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Le crisi economiche che hanno caratterizzato gli ultimi anni hanno imposto una rivisitazione del concetto di ‘‘fare impresa’’, soprattutto in chiave di assunzione di rischi e di prevenzione della crisi e dell’insolvenza. A seguito delle c.d. Mini-riforme e degli aggiustamenti normativi della Legge Fallimentare in tema di rescue culture, una riforma organica del diritto concorsuale, quale il D.Lgs. n. 14/2019, risultava un intervento improcrastinabile e necessario dato il continuo evolversi della realtà economico-sociale e delle spinte da parte dell’Unione Europea.

1. La genesi della definizione di stato di crisi

Falliti sunt infames, questo era l’epiteto attribuito agli imprenditori che non riuscivano ad adempiere alle proprie obbligazioni e a soddisfare i propri creditori nel Medioevo. Infatti, il diritto fallimentare, come del resto la maggior parte degli istituti disciplinati dal diritto commerciale, trova le proprie origini nello ius mercatorum e nella nascita dei comuni. La Legge Fallimentare, coeva al Codice Civile del 1942, nell’ultimo decennio è stata oggetto di numerose riforme, ma nessuna di queste ha avuto un impatto dirompente e sistematico come quella che entrerà in vigore il 1 settembre 2021, D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14.

Uno degli elementi caratterizzanti e innovativi del nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, oltre all’eliminazione di ogni riferimento discriminatorio della figura dell’imprenditore che non possa adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni, è senza dubbio l’introduzione della definizione di stato di crisi, ex art. 2, comma 1, lettera a) secondo cui per crisi si intende ‘‘lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate’’.

La definizione di stato di crisi risultava fondamentale al fine di individuare il presupposto oggettivo del concordato preventivo, degli accordi stragiudiziali, dei piani di risanamento e degli accordi di ristrutturazione dei debiti, dato il labile confine che si era creato con l’inserimento, a partire dalla riforma del 2006, del terzo comma all’art. 160 l. fall. secondo cui: ‘‘ai fini di cui al primo comma per stato di crisi si intende anche quello di insolvenza’’. Tale definizione risultava ancor più necessaria in vista dell’introduzione, su impulso della normativa europea e in particolare della Direttiva 2019/1023/UE, di misure di allerta volte alla rilevazione precoce di uno stato di crisi e alla prevenzione di uno stato di insolvenza conclamato. Tali innovazioni, hanno evidenziato la necessità che anche i paesi del Vecchio Continente, e dunque anche l’Italia, applicassero il principio della rescue culture, ossia del salvataggio dell’impresa in crisi attraverso strumenti in grado di prevenire lo stato di insolvenza, anticipando il momento di attivazione dell’imprenditore, ma soprattutto anticipando il momento della consapevolezza del proprio dissesto. A tal fine è risultato necessario dare una definizione del presupposto di likehood of insolvency (probabilità di insolvenza) come definita dalla Direttiva 2019/1023/UE, che nel nostro ordinamento è stato recepito e definito quale stato di crisi, per distinguerlo definitivamente dallo stato di insolvenza e spingere in questo modo l’imprenditore a evitarlo, ma soprattutto ad attivarsi tempestivamente e a non occultarlo al fine di salvare l’impresa prima che giunga a un dissesto irreversibile.

2. La definizione di stato di insolvenza e di stato di crisi

Con il nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza si passa a considerare la crisi come un fenomeno fisiologico dell’impresa, eliminando, dunque, ogni riferimento al termine ‘‘fallimento’’ e abbandonando in questo modo ogni connotazione negativa del termine e di discredito personale e morale della persona dell’imprenditore insolvente. Il D.Lgs. n. 14/2019 introduce un mutamento di prospettiva con lo spostamento dell’ottica e dell’interesse del legislatore: la centralità nella nuova normativa non spetterà più all’imprenditore coinvolto nella crisi, bensì all’azienda, quale struttura in cui si oggettiva l’attività dell’impresa e il cui tentativo di conservazione costituisce l’oggetto principale dell’attenzione della nuova legge.

A lungo dottrina e giurisprudenza si sono interrogate su quale dovesse essere la portata dei presupposti oggettivi come disciplinati ex art. 160, comma 3, l. fall., soprattutto a causa del nuovo comma, che, invece di chiarificare i presupposti oggettivi in questione, eliminava quasi del tutto il labile confine che li separava. Dall’analisi del concetto di insolvenza, alla luce della Legge Fallimentare ancora in vigore, emerge che la teoria patrimonialistica e quella personalistica non sono più in grado di far delineare un vero e proprio stato di insolvenza, tale da essere considerato presupposto per l’accesso alle procedure concorsuali; si evidenzia, dunque, la necessità di analizzare l’insolvenza da un punto di vista prospettico, in base a un giudizio prognostico circa l’evoluzione economica e finanziaria dell’impresa. Basti pensare alla sentenza del 5 settembre 2008, n. 287 del Tribunale di Roma con cui venne dichiarata insolvente l’Alitalia a seguito di una valutazione per la prima volta esplicitamente prospettica, il tutto a fronte di strumenti finanziari ormai alquanto ridotti nonché dal convincimento che a seguito di tali condizioni non sarebbe stato possibile ipotizzare alcun miglioramento, anche guardando al prezzo del petrolio e alla crisi economica.

Successivamente, la giurisprudenza, con sentenza della Cassazione del 20 novembre 2018, n. 29913, ha individuato lo stato di insolvenza quale concetto dinamico, vera e propria impotenza patrimoniale definitiva e irreversibile, nonché quale impossibilità per l’impresa di continuare a operare proficuamente sul mercato, fronteggiando con mezzi normali le obbligazioni. Dunque, l’accertamento dell’insolvenza deve essere diagnosticato con una valutazione prospettica, dal momento che il verificarsi di uno o più inadempimenti non denota l’impossibilità irreversibile di far fronte con regolarità ai pagamenti in caso di sussistenza di una crisi transitoria di liquidità. Inoltre, l’attuale assenza di inadempimenti non impedisce che l’imprenditore versi in condizioni strutturali tali da escludere che egli disponga, in futuro, delle risorse necessarie a far fronte all’indebitamento di imminente scadenza.

Per quanto riguarda lo stato di crisi, invece, veniva comunemente definito quale perturbazione o improvvisa modificazione di un’attività economica organizzata, prodotta da molteplici cause possibili, ora interne, ora esterne, ma in grado di minare l’esistenza dell’impresa o, comunque, della continuità aziendale. In dottrina vi è stata una lunga discussione sulla possibilità che lo stato di crisi, quale insolvenza reversibile, contenesse al suo interno lo stato di insolvenza, ovvero soltanto il rischio di insolvenza, per arrivare, infine, all’idea che lo stato di crisi si configuri come situazione ontologicamente differente dallo stato di insolvenza (Ambrosini S., Crisi e insolvenza nel passaggio fra vecchio e nuovo assetto ordinamentale: considerazioni problematiche), seppur quale fase antecedente a quest’ultima. Dunque, a seconda della forza dirompente con cui la crisi si manifesta e incide sull’attività dell’impresa e a seconda della reversibilità o meno di tale status, vengono a crearsi due patologie differenti: lo status di crisi e lo status di insolvenza commerciale.

Secondo la scienza aziendalistica un’impresa è in stato di crisi quando mostra la stabile presenza di meccanismi capaci, se non contrastati, di condurre in tempi più o meno brevi a crescenti tensioni finanziarie e quindi fino all’insolvenza, rimanendo comunque uno stato differente dall’insolvenza irreversibile. Proprio in tal senso, lo stato di crisi e quello di insolvenza si identificherebbero come stadi successivi di un identico fenomeno patologico degenerativo, tuttavia configurandosi il primo quale presupposto oggettivo per accedere alle procedure volte alla conservazione dell’impresa e in grado di dimostrare la presenza di meccanismi capaci di condurre a tensioni finanziarie crescenti fino all’insolvenza.

Nonostante ciò, parte della dottrina ritiene che l’insolvenza vada accertata per dar luogo alla dichiarazione di fallimento e che quindi necessiti di una definizione esatta e puntuale, invece, lo stesso non vale per lo stato di crisi che, in quanto dato prettamente economico multiforme legato all’attività economica, può essere desunto in negativo dallo stesso concetto di insolvenza irreversibile, e questo per non vincolare il giudice a rigidi schemi normativi.

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3. La rescue culture nel contesto europeo

L’esigenza, su impulso dell’Unione Europea, di definire in maniera chiara e puntuale i presupposti per l’accesso ai quadri di ristrutturazione preventiva ex art. 4 Direttiva 2019/1023/UE, ha spinto la Commissione riformatrice Rordorf ad assumersi il compito di risolvere la questione definitivamente, fornendo per la prima volta la definizione di stato di crisi all’art. 2, comma 1, lett. a) del D.Lgs. del 12 gennaio 2019, n. 14.

Sicuramente l’ordinamento italiano ha risentito dell’influenza dei principi europei in tema di rescue culture ed extranazionali quali la reorganization di matrice statunitense, andando con il tempo ad allontanarsi sempre più dall’impostazione originaria della Legge Fallimentare italiana. Al fine di armonizzare e coordinare le giurisdizioni dei diversi Stati in materia di insolvenza transfrontaliera nonché di salvataggio dell’impresa in crisi l’UE nell’ultimo decennio ha emanato diversi atti normativi quali la Raccomandazione n. 2014/135/UE, il Regolamento UE 2015/848/UE, nonché, da ultima, la Direttiva 2019/1023/UE.

Da una prima analisi emerge chiaramente che l’obiettivo della Direttiva 2019/1023/UE sia quello di garantire un’armonizzazione minima in materia di ristrutturazione e insolvenza, affermando a livello europeo la cultura della prevenzione e salvataggio dell’impresa in crisi nonché quella di concedere una seconda opportunità al debitore che si trovi in stato di difficoltà economico-finanziaria. Già il Regolamento 2015/848/UE aveva esteso la propria applicazione a fronte di una probabilità di insolvenza e non solo a fronte di uno stato di insolvenza manifesta; tuttavia, solo successivamente con la Direttiva 2019/1023/UE si è assistito a un intervento normativo che costituisce il più importante tassello di un percorso teso al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri dell’Unione Europea.

Tale Direttiva si fonda sull’idea che la possibilità di una tempestiva e rapida ristrutturazione sia non solo favorevole ai creditori, ma all’economia nel suo complesso, riducendo i costi e i fenomeni di forum shopping, nonché evidenziando come nei paesi in cui la ristrutturazione è la procedura più diffusa i tassi di recupero per i creditori sono più alti. Gran parte della dottrina tedesca ha fortemente criticato il principio della rescue culture che è alla base della nuova Direttiva affermando che si tratta di un atto che non chiarisce se l’intento sia tutelare l’interesse dei creditori o quello del debitore alla prosecuzione dell’attività, creando un rifugio per le imprese in dissesto che dovrebbero essere liquidate; inoltre, secondo la dottrina in esame, aumenterebbero i costi finanziari e i tassi di finanziamento determinando, in questo modo, un pregiudizio anche per le imprese sane, le quali risentirebbero della maggior richiesta di garanzie. In tal modo, si assisterebbe a una ulteriore limitazione dell’accesso al credito da parte delle PMI. Le critiche alla rescue culture di matrice statunitense partono dall’idea secondo cui la disciplina della crisi d’impresa e dell’insolvenza debba svolgere la funzione di filtro, eliminando le imprese che non hanno molte prospettive di ristrutturazione a vantaggio, invece, delle imprese sane. Ulteriore critica mossa alla Direttiva riguarda l’abuso della procedura di ristrutturazione e in particolare del sacrificio dei diritti dei creditori a causa dell’applicazione del principio della maggioranza per l’approvazione del piano. Infatti, tale principio trova minor fondamento quando l’impresa non versi in una situazione d’insolvenza, ma in uno stato di crisi o pre-insolvenza, poiché in tale ipotesi la falcidia dei diritti dei creditori che segue al fallimento potrebbe anche non verificarsi. La likelihood of insolvency, quale dissesto economico-finanziario reversibile, non potrebbe giustificare il sacrificio dei diritti dei creditori sulla base della maggioranza.

Nonostante le numerose critiche mosse alla Direttiva 2019/1023/UE e alla politica del salvataggio dell’impresa in crisi, chi scrive ritiene che queste non siano prova del fatto che la cultura del recupero porti sempre ad esiti negativi perché in sé sbagliata e perché il mercato può trovare da solo meccanismi alternativi efficaci, ma che nella maggior parte dei casi le procedure si chiudono con la cessione dell’azienda a terzi perché la procedura di ristrutturazione non viene posta in essere in modo tempestivo. L’unico modo per far sì che le procedure di ristrutturazione o riorganizzazione vengano attuate tempestivamente è stabilire il presupposto oggettivo su cui basarsi, lo stato di crisi, e degli strumenti volti a prevenire e comporre tale stato, gli Early warning tools; infatti, Il considerando 22) della Direttiva prevede che ‘‘quanto prima un debitore è in grado di individuare le proprie difficoltà finanziarie e prendere le misure opportune, tanto maggiore è la probabilità che eviti un’insolvenza imminente’’.

Nel nuovo Codice, la definizione positiva di crisi sancisce due regole: una con finalità descrittivo-ontologiche in cui lo stato di crisi si configura come probabilità dell’insolvenza conseguente ad uno stato di difficoltà economico-finanziaria; la seconda identifica lo stato di crisi quale funzione fenomenologica, che prevede le modalità con cui la crisi si manifesta all’esterno, ossia con i flussi di cassa prospettici.

Alla luce della definizione normativa data dal CCII e dalla Direttiva, la nozione di crisi coincide sicuramente con il pericolo di futura insolvenza e ciò potrebbe creare un ritardo nell’apertura della procedura dovuto al temporeggiare dell’imprenditore; al fine di evitare ciò, la nozione di stato di crisi dovrà ricomprendere solamente le situazioni prodromiche rispetto all’insolvenza irreversibile vera e propria e suscettibili di degenerare in quest’ultima, dunque, situazioni comunque fisiologicamente differenti da quella dell’insolvenza. Infine si può affermare che il presupposto oggettivo per l’accesso al quadro di ristrutturazione preventivo previsto dalla normativa europea e quello effettivamente disciplinato all’art. 2, comma 1, lett. a) CCII non si trovano in contrasto tra loro, anzi il Legislatore italiano ha perfettamente adeguato la normativa domestica a quella sovranazionale, anche grazie al rinvio alla legislazione nazionale previsto all’art 2, comma 2, della Direttiva.

4. Il Decreto della Sezione fallimentare del Tribunale di Milano del 9 ottobre 2019

Di sicuro interesse, data la mancanza di una giurisprudenza consolidata in materia, è il Decreto della Sezione fallimentare del Tribunale di Milano del 9 ottobre 2019 che presenta una motivazione a cavallo tra vecchio e nuovo ordinamento sul tema del presupposto oggettivo per l’accesso alle procedure concorsuali. Infatti il Tribunale ha affermato che l’insolvenza prospettica è ‘‘necessariamente legata ad un orizzonte temporale molto contenuto, perché quanto più la prognosi è lontana nel tempo, tanto più si possono inserire nel meccanismo imprenditoriale fattori nuovi ed imprevedibili cosicché, nel caso di orizzonte temporale semestrale, integra una situazione di pericolo che giustifica le segnalazione interna o esterna nell’ambito delle misure di allerta, ma è insufficiente per consentire una declaratoria di fallimento indiscriminata di tutti coloro che, in prospettiva anche abbastanza prossima, potrebbero non essere in grado di far fronte alle scadenze dei propri debiti programmati’’. Interessante è la decisione del tribunale di non condannare i ricorrenti al risarcimento dei danni per lite temeraria ex art. 96 c.p.c. a causa dell’oggettiva difficoltà di distinguere tra stato di crisi e insolvenza prospettica. A tal proposito, la motivazione recita quanto segue ‘‘allo stato attuale non vi sono manifestazioni esteriori e nell’immediato futuro vi sono molteplici elementi imprenditoriali incerti, per poter ritenere sicuramente la società prospetticamente insolvente a breve’’ rimarcando anche la necessità di non sottovalutare i sintomi della crisi che potrebbero avere ripercussioni gravi in futuro. È cambiato, quindi, il rapporto tra lo stato di crisi e lo stato di insolvenza: se prima, venivano considerati in un semplice rapporto di genus a species ex art. 160, comma 3, l. fall., ora, dato che ‘‘l’imprenditore insolvente ha ormai superato (in peius) lo stato di crisi e, viceversa, l’imprenditore tecnicamente in crisi non è (ancora) in stato di insolvenza’’ (spiotta m., Insolvenza(non ancora) prospettica: quali rimedi?) sono considerati come due stati distinti di uno stesso fenomeno che tende progressivamente a peggiorare, come confermato dall’art. 130, comma 4, CCII.

Il Legislatore nulla ci dice sulla nozione di continuità aziendale e sull’insolvenza prospettica, dal momento che la prima è di derivazione aziendalistica1, mentre la seconda è un concetto di creazione dottrinale e giurisprudenziale; entrambi i concetti non devono essere però confusi con lo stato di crisi, come confermato dal nuovo capoverso dell’art. 2086 c.c.

In particolare, la continuità aziendale deve essere collocata prima della crisi, mentre l’insolvenza prospettica in un momento successivo2. Infatti, sia la crisi che la perdita del going concern sono volti a individuare squilibri futuri nello svolgimento della ordinaria attività dell’impresa, ma l’orizzonte temporale a cui fanno riferimento è differente: per la crisi sei mesi; per la continuità aziendale, dodici mesi e la sintomatologia si basa sulla valutazione di dati qualitativi.

Da una lettura congiunta dell’art. 2, comma 1, lett. a) e dell’art. 13 CCII secondo cui ‘‘costituiscono indicatori di crisi gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario rapportati alle specifiche caratteristiche dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore […] rilevabili attraverso appositi indici che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e delle prospettive della continuità aziendale per l’esercizio in corso […]. Costituiscono altresì indicatori di crisi ritardi nei pagamenti reiterati e significativi’’, viene evocato un concetto di crisi che richiama la continuità aziendale, come capacità dell’azienda di generare flussi finanziari nel tempo correlati a risultati positivi, ma soprattutto al principio contabile IAS n. 1, secondo cui ‘‘nel determinare se il presupposto della prospettiva della continuità dell’attività è applicabile, la direzione aziendale tiene conto di tutte le informazioni disponibili sul futuro, che è relativo almeno a 12 mesi dopo la data di riferimento del bilancio ’’. Sicuramente, la valutazione prospettica che spetta al debitore o agli organi di controllo sull’idoneità ad adempiere dei flussi finanziari alle obbligazioni contratte in scadenza è più circoscritta nel CCII rispetto allo IAS, dal momento che viene valutata su un arco temporale di sei mesi piuttosto che di dodici mesi. L’arco temporale indicato dal CCII, data la sua breve durata, potrebbe anche risultare inidoneo a rilevare preventivamente uno stato di crisi.

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1. La continuità aziendale è nozione che il nostro legislatore non descrive, ma adombra nell’art. 2423 bis, comma 1, n. 1), c.c., per la cui ricostruzione occorre far riferimento all’OIC 11; allo IAS 1 e al principio di revisione ISA Italia n. 570. Per una sintesi del contenuto di tali fonti tecniche si rinvia, per brevità, alla Circolare ASSONIME n. 19 del 2 agosto 2019, 15 ss.

2. La Circolare assonime n. 19 del 2 agosto 2019, 19 fa riferimento a tre fasi successive ascendenti.


 

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