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La crisi pandemica che sta scuotendo l’intero panorama internazionale, sembra aver riportato alla luce pratiche odiose come quelle dello “sciacallaggio”, rispetto alle quali il diritto penale non può mostrarsi indifferente.

Trattasi infatti di condotte poste in essere da parte di individui che riconoscono nel contesto emergenziale derivante dalla crisi pandemica da Covid-19 un’occasione criminale, ossia un contesto di cui approfittare per delinquere e lucrare agevolmente.

Ma proseguiamo per gradi.

La pandemia scatenatasi a partire dai primi mesi del 2020, come ogni evento catastrofico, sembra accentuare il divario esistente all’interno delle comunità, ad esempio in termini di disuguaglianze[1], e definire perciò in modo più nitido varie categorie all’interno del tessuto sociale; sono in particolare due le categorie di persone che interessano ai nostri fini: quella delle vittime vulnerabili da una parte, e quella dei criminali che si approfittano delle condizioni di minorata difesa[2] dei primi, quale risultato del contesto emergenziale, dall’altra. 

La cronaca ci informa che i secondi sfruttano questo drammatico momento storico per porre in essere reati di varia natura a danno soprattutto dei soggetti vulnerabili rientranti nella prima categoria: truffe, specie via internet ad opera di sedicente istituti clinici; messa in vendita di mascherine, gel, guanti e corredi per la diagnosi del SARS-CoV-2 con caratteristiche ingannevoli per i compratori; richieste di allontanarsi dalle case per favorire i furti nelle stesse; fittizie raccolte di fondi a beneficio delle vittime dell’epidemia; ingresso con uniformi e tesserini falsi nelle abitazioni per effettuare tamponi o raccogliere contributi per poi depredare le povere vittime; ma anche mascherine vendute a prezzi stratosferici, costi di beni di prima necessità (a partire da alcuni prodotti alimentari) alle stelle, insostenibili tariffe per celebrare funerali, avvocati senza ritegno che promettono facili risarcimenti in cause contro i medici o personale sanitario intentate dai parenti di malati o vittime del Covid-19; insomma, è piuttosto varia la fantasia criminale degli sciacalli al tempo del Corona virus.

Crescente è inoltre il rischio di infiltrazioni criminali da parte di organizzazioni che, approfittando della farraginosità dell’apparato burocratico, agiscono in anticipo rispetto allo Stato e, attraverso il radicamento sul territorio, possono trovare nuove occasioni per svolgere attività usurarie e per rilevare o infiltrare imprese in crisi con finalità di riciclaggio[3].

Le dinamiche che regolano il periodo pandemico sono in astratto analoghe a quelle che vigevano in tempi di guerra: pur essendo evidenti le differenze sul piano politico e giuridico intercorrenti tra una guerra e una calamità naturale, sia pure essa una epidemia disastrosa, larga parte della pubblica opinione considera l’attuale epidemia alla stregua di un evento bellico[4].

L’analogia che interessa ai nostri fini è rintracciabile nell’indubbio maggior disvalore delle condotte consumate in simili momenti storici.

Gli atti di sciacallaggio, alla stregua di tutte le altre condotte criminali realizzate in particolari periodi storici, sono intrinsecamente carichi di quel senso di ripulsa che ne comporta un appesantimento del disvalore penale; è infatti opinione diffusa che gli autori di simili reati meritino di essere senz’altro puniti più severamente di quanto non avverrebbe in tempi normali e, la maggior gravità della punizione, attualmente è interamente assorbita nella previsione dell’art. 61, co.1, n. 5 c.p.

Nel caso di un’azione criminale posta in essere in piena pandemia infatti, l’approfittamento alla base di essa, sembrerebbe integrare tutte le circostanze di tempo, luogo e persona inquadranti il presupposto della minorata difesa (più corretto perciò un generico riferimento a circostanze definibili di contesto): risulterà integrato il presupposto soggettivo in quanto il reo si approfitta dell’individuo doppiamente vittimizzato, sia dallo stato di bisogno, o dalle condizioni di vulnerabilità nelle quali versa a causa del particolare periodo storico in corso, sia vittima del disegno criminale del reo; risulta integrato il presupposto inerente alla circostanza di tempo, inteso nella sua accezione più ampia, perché è indubbio che il compimento del reato, consumatosi in quel particolare lasso temporale, risulti oggettivamente agevolato dall’eccezionalità della crisi di cui il reo si approfitta; altresì è integrato il presupposto inerente al locus commissi delicti in quanto il reo abbia operato proprio nelle zone maggiormente dilaniate dalla crisi.

La risposta punitiva del nostro ordinamento sembra tuttavia non esaurire adeguatamente e proporzionalmente il grande disvalore penale di tali comportamenti. Infatti, l’applicazione dell’aggravante della minorata difesa prevista all’art. 61, n. 5, non fotografa in modo adeguato il disvalore sociale degli approfittamenti in questione: l’aggravante comporterebbe intanto un aumento della pena solo fino ad un terzo; inoltre, trattandosi di semplice circostanza aggravante, potrebbe considerarsi compensata da una attenuante e rimanere addirittura disapplicata in concreto; stesso discorso in riferimento alle aggravanti speciali e ad effetto speciale di analogo tenore, come ad esempio quella prevista in tema di truffa dall’art. 640, comma 2, n. 2 bis.

È evidente come il grado di disvalore presente in tali fattispecie appare perciò eccedere la quantità della pena.

Un’interessante soluzione avanzata da parte della dottrina per una corretta corrispondenza tra il grado di disvalore complessivo e la misura della pena sarebbe quella di «introdurre una circostanza comune ad effetto speciale e non bilanciabile, in quanto espressiva di un diverso grado di illiceità irrinunciabilmente sancito dal legislatore e pertanto non intaccabile dalla eventuale compresenza di circostanze attenuanti. Una siffatta circostanza, che andrebbe prevista con la massima sollecitudine e che potrebbe eventualmente applicarsi solo nei casi in cui sia stato dichiarato lo stato di emergenza, presenterebbe il duplice vantaggio di rispecchiare l’esigenza retributiva connaturata alla proporzionalità della pena e ad assolvere quella funzione generalpreventiva che può offrire solo un elemento “accidentale” del reato escluso a priori da ogni giudizio di bilanciamento, come tale destinato a influire in modo decisivo non solo sul momento commisurativo della pena, ma anche su tutta una serie di situazioni capaci di condizionare nel profondo la vicenda processuale e il livello di afflittività del suo esito» (V. A. BERNARDI, Il diritto penale alla prova della COVID-19, in Dir. pen. proc., 2020, pp. 451 e ss).

Ciò detto, l’attuale situazione di emergenza sanitaria espone l’ordinamento a rilevanti rischi di comportamenti illeciti non solo nei confronti di vittime vulnerabili, ma anche di condotte di approfittamento ai danni del sistema economico-finanziario dello Stato.

A fronte dei drammatici effetti economici dell’emergenza Covid-19, uno dei principali strumenti impiegati dal legislatore del welfare per sostenere tutto il sistema produttivo nazionale, è stato quello di prevedere crediti a condizioni particolarmente vantaggiose per imprese e liberi professionisti agevolandone il processo di erogazione[5].

Non disponendo poi di tutte le risorse necessarie a un piano di sostegno globale, il Governo, accanto a somme di denaro elargite direttamente dallo Stato, ha previsto misure di rapida immissione di liquidità nel sistema economico dalle banche e dagli intermediari finanziari (Sace s.p.a e del Fondo centrale di garanzia per le piccole e medie imprese) attraverso la concessione di garanzie pubbliche [il d.l. 8.4.2020 n. 23, c.d. “decreto liquidità” prevede la concessione automatica (senza delle valutazioni preventive) e gratuita di finanziamenti fino a 30.000 euro erogati a favore di piccole e medie imprese e liberi professionisti la cui attività d’impresa risulta danneggiata dall’emergenza Covid-19, coperti dalla garanzia totale (100%) del Fondo centrale di garanzia per le piccole e medie imprese. In secondo luogo, è stato previsto che il Fondo conceda una garanzia fino al 90% a titolo gratuito, fino a 5 milioni di euro, per imprese che abbiano un massimo di 499 dipendenti. Infine, è previsto che il SACE (una società per azioni specializzata nel settore assicurativo e finanziario del gruppo Cassa Depositi e Prestiti) rilasci garanzie a titolo oneroso, dal 70 al 90% a seconda delle dimensioni dell’impresa beneficiaria, con una procedura semplificata per tutte le imprese con non più di 5.000 dipendenti e fatturato fino a 1,5 miliardi di euro]. Il sistema bancario è risultato però incerto sulla logica da seguire nell’erogazione: quella “garantista”, cioè sulla accurata valutazione dei presupposti in ordine al ricevimento del denaro e sull’affidabilità della restituzione prima dell’erogazione stessa, ovvero quella orientata alla celerità[6].

L’impellenza di simili aiuti economici elargiti in generale ad ampissime[7] categorie di popolazione, provoca pertanto una serie di difficoltà in ordine al controllo capillare circa la legittimità delle richieste avanzate dai consociati, spesso sostituita dal rilascio di una mera autocertificazione[8] da parte del soggetto richiedente: il rischio è quello per cui la concessione dei crediti senza particolari formalità burocratiche, contribuisca al proliferare di condotte di sviamento e appropriazione penalmente rilevanti sia nella fase di accesso al credito che in quella di utilizzo delle risorse.

Nella prima fase, gli abusi si sostanziano in «condotte fraudolente tese a ottenere il finanziamento con garanzia pubblica in mancanza o in violazione dei presupposti stabiliti dalla normativa, mediante l’alterazione o la falsificazione della documentazione necessaria ovvero in violazione delle norme che ne disciplinano l’erogazione», integrando «ipotesi di mendacio bancario e reati di falso, nonché fenomeni di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e di indebite percezioni a danno dello Stato[9]»; quanto, invece, alla seconda fase, quella di effettivo utilizzo dei finanziamenti erroneamente erogati, in particolare di quelli accompagnati da un vincolo di scopo, si è raccomandato di prestare attenzione alla loro destinazione «poiché potrebberorintracciarsi sospetti di malversazioni a danno dello Stato e attività distrattive collegate anche a reati societari e fallimentari[10]».

Appare tuttavia inevitabile in virtù dell’esigenza di celerità ed urgenza imposta dal contesto, una maggior esposizione a simili condotte criminali nonché la necessaria accettazione di un più alto rischio di approfittamenti da parte del privato[11]: l’uso stesso dell’autocertificazione è indice del tentativo di velocizzazione della procedura per la concessione del finanziamento, visto l’alleggerimento degli obblighi di controllo degli enti erogatori che allo stesso tempo contribuisce alla creazione di un contesto più esposto a condotte di approfittamento.

Lo schema è chiaro: un soggetto richiedente, pur non soddisfando i requisiti minimi di accesso ai fondi statali, omette o falsifica una serie di informazioni, così da plasmare il proprio status in maniera conforme agli standard previsti per l’erogazione, riuscendo dunque ad ottenerne l’accesso; la realizzazione dello scopo illecito risulta agevolata da molteplici fattori inerenti sia alla grossa mole di richieste avanzate dai cittadini, sia anche dall’urgenza dell’erogazione stessa incompatibile con un controllo analitico su ciascuna di esse, di cui il reo si approfitta.

Sono varie le fattispecie penali che potrebbero essere integrate da simili condotte.

Non sussistono intanto grandi dubbi sul delitto di falsità ideologica commessa dal privato[12] che risulterebbe integrato ogniqualvolta si dimostri che il beneficiario abbia fornito all’ente erogatore, false informazioni in ordine ai presupposti per la concessione dei fondi; alla stregua del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità[13], il delitto in esame è configurabile nei soli casi in cui sussista una specifica norma giuridica che affidi all’atto falsato la funzione di attestare la veridicità delle informazioni in esso contenute e rilasciate dal privato, sul quale grava l’obbligo di affermare il vero. Nel caso di specie, la norma giuridica che fa sorgere in capo al richiedente l’obbligo di affermare il vero è quella sancita in tema di autocertificazione: ai sensi del d.P.R. 445/2000 infatti, le dichiarazioni contenute nell’autocertificazione si considerano come “fatte a un pubblico ufficiale” (art. 76, c. 3), con conseguente integrazione di una condotta penalmente rilevante del privato che si sottragga all’obbligo e falsi la propria richiesta.

La sanzione combinata alla condotta penalmente rilevante e consistente nel falsare il contenuto dell’autocertificazione, risulta inoltre inasprita dal combinato disposto degli art. 76 d.l. 445/00, 483 c.p. e la circostanza aggravante di cui all’art. 264, co. 2, n. 3, del d.l. n. 34/2020 (c.d. “decreto rilancio”); accanto alla conclamata finalità di dispiegare misure urgenti, garantire la massima semplificazione e la rimozione di ogni ostacolo burocratico all’accesso ai finanziamenti erogati dallo Stato, ovvero da questo garantiti, il legislatore dell’emergenza infatti ha previsto una circostanza aggravante con effetto speciale, priva di carattere transitorio, in grado di aumentare da un terzo alla metà la sanzione ordinariamente prevista dal codice penale, cercando così di armonizzare una maggiore esposizione a condotte abusive e la pressante esigenza di celerità. 

Tale disposizione, pur essendo introdotta successivamente ad altri decreti emanati nel periodo emergenziale, si configura quale “legge eccezionale e temporanea” ed in quanto tale in grado di applicarsi anche alle precedenti disposizioni atte a fronteggiare l’emergenza sanitaria, integrando entrambe le caratteristiche dell’art. 2, comma 5, c.p.[14].

Commette inoltre il delitto di mendacio bancario di cui all’art. 137, c. 1-bis, Testo unico bancario, il privato che «al fine di ottenere concessioni di credito per sé o per le aziende che amministra, o di mutare le condizioni cui il credito venne prima concesso, fornisce dolosamente a una banca notizie o dati falsi sulla costituzione o sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria delle aziende comunque interessate alla concessione del credito».

L’ottenimento degli aiuti ed il riconoscimento della garanzia in assenza dei presupposti di legge[15], ovvero la violazione dei vincoli di scopo cui il finanziamento è subordinato, sono condotte che sembrerebbero prima facie integrare fattispecie anche più gravi.

La prima ipotesi a venire in rilievo è quella descritta all’art. 316 ter c.p. rubricato “indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato”, che punisce chiunque ottenga un’erogazione statale mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute.

Invero le condotte illecite descritte nella fattispecie, risultano idonee ad intercettare solo una parte esigua delle possibili ipotesi criminali che questa fase pandemica sembrerebbe agevolare; infatti, affinché risulti integrato il reato di cui all’art. 316 ter c.p. è necessario che il reo abbia indebitamente conseguito contributi, finanziamenti o mutui agevolati concessi direttamente dallo Stato[16]; i fondi erogati nel contesto pandemico in realtà, presupponendo nella maggior parte delle ipotesi l’intervento di intermediazione bancarie, si distolgono dalla lettera delle fattispecie criminose dell’art. 316 ter c.p. e, a meno di un’interpretazione analogica[17], come tale non consentita, tali fattispecie non potrebbero ascriversi alle condotte descritte dalla norma in esame.

Stessa sorte per la fattispecie di cui all’art. 640 bis c.p.[18] il cui oggetto materiale è descritto dal legislatore per mezzo della stessa formulazione del delitto di cui all’art. 316 ter c.p.

L’esito rimane invariato anche in riferimento all’applicazione dell’art. 316 bis c.p. che si occupa della fase successiva alla concessione della garanzia, in riferimento a tutti quei fondi ottenuti con l’obbligo per il beneficiario di rispettare gli impegni assunti, tra cui, anzitutto, il vincolo di destinazione del finanziamento; la norma punisce chi, avendo ottenuto, dallo Stato o altro ente pubblico, contributi, sovvenzioni o altri finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività di pubblico interesse, non li destina alle predette finalità. L’applicazione dell’art. 316 bis c.p. pone non solo gli stessi problemi delle altre fattispecie, condividendone il limite di applicazione alle sole ipotesi in cui sia ravvisabile un’erogazione di fondi direttamente da parte dello Stato, ma anche quello della difficoltà di ravvisare nella concessione della garanzia sul credito, quale strumento per immettere liquidità nel sistema economico nazionale, un’iniziativa diretta «alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività di pubblico interesse»[19].

Tutte le condotte descritte, mentre sollevano dubbi in relazione al tipo di fattispecie in grado di attingerle, richiamano un’alta carica di disprezzo sociale in quanto percepite dall’opinione pubblica come truffe a danno del patrimonio dello Stato, acuite dal fatto che quello stesso denaro sarebbe destinato alle fasce di popolazione in stato di bisogno per far fronte a situazioni di disagio.

È altresì innegabile la forte presenza dell’approfittamento che accompagna il soggetto agente in tutta la consumazione della propria condotta e la fondatezza dunque, anche in questi casi, della possibilità di ravvedere gli estremi per la sussistenza della minorata difesa; infatti, il reo, riconosce nella situazione emergenziale (e in tutto ciò che ne dipende in termini di minori controlli all’accesso ovvero sul loro utilizzo in seguito all’effettuata erogazione) una circostanza di contesto adatta all’agevole compimento del proprio progetto criminale e se ne approfitta.

Ulteriore indice di riprovevolezza sta nel fatto che tali comportamenti evidenziano l’offesa ad una pluralità di beni giuridici: da una parte direttamente leso è lo Stato inteso come soggetto pubblico erogatore; dall’altra indirettamente risulta danneggiato ancora lo Stato ma personificato in tutti i privati che pur avendone il diritto sono risultati esclusi dagli aiuti[20] (sottraendo le risorse della collettività dalla loro destinazione, si finisce per creare un danno alle finanze pubbliche).

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Ibidem, p. 3.

Ai sensi dell’art. 640 bis c.p. “La pena è della reclusione da due a sette anni e si procede d’ufficio se il fatto di cui all’articolo 640 riguarda contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee”.

V. A. BELL e A. VALSECCHI, Finanziamenti garantiti dallo Stato: la disciplina dell’emergenza ridisegna (riducendola) l’area del penalmente rilevante per le imprese e le banche, in Sistema Penale, 6/2020, p. 105 e 106.

 

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