Nuoro Fu un 2023 da incubo fatto di abusi sessuali, maltrattamenti e violenze fisiche. Per quei giorni da inferno è stato condannato a nove anni e due mesi un 28enne di un paese della Barbagia (non indichiamo luoghi e nomi dei protagonisti della vicenda per tutelare la parte offesa, ndr) finito prima in carcere, poi ai domiciliari e infine in tribunale con la triplice accusa per la quale rischia ora di tornare dietro le sbarre. L’imputato ha negato tutto, ma a inchiodarlo sono state le testimonianze della vittima e anche quelle molto stentate e spesso farcite di «non ricordo» di compaesani e persino parenti del ragazzo. In alcuni casi c’è stato bisogno di ricorrere alle deposizioni raccolte dagli inquirenti durante le indagini e di utilizzare i verbali di quegli interrogatori. Alla fine le prove sono state ritenute evidenti dal collegio del tribunale di Oristano, composto dai giudici Silvia Palmas, Marco Mascia e Cristiana Argiolas, di fronte ai quali si è svolto il processo per competenza territoriale.
È stato dapprima il pubblico ministero Sara Ghiani, che aveva a rimettere ordine ai fatti in questa vicenda che inizia con una richiesta di aiuto e gli immediati accertamenti delle forze dell’ordine. È di fronte a loro che la ragazza poco più che ventenne si apre e rivela tutto. Il racconto inizia dalle violenze sessuali, ma è difficile scindere i fatti in questo processo perché anche i maltrattamenti, le continue vessazioni, i pedinamenti e le parole pesanti sembrano avere tutte un’unica origine: la volontà di dominare il rapporto da parte dell’imputato che mal sopportava il fatto che la compagna lavorasse in un bar e desse confidenza ai clienti o si vestisse con abiti che lui non riteneva consoni. I due erano conviventi e proprio in casa sarebbero avvenuti gli abusi a cominciare dal più grave commesso nell’aprile del 2023 quando, dopo aver afferrato la fidanzata, il compagno l’avrebbe obbligata ad avere un rapporto sessuale.
I primi maltrattamenti fisici e psicologici sarebbero legati al precedente episodio e successivamente avrebbero visto numerosi atti di sopraffazione a cominciare dai calci per arrivare agli schiaffi ai colpi alla testa e al torace. L’aveva anche afferrata per il collo e l’aveva quindi trascinata per le scale così da impedirle di fuggire di casa. Qualche mese più tardi l’aveva minacciata di morte impugnando un’ascia o altre volte un coltello a serramanico. Persino il lavoro era diventato un elemento di ricatto: il ragazzo prometteva che sarebbe andato nel bar a fare scenate contro di lei e contro gli avventori che a lei si rivolgevano, così da farle perdere il posto. Quelle non erano però solo parole vuote. Fuori dal bar infatti la situazione non cambiava di molto. Per le strade i pedinamenti sarebbero stati continui, così come le incursioni nel locale condite da insulti e insinuazioni su possibili relazioni che la ragazza intrattenesse coi clienti. I controlli non si limitavano al controllo del percorso che la ragazza compiva. Anche il telefonino diventava un problema e messaggi ed elenco chiamate venivano spesso tenuti sott’occhio. La paura di ripercussioni, la dipendenza affettiva e i metodi violenti avrebbero reso molto vulnerabile la vittima che, per mesi, scelse di non esporsi e di non denunciare il compagno. Alla fine, compì il passo che ha portato il processo.
La sentenza si porta dietro anche altre conseguenze: alla ragazza, che si è costituita parte civile assistita dall’avvocata Manuela Cau, andranno risarciti i danni e, per ora, ci si limita 6mila euro di provvisionale, mentre l’entità finale è rimandata alla successiva causa. E l’imputato? Assistito dall’avvocata Martina Cocco, ha provato ad allontanare da sé ogni accusa, negando che i fatti narrati dalla compagna fossero veri o che, in alcune occasioni, fossero stati gonfiati nel momento in cui furono raccontati nel verbale di querela. La fragilità psicologica della ragazza è stata ritenuta artefatta e le testimonianze alquanto tentennanti sarebbero state la prova che i reati contestati non avrebbero poggiato su fatti realmente accaduti o perlomeno non nella forma in cui sono stati ricostruiti. Non è bastato ed è arrivata la condanna a nove anni e due mesi.
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