Secondo l’Istat sono 2,2 milioni le famiglie (pari all’8,4% del totale) e in totale 5,7 milioni le persone che in Italia vivono in condizioni di povertà assoluta. Tra loro oltre 1 milione e 295mila sono minori. L’intervento di Francesco Provinciali, già dirigente ispettivo Miur e Ministero della Pubblica istruzione
C’è un Paese che cresce e ce n’è uno che arranca. I dati dell’indagine Istat sulla situazione economica dei cittadini italiani e dei nuclei familiari nel 2023 conferma sostanzialmente la rilevazione effettuata l’anno precedente e il quadro che era emerso dall’ultimo rapporto della Caritas.
Questo nonostante l’andamento positivo del mercato del lavoro nel 2023 (+2,1% di occupati in un anno), registrato anche nei due anni precedenti, poiché l’impatto dell’inflazione ha frenato la possibile riduzione dell’incidenza di famiglie e individui in povertà assoluta.
Nel 2023, la lievitazione dei prezzi al consumo è risultata, infatti, ancora elevata (attestandosi ad un +5,9%) ed è di tutta evidenza che ciò ha inciso negativamente in particolare sulle famiglie meno abbienti. A conti fatti si stimano 2,2 milioni di famiglie (pari all’8,4% del totale) e in totale 5,7 milioni di persone (corrispondenti al 9,7% della popolazione residente) che vivono in condizioni di povertà assoluta.
Per calcolare il livello oltre il quale le condizioni economiche di vita sono comprese entro una cornice definita di povertà assoluta si tiene conto di alcune variabili che concorrono a determinare un quoziente reddituale individuale e familiare: il tipo di lavoro, la sua stabilità nel corso dell’anno, ovvero la condizione di precarietà fino alla disoccupazione, la composizione del nucleo domestico (le famiglie numerose sono tendenzialmente penalizzate), la misura dei trattamenti previdenziali (con evidente incidenza delle pensioni minime, specie per chi vive da solo), le consuetudini alimentari rilevabili dal carrello della spesa, i livelli di istruzione raggiunti e quelli perseguibili in relazioni ai costi della formazione scolastica, le spese per la casa (affitto – che riguarda il 46.5% del totale – bollette, mutui laddove sono sostenibili ma erodono il potere d’acquisto di ciò che diventa insostenibile o superfluo), le variabili territoriali e geografiche.
Nella classificazione dei livelli di povertà, l’Istat individua anche una fascia intermedia tra la povertà assoluta e le condizioni di sostenibilità: si tratta della cd. “povertà relativa”. Secondo l’Istituto di statistica “sono classificate come assolutamente povere le famiglie con una spesa mensile pari o inferiore al valore della soglia di povertà assoluta (che si differenzia per dimensione e composizione per età della famiglia, per regione e per tipo di comune di residenza), mentre sono considerate povere relative le famiglie che hanno una spesa per consumi pari o al di sotto di una soglia di povertà relativa convenzionale (linea di povertà).
Le famiglie composte da due persone che hanno una spesa mensile pari o inferiore a tale valore sono classificate come povere. Per famiglie di ampiezza diversa il valore della linea si ottiene applicando un’opportuna scala di equivalenza, che tiene conto delle “economie di scala realizzabili all’aumentare del numero di componenti”.
Significativo il dato relativo all’incidenza di povertà relativa individuale che arriva al 14,5% dal 14,0% del 2022, coinvolgendo quasi 8,5 milioni di individui.
La sostanziale conferma dei dati circa gli indici di povertà degli ultimi due-tre anni depone per il consolidamento di una sorta di ‘zoccolo duro’ che rimuove o vanifica la teoria del cd. ‘ascensore sociale’: una metafora sociologica che inchioda al piano terra chi era povero e povero rimane.
Ci sono nel Rapporto – in estrema sintesi – diverse forbici che si divaricano avvalorando la narrazione del benestante o del ricco che rafforzano il proprio status mentre – di converso – i poveri restano tali o non riescono ad affrancarsi dalla condizione di povertà.
Lo “zoccolo duro” – come lo definisco leggendo i dati – comprime anche iconograficamente verso il basso chi sta sotto la soglia di povertà: non è un buon segnale, questo assestamento-consolidamento di stato perché indice di un gap che resta incolmabile. Non sono certo i bonus e le mance in grado di affrancare dalla fatica di vivere chi deve lottare quotidianamente per mettere insieme il pranzo con la cena.
L’immagine di un Paese proiettato verso il New Deal, la transizione ecologia e la panacea della digitalizzazione pervasiva e risolutiva resta appannaggio di imbonitori, affabulatori e contaballe. Solitudine e umiliazioni affliggono milioni di persone perché non esiste il povero felice.
Le forbici che si allargano in tema di povertà riguardano come sempre il Sud nei confronti del Nord, le famiglie numerose, la correlazione tra livelli di istruzione raggiunti o perseguibili (come fattori di riscatto sociale), i valori apicali nella povertà assoluta tra gli stranieri (che aprono a una necessaria riflessione sulle politiche migratorie in relazione alla conservazione della dignità personale e sociale: nel 2023 si contano oltre 1,7 milioni di stranieri in povertà assoluta, con un’incidenza individuale pari al 35,1%, oltre quattro volte e mezzo superiore a quella degli italiani (7,4%), la stabilità e la remunerazione del lavoro che resta il maggior volano del possibile benessere (il termine agiatezza non si usa più e riguarda un target di lobby anche professionali) ma anche il fattore più devastante della precarizzazione esistenziale.
Ma c’è un dato nel Rapporto che divarica in misura marcata la forbice della povertà e che riguarda i minori: nel 2023, la povertà assoluta in Italia interessa oltre 1 milione e 295mila minori (13,8% rispetto al 9,7% dell’intera popolazione a livello nazionale). Credo sia questo il dato più negativo emergente e in crescita, il fatto nuovo più preoccupante poiché interessa il 12,4% delle famiglie italiane.
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