La legge di bilancio impone la presenza di un rappresentante del ministero dell’Economia nel collegio sindacale o nell’organo di revisione di tutte le imprese che beneficiano di aiuti pubblici superiori ai 100 mila euro, “anche in modo indiretto e sotto qualsiasi forma”. L’obiettivo che ci sembra di intuire dietro la norma è condivisibile: esercitare un controllo più stringente sul modo in cui vengono impiegati fondi comunque provenienti dal borsellino del contribuente, ponendo in essere un disincentivo per le aziende e gli enti che ne fanno richiesta senza darsi troppi pensieri. Lo strumento prescelto appare sia sproporzionato, sia male indirizzato. A meno che l’intenzione del governo non sia quello di dare un giro di vita alle società parastatali: ma, in tal caso, la norma è scritta male e va corretta.
Assumendo invece che il provvedimento intenda davvero quello che dice, bisogna anzitutto rilevare che centomila euro possono essere una cifra molto grande o molto piccola: dipende dalle caratteristiche di chi li riceve. In Italia, lo ricordiamo, il 95 per cento delle imprese ha meno di dieci addetti e un fatturato medio di poco superiore ai 200 mila euro. Un’impresa con un giro d’affari di poche centinaia di migliaia di euro è dunque fortemente dipendente da un contributo del genere, una più grande ne risente molto meno: tanto più che un’interpretazione letterale della norma lascia intendere che si riferisca non solo agli aiuti di Stato in senso stretto, ma anche ad altre forme di benefit fiscali quali crediti d’imposta o addirittura garanzie sui finanziamenti. Trattare allo stesso modo situazioni così diverse è difficilmente giustificabile. Oltre tutto, queste norme andrebbero viste alla luce degli obblighi effettivi di presenza del collegio sindacale per le società. Se il fine è quello di controllare non potranno farlo se la società non ha obbligo di avere il collegio sindacale, e ciò prescinde da quanti contributi pubblici ottiene.
A ogni modo, il numero di imprese potenzialmente coinvolte è enorme, soprattutto tra quelle di maggiori dimensioni: secondo il registro nazionale degli aiuti, sono 380 quelle che hanno ricevuto aiuti di Stato notificati di entità pari ad almeno 100 mila euro. Ma se si considerano anche le altre forme di aiuto “diretto o indiretto” la norma potrebbe raggiungere migliaia di aziende. Il che solleva molte questioni pratiche: davvero il Mef dispone di tutti questi funzionari da adibire al controllo dell’attività di società private, e pronti a redigere ogni anno un rapporto per la Ragioneria generale dello Stato? E la Ragioneria ha tempo e modo di esaminare tali rapporti? Per farne cosa? Tra l’altro, poiché la remunerazione dei sindaci o dei revisori è ovviamente a carico dell’azienda, sorge quasi il sospetto che uno degli obiettivi sia quello di scaricare sulle imprese una sorta di integrazione salariale per i dipendenti del Mef.
Quando a Luigi Einaudi, allora Presidente della Repubblica, venne messa sotto gli occhi una proposta di riforma dello statuto dell’Iri, in cui c’era la locuzione “secondo criteri economici e sociale”, egli suggerì di eliminarle. La giustapposizione di quelle parole esprimeva concetti fra loro contraddittori. Analogamente, una presenza all’interno di aziende private che suggerisca una qualche regia pubblica farebbe lo stesso: potrebbe potenzialmente convogliare le decisioni di produzione in una direzione diversa dal mero “criterio economico”. Chi prende il denaro del re canta la canzone del re? C’è una logica ma spesso pericolosa, perché, appunto, la “direzione” politica può sviare le imprese dagli obiettivi economici, rendendole così nel lungo termine ancora più dipendenti da eventuali aiuti.
C’è una speranza, che immaginiamo sia la stessa dell’esecutivo. A causa di questa norma, molti imprenditori potrebbero essere indotti a fare a meno dei denari dei contribuenti. Forse è questo il reale obiettivo del Mef, vista la pericolante situazione delle finanze pubbliche. È più che condivisibile. Ma sarebbe meglio prendere la via maestra e tagliare le agevolazioni, anziché seguire questa strada tortuosa che ha come contropartita l’inserimento di vigilantes statali all’interno degli organi aziendali. È vero che in Italia la linea più breve fra due punti è spesso l’arabesco, ma minacciare di appropriarsi di un membro del collegio sindacale per ottenere in cambio meno richieste di aiuto è troppo persino per le menti più tortuose.
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