Nel caso dell’azione di responsabilità promossa dal curatore ai sensi dell’art. 146, comma 2, L.F., è conforme al diritto la decisione di merito che quantifichi il danno avendo riguardo all’accertata colpevole dispersione di elementi dell’attivo patrimoniale da parte degli amministratori, oltre che del colpevole protrarsi di un’attività produttiva implicante l’assunzione di maggiori debiti della società, a nulla rilevando che l’importo oggetto di liquidazione sulla base di tali criteri sia ridotto ad una minor somma, nella specie corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare, in ragione del limite quantitativo della pretesa fatta valere.
Sono questi i principi affermati dalla prima sezione della Suprema Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 21730 dell’8 ottobre 2020 (testo in calce) che chiarisce il tema delle modalità di liquidazione del risarcimento del danno riconosciuto nell’ambito dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore contro gli amministratori di una società fallita.
Il caso
Il caso ha visto la Corte di appello, in riforma della sentenza di primo grado, accogliere l’azione di responsabilità esercitata dal curatore del fallimento di una s.r.l. nei confronti degli amministratori, in quanto essi non erano in possesso delle scritture contabili, con conseguente loro condanna al risarcimento dei danni.
Il Giudice del merito ha infatti accertato che, a causa della cooperazione dolosa o gravemente colposa degli amministratori, condannati peraltro in sede penale per il reato di bancarotta fraudolenta, si era verificato il progressivo depauperamento patrimoniale della società fallita e la dispersione di beni e crediti, nonché era sconosciuta la destinazione di alcune poste di bilancio.
Il Giudice d’appello ha pertanto ritenuto non solo potersi presumere che i crediti riportati nel bilancio fossero stati incassati, ma ha altresì escluso che essi fossero stati riscossi e destinati all’acquisto di attrezzature necessarie per lo svolgimento dell’attività, in quanto non erano state rinvenute immobilizzazioni materiali.
È stato inoltre escluso che i crediti fossero stati impiegati per il pagamento delle retribuzioni dei dipendenti, poiché l’esposizione debitoria della società per gli stipendi ed i contributi previdenziali emergente dallo stato passivo alla data di dichiarazione di fallimento era notevolmente superiore a quella risultante dall’ultimo bilancio di esercizio.
Ai fini della quantificazione del danno, il Giudice del merito ha dunque sommato le attività patrimoniali non rinvenute dal curatore fallimentare e l’ammontare delle retribuzioni dei dipendenti non corrisposte.
La Corte di appello ha tuttavia ritenuto di liquidare la somma dovuta a titolo di risarcimento nel minor importo pari alla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare, tenuto conto dei limiti della domanda risarcitoria proposta in via principale dal curatore.
La questione
Gli amministratori hanno proposto ricorso per cassazione, contestando in particolare la violazione degli artt. 1223, 1226 e 2043 c.c.
I ricorrenti hanno infatti lamentato che la quantificazione del danno operata dal Giudice d’appello sarebbe stata difforme rispetto al principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui nell’azione di responsabilità promossa dal curatore ai sensi dell’art. 146, comma 2, L.F., la mancata od irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile agli amministratori, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo liquidato in sede fallimentare.
Secondo quanto affermato dall’orientamento giurisprudenziale richiamato dai ricorrenti, il criterio di quantificazione del risarcimento può essere utilizzato solamente come parametro per una liquidazione equitativa, ove ne sussistano le condizioni, purché il ricorso sia logicamente plausibile e l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore stesso (Cass. Civ., Sez. Unite, 06/05/2015, n. 9100).
La decisione
Nell’esaminare la questione, la Suprema Corte di Cassazione ha innanzitutto premesso che una correlazione tra le condotte degli amministratori ed il pregiudizio economico dato dal deficit patrimoniale della società fallita può prospettarsi per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che, proprio in ragione di esse, l’intero patrimonio sia stato intaccato e si siano verificate le perdite registrate dal curatore, oppure per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa del dissesto sfociato nello stato di insolvenza.
I Giudici di legittimità hanno evidenziato che il pregiudizio patrimoniale è stato nel caso di specie quantificato tenuto essenzialmente conto di due elementi, vale a dire:
- il depauperamento del patrimonio societario determinato dalla condotta degli amministratori visto che i crediti sicuramente incassati non erano però stati reimpiegati a beneficio della società né per l’acquisto di beni strumentali né per il pagamento dei dipendenti;
- il debito accumulato per le retribuzioni dovute ai lavoratori che non solo erano rimasti in servizio, non essendo intervenuta la cessazione del rapporto, ma avevano prestato la loro attività lavorativa presso un’altra società che operava in collaborazione con la fallita della quale uno degli amministratori ricorrenti deteneva rilevanti quote sociali.
La Cassazione ha pertanto osservato che il criterio di liquidazione utilizzato prescinde dall’apprezzamento della differenza tra l’attivo ed il passivo fallimentare.
Il risarcimento del danno è stato infatti commisurato in rapporto alla procurata dispersione delle attività patrimoniali ed in considerazione del protrarsi dei rapporti di lavoro che gli amministratori avrebbero dovuto far cessare.
Il dato relativo alla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare era stato utilizzato in quanto il danno accertato risultava superiore a quello di cui era stato domandato il risarcimento da parte del curatore, donde la somma da liquidarsi andava ridotta entro i limiti quantitativi della pretesa fatta valere in giudizio.
La Cassazione ha pertanto respinto il ricorso.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA N. 21730/2020>> SCARICA IL TESTO IN PDF
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