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Il contributo dovuto sia all’Enpaf sia all’Inps, uno stipendio modesto a fronte di responsabilità sempre più grandi e orari di lavoro molto estesi sono, secondo Alessandra Lo Balbo, farmacista e rappresentante del Comitato No Enpaf, le motivazioni che hanno portato nel tempo a una diminuzione del numero di farmacisti collaboratori. «In questi ultimi tempi – scrive Lo Balbo in una lettera aperta – si è sentito parlare molto spesso della seria difficoltà che hanno i titolari di farmacia nel reperire farmacisti collaboratori, ma poco si è dato spazio ai diretti interessati per conoscere quali siano le reali motivazioni di questo allontanamento da una delle professioni sanitarie più rispettabili, che svolge il suo prezioso ruolo a diretto contatto con tutta la popolazione. Essendo una farmacista e una rappresentante del Comitato No Enpaf, un comitato spontaneo formato da farmacisti dipendenti e disoccupati, ho la possibilità ogni giorno di raccogliere testimonianze dirette e punti di vista di chi quotidianamente lavora in farmacia».

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La questione dei costi previdenziali

Tra le motivazioni dell’allontanamento dei professionisti dalla farmacia, Alessandra Lo Balbo indica i costi previdenziali. «I farmacisti dipendenti devono pagare due previdenze, Inps ed Enpaf. In Italia tale doppio obbligo previdenziale per sanitari che svolgono un unico lavoro riguarda oggi solo i farmacisti e i medici dipendenti. Per tutte le altre professioni sanitarie il pagamento dei contributi alla cassa previdenziale di appartenenza è previsto solo se il lavoratore non ha un rapporto di lavoro subordinato. Pagare l’Enpaf significa per tantissimi colleghi non poter scegliere liberamente una seconda previdenza complementare, per altri significa rinunciare spesso a un lavoro a tempo determinato o a una sostituzione, per altri ancora significa spendere quasi la metà di quanto guadagnato (come nel caso degli stagisti). Infine, per i colleghi che si trovano in stato di disoccupazione da più di cinque anni significa, il più delle volte, addirittura cancellarsi dall’albo».

Retribuzione bassa e orari di lavoro prolungati

Tra gli altri principali fattori che disincentivano la scelta di diventare farmacista collaboratore, Lo Balbo evidenzia le retribuzioni basse e l’impegno lavorativo di molte ore con responsabilità in aumento. «Il farmacista dipendente italiano guadagna in media 1.500 euro netti al mese, molto poco rispetto al lavoro di responsabilità (anche penale) che è chiamato a fare – dichiara la farmacista –. Era già così prima della pandemia e il divario è diventato ancora più abissale adesso che le mansioni sono aumentate. Mi riferisco soprattutto alle esecuzioni dei tamponi e delle vaccinazioni, ma c’è una lunga lista che comprende tutti i vari servizi offerti oggi alla clientela. Chi decide di fare questo mestiere è sicuramente consapevole del fatto che in molte realtà lavorative, soprattutto nelle grandi farmacie e/o nelle grandi città, si possa lavorare la domenica e i giorni festivi, che le aperture possano andare dalla mattina presto fino a sera tardi. Quello che non ci si aspetta (e che si scopre solo una volta entrati nel vivo della realtà lavorativa) è il fatto di dover fare questi sacrifici senza che ci sia una convenienza in termini economici, a discapito della propria sacrosanta vita privata. Ecco perché molti farmacisti preferiscono non lavorare più in farmacia e tentare altre strade come l’insegnamento a scuola o il lavoro nelle industrie farmaceutiche, perché riescono a coniugare al meglio vita lavorativa e privata, guadagnando di più».

 

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