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Con la legge di riforma della giustizia e del processo tributario, la prova testimoniale scritta entra nel processo tributario, con effetto dai ricorsi notificati a partire dal 16 settembre 2022. Ma quale è l’effettiva portata della nuova norma? Per rendersene pienamente conto è senz’altro necessaria un’approfondita disamina dei suoi confini applicativi. Di riforma della giustizia tributaria si parlerà nel corso del X Forum One FISCALE dedicato a “La sfida della Riforma Fiscale e i nuovi Trend di Fiscalità Internazionale”, organizzato da Wolters Kluwer e ANDAF.

Nell’editoriale del 24 settembre 2022 (L’istruttoria del processo tributario riformato. Una rivoluzione copernicana!) si sono brevemente tratteggiate le peculiarità del novellato comma 4 dell’art. 7. D.Lgs. n. 546/1992 introdotto con l’art. 4, comma 1, lettera c), della legge n. 130/2022, rispetto a quanto previsto nell’art. 2, comma 2, lettera b), del Ddl governativo n. 2636 del 1° giugno 2022. Evidenziando, in specie, la soppressione, nel nuovo testo normativo, del presupposto di applicabilità della prova testimoniale scritta al solo caso che la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso. E rimarcando, altresì, la persistente non necessità dell’ “accordo delle parti”, previsto invece nell’art. 257-bis c.p.c.

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Tutto ciò non è però sufficiente a rendersi pienamente conto dell’effettiva portata della nuova norma. Che richiede, infatti, di essere sottoposta ad una vera e propria actio finium regundorum. Ovverosia, a una più approfondita disamina dei suoi limina, o confini applicativi. Tenuto conto, anzitutto, del significato espresso dalla norma proprio nel punto cruciale in cui dispone che il giudice tributario (olim Commissione tributaria e ora Corte di Giustizia tributaria) può ammettere la prova testimoniale, assunta con le forme di cui all’art. 257-bis c.p.c..

Non è senza rilievo il fatto che il legislatore non si sia limitato a una mera enunciazione di applicabilità dell’art. 257-bis c.p.c. ma abbia in primis dichiarato che “non è ammesso il giuramento”, scilicet “decisorio” costituente l’emblematica prova legale che ancora persiste nel nostro attuale ordinamento. Per poi non già parlare (sostantivamente) di prova testimoniale tout court, ma dire (discorsivamente) che “la Corte di Giustizia tributaria” (senza distinzioni di grado), “ove lo ritenga necessario ai fini della decisione e anche senza l’accordo delle parti, può ammettere la prova testimoniale, assunta con le forme di cui all’articolo 257-bis del codice di procedura civile”. Connotando, per così dire, il disposto normativo di una serie di prescrizioni che inducono a rendere la c.d. prova testimoniale nel processo tributario un istituto dotato d’indubbia specialità e come tale sicuramente diverso, non solo dalla prova testimoniale quale prova legale tipica del processo civile, regolata dagli articoli 2721 e ss. C.c. e dagli articoli 244 e ss. c.p.c., ma pur anche dalla stessa “testimonianza scritta” di cui all’art. 257-bis c.p.c., quivi allocato dall’art. 46, comma 8, legge n. 69/2009.

Il dato di maggior rilievo, del quale si è già detto, ma occorre ulteriormente insistere, è che l’art. 257-bis c.p.c., nel dettare la disciplina della “testimonianza scritta”, prevede, in limine, al comma 1, che “il giudice, su accordo delle parti, tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza, può disporre di assumere la deposizione chiedendo al testimone, anche nelle ipotesi di cui all’articolo 203, di fornire, per iscritto e nel termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato”. Mentre il novellato comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546/1992 esclude, addirittura expressis verbis, che occorra l’accordo delle parti, prescindendo, altresì, dal debito conto “della natura della causa” e “di ogni altra circostanza”. E neppure qui dice – come si diceva, invece, nel testo proposto dalla Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria, presieduta dal prof. Giacinto Della Cananea – che, “su istanza del ricorrente, il giudice può autorizzare la prova testimoniale in forma raccolta ai sensi del codice di procedura civile su circostanze oggetto di dichiarazione di terzi contenute in atti istruttori”. Il che sta, per l’appunto, a significare che, secondo la voluntas legis definitivamente espressa con la norma oggi vigente, questa c.d. prova testimoniale scritta nel processo tributario riformato può essere disposta senza alcun accordo tra le parti e indipendentemente, altresì, dall’istanza di una pur sola delle parti, e in specie di parte ricorrente, potendo essere quindi disposta ex officio dal giudice tributario stesso.

Prova testimoniale scritta con due interrogativi

Fermo quanto sopra, si aprono comunque le porte a due problematiche, allo stato, non ancora sufficientemente approfondite. Che rispondono essenzialmente a due interrogativi, fra loro interconnessi, che postulano precise risposte.

Primo interrogativo

Se, dunque, la c.d. prova testimoniale scritta di cui al novellato comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546/1992 si differenzia dalla prova legale tipica prevista dal codice di rito e financo dalla “testimonianza scritta” di cui all’art. 257-bis c.p.c., che resta pur sempre una particolare forma di assunzione della prova testimoniale con effetti di prova legale tipica propria del processo civile ordinario e del Codice civile, come, allora, deve essere interpretato il richiamo fatto dal comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546/1992 all’art. 257-bis c.p.c.?

La risposta a questo interrogativo si ritrova de plano rifacendosi alla general Klausel di cui all’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, nella parte in specie dove si stabilisce che le norme del Codice di procedura civile sono applicate dai giudici tributari per quanto “compatibili” con quelle del citato decreto legislativo. A questa stregua non è dunque difficile pervenire alla conclusione che, tenuto conto del vigente comma 4 dell’art. 7, D.Lgs. n. 546/1992, il richiamo all’art. 257-bis c.p.c. sia limitato alle sole forme previste da quest’ultima disposizione per l’assunzione di una prova testimoniale non avente valenza di prova legale tipica, trattandosi, invece, d’informazione di terzi disposta dalla Corte di giustizia tributaria (senza limitazione di grado) che la ritenga “necessaria ai fini della decisione”, “anche senza l’accordo delle parti”, e senza “tenere conto della natura della causa e di ogni altra circostanza”. Tendenzialmente uniformandosi, non tel quel, ma cum grano salis, come si suol dire e si vedrà meglio ancora fra poco, alle ulteriori prescrizioni dettate nei successivi commi dell’art. 257-bis c.p.c. e, soprattutto, dall’art. 103 bis Disp. att. c.p.c,. che risultano, in larga parte, circoscrittamente applicabili alla sola “testimonianza scritta” prevista per il solo processo civile.

Il secondo interrogativo

In qualche modo correlato a quello precedente, ma di ancor più cruciale rilievo, ai fini che ne occupa, è l’interrogativo se questa nuova disciplina normativa entrata a far parte dell’art. 7, D.Lgs. n. 546/1992, indubbiamente finalizzata a dare un qualche migliore assetto disciplinare all’informazione da parte di terzi, sia da considerarsi sostitutiva e assorbente di ogni ingresso di siffatte fonti informative, o se, per contro, le stesse possano continuare ad avervi comunque accesso sub specie di prove atipiche, come sino ad oggi consentito e ammesso dalla giurisprudenza e largamente praticato nella prassi. E, in questa seconda ipotesi, quale, allora, sia il ruolo della c.d. prova testimoniale scritta ex art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 546/1992, a fronte della comunque ancora generalmente ammessa introitazione delle informazioni di terzi atipicamente accoglibili anche nel processo che ne occupa.

A questo secondo interrogativo, che, in termini sostanzialmente analoghi, già si era posto nell’ambito del processo civile dopo l’introduzione della c.d. testimonianza scritta di cui all’art. 257-bis (e poi risolto, tanto in dottrina come in giurisprudenza, in guise fortemente divaricate), per quanto attiene al nuovo processo tributario riformato sembra doversi dare concreta risposta, escludendo che il nuovo dato normativo introdotto con l’art. 4, comma 1, lettera c), legge n. 130/2022 abbia introdotto una sorta di codificazione o predeterminazione normativa esaustiva della fattispecie delle informazioni di terzi secondo le forme ivi prefigurate, così da doversi escludere ogni altro (libero) accesso di siffatte informazioni nel processo che ne occupa. E ciò non solo, e non tanto, perché una scelta legislativa in tal senso si porrebbe in netto contrasto con l’evoluzione giurisprudenziale in materia di prove atipiche, faticosamente maturata in tale ambito, ma soprattutto perché una così radicale scelta non risulta sia stata così enunciata o indicata nel dato normativo di cui trattasi, ove, infatti, difetta ogni manifestazione in tal senso, non delineandosi alcuna distinzione o discriminazione, tanto meno sul piano qualitativo e delimitativo, tra informazioni di terzi assunte nelle forme quivi previste o informazioni di terzi comunque altrove raccolte in questo processo.

Prevedendosi, piuttosto, in questo dato normativo un generico espresso riconoscimento legislativo dell’accessibilità dell’informazione di terzi, sino ad ora soltanto giurisprudenzialmente accreditato; nonché, fors’anche, più ancora significativamente, riconoscendovisi la possibilità (e, ancor prima, l’opportunità) di un loro consentito, selezionato ingresso in questo nuovo processo, non certo quanto al maggiore o minor grado di efficacia probatoria (che resta, pur sempre, quella indiziaria liberamente valutabile dal giudice ai fini decisionali assieme ad ogni altra risultanza istruttoria), ma nel senso, invece, di una possibile (e strategicamente preferibile) anticipata libera acquisizione della fonte informativa di terzi ad opera di una o più parti, oltre la quale il giudice tributario possa ritenerlo “necessario” (non soltanto, com’è ovvio, “rilevante”, anche se non straordinariamente indispensabile o “assolutamente” necessario, come sembrava richiedersi nel testo del D.D.L. governativo) ai fini della decisione.

In tal modo, dunque, assegnando con questo dato normativo alla Corte della Giustizia tributaria una sorta di potere di controllo (“ope iudicis”) dell’autenticità e della “consistenza istruttoria” delle informazioni di terzi, affidando ad ogni corte di giustizia tributaria (di primo o di secondo grado), “ai fini della decisione” il potere-dovere, se lo ritiene necessario, nel senso sopra specificato, di provvedere ex officio ad attivare il congegno assuntivo messo a sua disposizione dalla norma in parola, di verificare (e così maggiormente rafforzativamente accreditare) l’informazione del terzo, già liberamente rifluita in atti, dotandola del maggior crisma di autenticità, quanto alla sua provenienza, e di maggior valenza del suo contenuto ed oggetto in funzione dell’emananda decisione.

In questi termini, e secondo il crinale interpretativo appena indicato, potrà conseguentemente rinvenirsi anche il giusto equilibrio tra poteri d’impulso istruttorio riconosciuti alle parti e poteri officiosi o lato sensu inquisitori comunque assegnati al giudice tributario nell’ambito del processo speciale riformato, che gli è proprio.

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