli impianti Arçelik non sono solo centri di produzione, ma punti focali per l’intera comunità, che dipende dagli stipendi dei dipendenti per alimentare l’economia locale, sostenere le piccole imprese e mantenere il livello dei servizi pubblici. La chiusura o il ridimensionamento lascerebbe una profonda ferita nel territorio, privando i residenti di un punto di riferimento economico e sociale e rischiando di alimentare fenomeni di disoccupazione e abbandono. La perdita di posti di lavoro, inoltre, ridurrebbe le entrate fiscali locali, aggravando la situazione delle infrastrutture pubbliche e dei servizi essenziali, e costringendo molte famiglie a cercare alternative altrove.

Scenari di soluzioni negoziali a corto raggio

In questo contesto di crisi, non ci sono soluzioni semplici e serve un approccio multilivello, in una prospettiva di breve e di medio periodo, per facilitare una soluzione sostenibile e il più vantaggiosa possibile per tutte le parti coinvolte. Una strategia di concertazione efficace dovrebbe mirare a costruire un piano di collaborazione duraturo, tenendo conto degli interessi distinti e convergenti di proprietà, lavoratori e sindacati, fornitori, comunità locali e governo.

Approccio per la proprietà turca

Arçelik, che cerca principalmente efficienza e riduzione dei costi, deve vedere nel dialogo un’opportunità di mantenere la sua reputazione globale e dimostrare un impegno responsabile verso i propri stakeholder. Tagliare per tagliare non è una soluzione se non nel breve periodo. Arçelik dovrebbe impegnarsi in una negoziazione aperta con il governo italiano e con i rappresentanti sindacali per esplorare incentivi, agevolazioni e riduzioni fiscali che potrebbero consentire di mantenere la produzione in Italia, seppur parzialmente ridimensionata. Anziché partire dalla chiusura degli stabilimenti, potrebbe prevedere il trasferimento graduale di alcune linee produttive, il riorientamento su prodotti a maggiore valore aggiunto e la creazione di un tavolo permanente di concertazione che permetta a tutte le parti di monitorare e adattare le strategie in modo agile.

Strategie per i dipendenti e i sindacati

I sindacati devono adottare un approccio strategico bilanciato, evitando posizioni troppo rigide che rischiano di irrigidire la trattativa. Meglio promuovere la sicurezza lavorativa attraverso soluzioni flessibili, come accordi di riduzione temporanea degli orari e programmi di riqualificazione, cercando di trasformare la crisi in un’opportunità di sviluppo per i lavoratori. Proposte come la creazione di cooperative di produzione o collaborazioni per la transizione ecologica potrebbero rappresentare alternative sostenibili, e la partecipazione a un tavolo di negoziazione continuo consentirebbe di adottare soluzioni più graduali. La richiesta di riqualificazioni e percorsi di aggiornamento per i dipendenti in prospettiva di riconversioni produttive non solo è realistica, ma evita situazioni di rottura con la proprietà.

Fornitori e comunità locale

I fornitori locali, strettamente legati agli stabilimenti per la continuità delle loro attività, dovrebbero essere inclusi nella negoziazione per comprendere la loro capacità di diversificazione e per garantire che abbiano un supporto in caso di chiusura o riduzione delle attività di Arçelik. Una strategia efficace dovrebbe includere un piano di reindustrializzazione che coinvolga attivamente i fornitori, trasformandoli in partner di un’economia più diversificata e meno dipendente da Arçelik. Le istituzioni locali dovrebbe implementare politiche di supporto che garantiscano infrastrutture e incentivi per nuove attività imprenditoriali e start-up. Potrebbero essere previsti finanziamenti per incubatori di impresa e un ecosistema di formazione che prepari i giovani a settori innovativi, trasformando queste aree da dipendenti di un’unica grande azienda a motori di sviluppo economico differenziato.

Il ruolo del Governo italiano

Infine, il governo italiano, come garante della stabilità economica e sociale, dovrebbe agire come facilitatore del processo negoziale, offrendo incentivi economici a fronte di impegni specifici di Arçelik verso il mantenimento di una produzione minima e la promozione di investimenti nelle comunità. Il primo obiettivo potrebbe essere un accordo temporaneo, con vincoli di monitoraggio e revisione basati sui risultati effettivi. Il Governo può inoltre sostenere il territorio con incentivi fiscali a nuove imprese e programmi di riconversione industriale, che consentirebbe di dare un’alternativa concreta alle comunità e di favorire una transizione equilibrata verso una nuova realtà economica.

La strategia di riconversione

Il settore degli elettrodomestici, ad altissimo tasso di competitività, con bassi margini strutturali per sovracapacità e tecnologie tradizionali non differenzianti, non può essere una soluzione di lungo periodo, almeno per la parte produttiva, per il sistema industriale italiano, ma neanche europeo, se siamo onesti. Se non riusciamo ad essere competitivi neppure nel settore automobilistico, per gli elettrodomestici, da tempo, non ci può essere un futuro produttivo significativo e sostenibile qui.
Una prospettiva strategica lungimirante ci viene dai casi di trasformazione di regioni industriali che sono state in grado di disegnare e guidare queste dolorose crisi. In Svezia, il caso della chiusura dello stabilimento di Norrköping rappresenta un esempio di reindustrializzazione e transizione verso un’economia della conoscenza, che potrebbe ispirare l’Italia, come fatto in parte nei casi di Trento e Napoli. Questo processo, chiamato “The Norrköping Way,” si è sviluppato attraverso alcune fasi chiave, con l’intervento coordinato di diversi attori e un approccio strategico e pragmatico.

Valutazione e diagnosi della situazione

Quando Whirlpool decise di chiudere la fabbrica di Norrköping nel 2014, che impiegava circa 323 dipendenti nella produzione di microonde, il primo passo fu una valutazione approfondita delle esigenze della comunità e delle potenzialità del sito. Le autorità locali, in collaborazione con Whirlpool e le parti sociali, analizzarono l’impatto economico della chiusura e identificarono le competenze dei lavoratori e le infrastrutture già presenti. Questo processo di diagnosi dettagliata permise di identificare i settori alternativi in cui Norrköping poteva eccellere.

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Piano di reindustrializzazione e riconversione delle competenze

A differenza di una semplice chiusura con sussidi di disoccupazione, a Norrköping si optò per una vera e propria riconversione industriale. Le autorità locali e nazionali, insieme a enti di formazione e alle università, crearono programmi specifici per aggiornare le competenze dei lavoratori in vista della transizione verso settori innovativi, come la tecnologia dell’informazione e la ricerca. Gli operai, abituati a lavorare in produzione, ricevettero una formazione intensiva in nuove tecnologie e processi digitali. La strategia di reindustrializzazione si focalizzò sullo sviluppo di un nuovo distretto tecnologico, con investimenti mirati per attrarre start-up e aziende tecnologiche, promuovendo così una diversificazione del tessuto economico locale. Questo distretto attirò aziende di settori emergenti che richiedevano competenze avanzate, come la robotica e l’automazione industriale. Partecipazione di tutti gli attori locali e nazionali. Il processo vide la partecipazione attiva del governo svedese, delle autorità locali, delle università e dei centri di ricerca, delle associazioni sindacali e delle aziende tecnologiche. Ogni attore aveva un ruolo specifico. Il Governo nazionale e locale offrirono incentivi fiscali e agevolazioni alle aziende disposte a investire nella regione. Le autorià locali supportarono i programmi di formazione e offrirono sussidi per incentivare l’impiego nei nuovi settori. Le università e centri di ricerca collaborarono con le aziende per sviluppare percorsi formativi adeguati alle esigenze di un’economia basata sulla conoscenza. I sindacati, garanti di una transizione equa, contribuirono a negoziare pacchetti di formazione e riqualificazione per i lavoratori, oltre a garantire il supporto finanziario nei periodi di transizione.

Creazione di un ecosistema innovativo

Per evitare che la regione dipendesse nuovamente da un singolo settore o grande impresa, le autorità locali collaborarono alla creazione di un ecosistema innovativo con l’obiettivo di sviluppare e sostenere start-up e PMI nei settori della tecnologia e dei servizi avanzati. In questo contesto, sono stati istituiti incubatori di impresa e acceleratori per stimolare l’imprenditorialità e attrarre investitori internazionali. In parallelo, le infrastrutture del vecchio sito produttivo furono riutilizzate e adattate per ospitare nuovi laboratori di ricerca, spazi per uffici e hub di innovazione. Questo favorì l’integrazione di diversi attori in un’unica area, promuovendo sinergie e un continuo scambio di conoscenze.

Gli esempi italiani di Trento e Napoli, pur distinti, condividono con Norrköping la necessità di pianificare una riconversione produttiva. Ma l’approccio svedese rappresenta una strategia completa per affrontare la deindustrializzazione, che unisce l’impegno della proprietà, delle istituzioni e della comunità locale. Gli attori della crisi attuale possono trarre ispirazione da questo modello per implementare una reindustrializzazione che non solo rilanci l’occupazione, ma prepari il territorio a nuove sfide economiche e tecnologiche, trasformando la crisi in un’opportunità per guidare una transizione verso un’economia della conoscenza.

“La cosa più importante da sapere sull’informazione è che l’informazione non è verità, che l’informazione non è conoscenza. C’è una visione ingenua dominante in luoghi come la Silicon Valley che ritiene erroneamente che l’informazione sia verità. La verità è un sottoinsieme eccezionale, una categoria rara, dell’informazione. La verità è costosa. La verità è spesso complicata. Perché la realtà è complicata, mentre la finzione può essere semplificata a piacimento e le persone spesso preferiscono storie semplici a storie complicate. E la verità è spesso dolorosa. L’aspettativa è che se il mondo è inondato da informazioni, la verità venga a galla. No, la verità affonda”, Yuval Noah Harari.





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