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La competenza e l’importante modifica del 2018 concernente l’entità della violazione

Il procedimento di revoca di una misura alternativa alla detenzione precedentemente concessa al condannato in via definitiva dal Tribunale di Sorveglianza competente per territorio ex artt. 656 comma 6 o 677 comma 1 c.p.p., a seconda che lo stesso fosse al momento della declaratoria favorevole rispettivamente libero o detenuto, è disciplinato dall’art. 51 ter O.P. (Legge del 26 luglio 1975 n. 354 riguardante l’ordinamento penitenziario e l’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) e compete alla Magistratura di Sorveglianza la quale, successivamente ad una violazione delle prescrizioni contenute nel provvedimento concessorio, dapprima sospende cautelativamente la misura con un decreto motivato di accompagnamento nel più vicino istituto detentivo dell’organo monocratico e successivamente con un’ordinanza eventualmente confermativa dello stesso da parte di quello collegiale che è di norma composto anche dal Magistrato che ha disposto la sospensione in via provvisoria (art. 70 comma 6 O.P. e Cassazione penale sez. 1, 3025/1993) dispone la cessazione del beneficio precedentemente accordatogli e gli impone di continuare ad espiare la pena in regime detentivo inframuario.

Con la modifica apportata dal Decreto Legislativo n. 123 del 2 ottobre 2018, il provvedimento che ha avuto negli ultimi anni maggiore incisività in materia di esecuzione della pena e di ordinamento penitenziario, è stata introdotta una sorta di gradualità della violazione ed il Magistrato di Sorveglianza non è più forzato ad emanare ipso iure il decreto motivato di sospensione della misura.

Inoltre con lo stesso il Legislatore ha frazionato il concetto in merito alla gravità della violazione commessa dal condannato che sta espiando la pena in regime alternativo scindendo in due commi l’art. 51 ter O.P. a seconda della stessa, sostituendo la locuzione :

  • pone in essere comportamenti tali da (determinare la revoca)

con quella di

  • pone in essere comportamenti suscettibili di(determinare la revoca)

Il termine attuale abbraccia diverse tonalità di gravità delle violazioni :

  • quelle talmente gravi da determinare inevitabilmente la sospensione provvisoria  e il conseguente immediato accompagnamento in istituto (ora comma 2 dell’art. 51 ter).
  • quelle propriamente suscettibili di determinare la revoca, a seguito delle quali il magistrato non sospende la misura la quale continuerà il suo corso e “ passa la palla “ al Tribunale di Sorveglianza che potrà decidere in base all’entità della violazione se sostituire, revocare la misura o se addirittura ritenerla irrilevante e optare per la prosecuzione della stessa.
  • quelle che rientrano in questi ultimi casi per le quali il Magistrato di Sorveglianza, invece di intraprendere la procedura di aggravamento, ab origine si limita ad un ammonimento, ad una diffida al puntuale rispetto delle prescrizione  la quale, pur non essendo normativizzata, è una procedura usuale nella prassi degli Uffici di Sorveglianza.

Il termine perentorio di 30 giorni e l’esigenza di concludere celermente la procedura

In seguito alla sospensione provvisoria della misura precedentemente concessa al condannato e soprattutto al suo accompagnamento in carcere lo stesso si trova in un limbo e la sua situazione non è definitiva ma è quella di un soggetto sospeso in via cautelare che è in attesa di una decisione confermativa sul suo status giuridico.

E’ facile comprendere come vi sia una rilevante esigenza di definire la procedura in tempi brevi in un senso o nell’altro come avviene ad esempio nella fase delle indagini preliminari in occasione della richiesta della convalida dell’arresto da parte del Pubblico Ministero al giudice delle indagini preliminari che dovrà fissare la relativa udienza entro un termine massimo di quarantotto ore dallo stesso secondo quanto disposto dai primi due commi dell’art. 390 c.p.p.

Tale improrogabile necessità è esplicativa di un ineludibile diritto ed attua in toto  il combinato disposto di due fondamentali principi costituzionali in materia di Giustizia ovvero l’inviolabilità della libertà personale se non perun fondato provvedimento dell’ A.G. e quello della ragionevole durata di un procedimento penale.

E’ in questo contesto che il comma 2 dell’art. 51 ter O.P. stabilisce che il decreto di sospensione perde efficacia ove la decisione collegiale non interviene entro trenta giorni dalla ricezione degli atti; occorre precisare che tale termine non inizia a decorrere dal momento in cui gli atti vengono trasmessi dalla cancelleria dell’Ufficio a quella del Tribunale di Sorveglianza ma da quello successivo con il quale si dà comunicazione dell’ingresso del condannato in istituto (Cassazione penale sez. 1, 6009/1995) essendo di fatto questo il momento in cui si conclude la  procedura “iniziale“ di sospensione della misura.

La giurisprudenza evidenzia inoltre che il termine perentorio di trenta giorni ha rilievo esclusivamente in relazione alla perdita di efficacia del decreto monocratico (Cassazione penale sez.1, 1403/1999).

Pertanto esso non interessa in alcun modo i tempi imposti  dall’organo collegiale per la procedura “finale “ in ordine all’eventuale revoca in meritoalla data fissata per l’udienza in camera di consiglio nell’ambito del relativo procedimento di sorveglianza ai sensi del combinato disposto degli artt. 678 e 666 c.p.p., alla successiva emissione dell’ordinanza ed al suo deposito in cancelleria.

Violazione commessa dal condannato definitivo in regime cautelare di arresti domiciliari in prosecutio

Peculiare e particolarmente delicata è la questione giuridica concernente il condannato in via definitiva a pena detentiva non superiore a quattro anni per delitti non gravissimi (o sei nel caso in cui gli stessi siano stati commessi in relazione ad uno stato di tossicodipendenza o alcooldipendenza ai sensi del Testo Unico sugli stupefacenti (D.P.R. n. 309 del 9 ottobre 1990) e contestualmente si abbia in corso un programma di recupero o si è seriamente motivati a intraprenderlo) che nel momento in cui la condanna è divenuta irrevocabile si trovi in regime cautelare di arresti domiciliari per lo stesso fatto e per il quale il pubblico ministero competente per l’esecuzione ne ordini la prosecuzione nella medesima posizione giuridica ai sensi dell’art. 656 comma 10 c.p.p.

Esistono sostanzialmente tre orientamenti sul punto in relazione alla possibilità o meno di applicare l’art. 51 ter in caso di violazione commessa dal medesimo:

3a)  La applicabilità

Si basa sulla perfetta equazione arresti domiciliari concessi in via definitiva ex art. 656 comma 10 c.p.p. = espiazione pena in regime di detenzione domiciliare

Tale assunto è stato elaborato principalmente in seguito alla corposa modifica del citato articolo del codice penale di rito ad opera della Legge 27 maggio 1998 n. 165, meglio nota come Legge Simeone, con l’introduzione in particolare dell’ultimo capoverso il quale, tramite l’espresso richiamo all’art. 47 ter O.P., riconosce la necessità di affidare l’esecuzione della misura degli arresti domiciliari al Magistrato di Sorveglianza come avviene per la misura alternativa della detenzione ex vinculis.

Per di più alcune decisioni della Suprema Corte sono orientate verso l’attribuzione della competenza funzionale a favore di tale ramo della Magistratura come ad esempio quella secondo la quale in tali casi la giurisdizione territoriale del Tribunale di Sorveglianza ai fini della concessione di una misura alternativa deve essere determinata con lo stesso criterio con il quale viene affidata la vigilanza al Magistrato di Sorveglianza ovvero secondo quanto disciplinato  dal comma 1 dell’art. 677 c.p.p. e cioè in base al luogo in cui si trova il condannato e ha iniziato la misura all’atto della richiesta (Cass. penale sez.1, 52994/2014) o al momento della trasmissione di ufficio dell’ordine di esecuzione in prosecutio e di altri eventuali atti da parte dell’ufficio del pubblico ministero competente nonostante l’art. 656 comma 6 attribuisca, in tutti i casi come quello in oggetto nei quali viene sospeso l’ordine di esecuzione, competenza speciale a quello che ha giurisdizione in relazione al luogo in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che lo ha emesso.

E’ una tesi minoritaria ma parzialmente condivisibile per le ragioni esposte.

3b)  La non applicabilità

Si basa sulla prevalente considerazione della genesi cautelare della misura da parte della giurisprudenza di legittimità che di conseguenza ritiene non possa applicarsi in via analogica la procedura di revoca, ritenendola esclusiva di una misura alternativa alla detenzione in senso stretto.

Questo orientamento si basa su un’analisi sviscerata della norma in oggetto attribuendo all’ordine di esecuzione emanato dall’ufficio inquirente ed alla sentenza irrevocabile del giudice sostanzialmente una duplice finalità giuridica:

  • quella di eseguire una pena detentiva
  • quella di confermare e dare esecuzione definitiva ad una precedente ordinanza cautelare adottata dal giudice delle indagini preliminari o da quello della cognizione

A fronte di tali congetture pertanto in tal caso la competenza a conoscere della esecutività e delle vicende giuridiche della misura cautelare definitiva spetterebbe al giudice dell’esecuzione ed al corrispondente ufficio del pubblico ministero ai sensi del combinato disposto degli artt. 279, 665 e 655 comma 1 c.p.p.

Consecutio logica è che in caso di trasgressione alle prescrizioni inerenti la predetta ai sensi dell’art. 276 c.p.p. la competenza a disporre una eventuale revoca della predetta sarebbe attribuibile a tale giudice.

E’ senz’altro un’interpretazione molto suggestiva, ben elaborata e affascinante seppur non condivisibile perché proceduralmente non fattibile e che risulta in palese contrasto sia con la norma in esame che con la volontà del Legislatore, espressa tramite la Simeone.

3c)  La applicabilità parziale

E’ una soluzione ibrida delle prime due.

Secondo tale orientamento in tal caso è possibile per la Magistratura di Sorveglianza adottare unicamente il decreto di sospensione provvisoria degli arresti domiciliari che andrà a confluire nel fascicolo dell’organo collegiale che dovrà esprimersi in ordine alla concessione o meno della misura alternativa, tralasciando la procedura collegiale, la quale verrà assorbita da quella relativa alla concessione o meno del beneficio penitenziario.

In altre parole il provvedimento monocratico costituirà una sorta di informativa pregiudizievole in ordine alla pericolosità sociale del condannato e un concreto vulnus in ordine alla definitiva decisione del Tribunale.

Un provvedimento in tal senso è normativamente illegittimo perché lo stesso è propedeutico alla successiva fase di revoca e potrà essere oggetto di eccezione di nullità per incompetenza per materia in favore del giudice dell’ esecuzione deducibile nel successivo procedimento di sorveglianza; pertanto tale tesi dà adito a molti dubbi e perplessità e a tal uopo non è ammissibile dal punto di vista strettamente normativo una interpretazione ibrida della delicata questione giuridica.

Quindi se la Magistratura di Sorveglianza adottasse nei confronti di un condannato in via definitiva sottoposto alla misura degli arresti domiciliari un’ordinanza di revoca conseguentemente ad un decreto motivato con il quale vengono provvisoriamente sospesi gli arresti domiciliari o anche soltanto un decreto di sospensione provvisoria ex art.51 ter O.P., adotterebbe un provvedimento illegittimo che potrebbe essere impugnato con ricorso per Cassazione a causa della inosservanza di tale norma processuale e specialmente con domanda di riparazione per l’ ingiusta detenzione patita.

3d) Considerazioni conclusive e la soluzione auspicabile

A fronte di tale stato normativo quindi la procedura ai sensi del combinato disposto degli artt. 656 comma 10 c.p.p. e 51 ter O.P. (applicata anche solo parzialmente con il decreto di sospensione provvisoria) non è ammissibile ed è proceduralmente scorretta in antitesi con una prassi consolidata che è di fatto extra legem, figlia però di una buona dose di logica e di un apprezzabile buon senso i quali auspicherebbero che in tal caso la competenza a disporre una eventuale modifica in senso peggiorativo del condannato definitivo agli arresti domiciliari venisse attribuita al Magistrato di Sorveglianza fondamentalmente per tre ordini di ragioni:

  • come meglio esposto precedentemente l’esecuzione della misura e gli adempimenti conseguenti ad essa come ad esempio una modifica delle prescrizioni imposte alla stessa spettano al Magistrato di Sorveglianza competente per territorio, il quale ha cognizione totale in merito.
  • Poiché, in caso di segnalazione di violazione del condannato definitivo agli arresti domiciliari da parte delle forze dell’ordine o dei servizi sociali l’organo monocratico della Magistratura di Sorveglianza (il quale ha già iniziato a vigilare sulla misura sin dal momento dell’inizio della sua esecuzione) dovrebbe trasmettere la pratica al giudice dell’esecuzione che, in caso di aggravamento, dovrebbe nuovamente coordinarsi con il collega per l’archiviazione del fascicolo.

Tale procedura è laboriosa e difficilmente praticabile.

  • Soprattutto perché si deve necessariamente entrare nell’ottica che nel lasso temporale che va dall’emanazione dell’ordine di esecuzione alla decisione del Tribunale di Sorveglianza il condannato sta espiando una pena in regime di arresti domiciliari e che tale misura ha si  originariamente una genesi cautelare ma dal momento dell’ avvio della fase esecutiva con l’emissione del relativo ordine deve intendersi come definitiva in attesa della decisione dell’organo collegiale che nel caso conceda la misura alternativa della detenzione domiciliare sarà meramente confermativa e non muterà la posizione giuridica del condannato.

Nella direzione di tale assunto va del resto lo stesso art. 656 comma 10 il quale, al penultimo cpv., afferma che “il condannato permane nello stato detentivo nel quale si trova e il tempo corrispondente è considerato come pena espiata a tutti gli effetti“.

La delicata questione giuridica apre come si è visto a più scenari possibili in assenza di una previsione normativa espressa e pertanto è augurabile una modifica nel senso dell’applicabilità dell’art. 51 ter O.P. anche in caso di condannato in via definitiva ex art. 656 comma 10 c.p.p. o perlomeno una norma ad hoc che disciplini la revoca “ secca “ degli arresti domiciliari del Magistrato di Sorveglianza uniformemente a quella prevista dal comma 7 dell’art. 47 ter O.P. che gli attribuisce la facoltà di revocare la detenzione domiciliare quando vengono a cessare le condizioni iniziali che ne hanno consentito la concessione, al fine di evitare futuri conflitti di competenza tra due A.G., a patto che il provvedimento sia in tal caso ricorribile per Cassazione poiché negli atri casi il decreto con il quale viene disposta la sospensione cautelativa di una misura alternativa non lo è, trattandosi di una decisione  interlocutoria avente effetti provvisori che decadono dalla data della pronuncia definitiva del Tribunale di Sorveglianza in ordine alla revoca della misura stessa (Cass. penale sez. 1, 6314/2019).

Del resto da una interpretazione della volontà del Legislatore del 1998 e da una disamina dell’ultimo cpv. del comma 10 dell’art. 656 c.p.p. in combinato disposto con l’art. 47 ter O.P., si può dedurre come la sua intenzione fosse quella di estendere la procedura di revoca al condannato sottoposto alla misura degli arresti domiciliari in prosecutio e di attribuire la competenza in merito ad essa al Magistrato di Sorveglianza poiché è espressamente previsto che egli, tra gli adempimenti previsti dalla predetta norma dell’ordinamento penitenziario relativa alla misura alternativa della detenzione domiciliare, provveda anche a quello disciplinato dal comma 6 secondo il quale deve pronunciarsi in ordine alla sua revoca “ se il comportamento del soggetto ( … ) appare incompatibile con la prosecuzione ( … ) “.

Questa analisi combacia inoltre con l’orientamento pacifico della Giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. Sezione 3, 13 Gennaio 1996) la quale individua nel momento della irrevocabilità della sentenza di condanna l’istante in cui da un lato si ha un mutamento automatico della misura cautelare in espiazione della pena a titolo definitivo e conseguentemente il passaggio della competenza dal giudice cautelare al Magistrato di Sorveglianza.

Pertanto mettendo a fuoco il provvedimento restrittivo della libertà personale al momento dell’emanazione dell’ordine esecuzione della condanna definitiva lo stesso deve considerarsi nella fattispecie di una misura alternativa alla detenzione provvisoria e non nel genus cautelare.

Tale riflessione è perfettamente sovrapponibile allo status soggettivo giuridico del condannato in via definitiva che non ha più la qualità di imputato passibile di essere sottoposto alla custodia cautelare degli arresti domiciliari (artt. 60 e 284 c.p.p.)

Ne consegue che non può esserci alcun accostamento tra la misura cautelare degli arresti domiciliari e quella definitiva in prosecutio disciplinata dal comma 10 dell’art. 656 c.p.p.

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