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Cosa può fare il debitore se cade il titolo in base al quale il creditore aveva agito? Può bloccare l’esecuzione forzata e avere il risarcimento dei danni?

Nel mondo del diritto, non esistono “sacri testi”, come la Bibbia o il Vangelo. Così non è detto che una carta, per il solo fatto che è bollata, firmata da un avvocato o recapitata da un ufficiale giudiziario, abbia un valore assoluto. Ci sono, certo, delle formalità da rispettare perché un atto concreto abbia il valore che la legge gli conferisce astrattamente, ma il rispetto delle forme non basta, occorre anche la sostanza. Questo fenomeno dell’apparente validità di alcuni atti si manifesta soprattutto nelle procedure di esecuzione forzata, quando i beni del debitore vengono pignorati e prelevati coattivamente per essere venduti all’asta o assegnati al creditore. Ma

quando un pignoramento diventa illegittimo? E cosa può fare il debitore in tali casi?

Ogni pignoramento deve “poggiare” su un titolo esecutivo che lo consente, come una sentenza o un decreto ingiuntivo non opposto. Il problema si verifica quando c’è un titolo che inizialmente consente di avviare l’esecuzione forzata ma poi, per le successive vicende processuali, viene caducato e così perde la sua efficacia. Pensa a una sentenza di condanna che viene riformata in appello o ad un’opposizione a decreto ingiuntivo finalmente accolta. In tali casi, il creditore potrebbe già aver intrapreso l’esecuzione forzata e allora il debitore può “vendicarsi”, opponendosi legittimamente a ciò in modo da conservare i propri beni e, talvolta, se il creditore non si ferma ed ancora insiste, chiedendo anche un risarcimento dei danni per lite temeraria. Una nuovissima sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite [1] ammette queste possibilità.

Esecuzione forzata: quando e come?

L’

esecuzione forzata è il procedimento giudiziario previsto per soddisfare i diritti del creditore che sono già stati affermati in un provvedimento del giudice di cognizione, come una sentenza di condanna al pagamento di somme, o risultano da documenti già di per sé dotati di efficacia esecutiva, come l’assegno o la cambiale [2].

L’esecuzione si chiama forzata perché avviene in forma coattiva, cioè a prescindere dalla volontà del debitore che non aveva adempiuto spontaneamente al pagamento o alla diversa prestazione dovuta in favore del creditore.

In concreto, l’esecuzione forzata può avvenire:

  • in forma specifica, quando il bene da acquisire da parte del creditore coincide con quello dovuto dal debitore (ad esempio, un immobile da restituire o un oggetto da consegnare) e si realizza con la consegna o il rilascio del bene [3];
  • mediante espropriazione, quando si tratta di una somma di denaro già stabilita in partenza o di un bene che può essere convertito in un ammontare monetario; il caso più comune è quello del pignoramento, cui segue la vendita giudiziaria di un bene mobile o immobile, affinché il creditore possa soddisfarsi sul ricavato.

Per procedere all’esecuzione forzata è necessario che il creditore sia munito di un

titolo esecutivo (come una sentenza, un’ordinanza di convalida di sfratto o un decreto ingiuntivo) che deve essere notificato al debitore, tramite l’apposito atto di precetto, intimandogli un termine di 10 giorni per pagare spontaneamente e avvisandolo che altrimenti si procederà all’esecuzione forzata.

Pignoramento: come opporsi?

L’esecuzione forzata viene intrapresa, quando l’ordine del precetto resta inadempiuto e alla scadenza del termine intimato, con il pignoramento dei beni, mobili o immobili, del debitore, che tendenzialmente deve rispondere dei debiti con il suo intero patrimonio: quindi, è possibile pignorare, a determinate condizioni, le case di sua proprietà, i suoi conti correnti ed anche le somme che altri soggetti devono versare al debitore, come gli stipendi o le pensioni (leggi qui per sapere quali beni possono essere pignorati ed invece cosa non può essere pignorato). È il creditore a scegliere cosa pignorare, nei limiti del novero dei beni consentiti dalla legge. L’atto di pignoramento deve essere sempre notificato al debitore.

Il debitore che contesta il diritto del creditore all’esecuzione forzata può proporre al tribunale competente, con l’assistenza di un avvocato, un’opposizione all’esecuzione [4] oppure soltanto agli atti esecutivi [3], se ne contesta specificamente qualcuno, come il precetto e/o un pignoramento, anziché la legittima procedura nel suo complesso (in questo caso, c’è un termine perentorio di 20 giorni dalla notifica dell’atto).

In entrambi i casi, il debitore dovrà esporre le ragioni su cui l’opposizione si fonda. Il giudice potrà sospendere l’efficacia del titolo esecutivo, ma solo se ricorrono «gravi motivi». Si avvia, così, un subprocedimento interno al processo già in corso, nel quale il giudice dovrà accertare la legittimità o meno dell’esecuzione o dei singoli atti esecutivi. Questo può portare anche alla caducazione del titolo esecutivo di cui il creditore era munito: così l’intera costruzione su cui era stata avviata l’azione esecutiva crolla e l’espropriazione non può essere proseguita.

Pignoramento illegittimo: quando?

Nella sentenza che ti abbiamo anticipato all’inizio [1], le Sezioni Unite della Cassazione si sono occupate della questione dell’illegittimità del pignoramento, non originaria (che sarebbe un caso semplicissimo da risolvere) bensì sopravvenuta, in quanto il titolo esecutivo su cui esso si fondava è venuto meno.

La Suprema Corte ha affermato che il pignoramento è illegittimo quando viene eseguito dal creditore «senza la normale prudenza»: ciò si verifica quando egli ha agito sulla base di un titolo giudiziale non definitivo e che poi è stato annullato da un successivo provvedimento del giudice, come nel caso in cui l’opposizione al decreto ingiuntivo venga accolta.

Pignoramento imprudente e risarcimento danni

Quando si verifica un caso di pignoramento imprudente e dunque illegittimo, il debitore ha diritto ad ottenere il risarcimento dei danni subiti ad opera del comportamento del creditore. Ciò può avvenire attraverso una pronuncia di condanna del creditore per lite temeraria

[5].

Il risarcimento danni per lite temeraria rappresenta un caso di «responsabilità aggravata» di colui che ha avviato, o proseguito, una causa in malafede e con colpa grave, come, appunto, avviene quando un creditore, pur rendendosi conto che il proprio titolo esecutivo è caduto, continua la procedura di espropriazione forzata che aveva iniziato sulla base di un titolo in quel momento valido ed efficace, ma adesso non più tale.

Secondo quanto ha affermato la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, in tali casi il debitore ha tre modi per agire e formulare la richiesta di risarcimento danni per lite temeraria, che il giudice liquiderà in sentenza:

  • in sede di cognizione, cioè nel giudizio in cui si era formato il titolo in base al quale il creditore ha agito in via esecutiva, se la causa di cognizione risulta ancora pendente, come nel caso dell’opposizione accolta avverso un decreto ingiuntivo o di una sentenza riformata;
  • davanti al giudice dell’esecuzione presso il quale è stata spiegata opposizione, se nel precedente giudizio di cognizione erano maturate preclusioni processuali o se il titolo esecutivo era di formazione stragiudiziale, come una cambiale o un assegno, e dunque il giudizio di cognizione non poteva svolgersi;
  • in un giudizio autonomo, dunque a prescindere dai precedenti processi svoltisi, se è impossibile esercitare l’azione nei modi previsti dai due casi precedenti.

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