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Un avvocato viene condannato in sede penale per bancarotta fraudolenta e subisce un procedimento disciplinare all’esito del quale gli viene comminata la sospensione dall’esercizio della professione per 4 mesi. Il legale contesta la decisione eccependo l’intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare.

Il Consiglio Nazionale Forense, chiamato a pronunciarsi sulla vicenda, con la sentenza 1° giugno 2022, n. 82 (testo in calce), chiarisce diversi aspetti in materia di decorrenza del termine prescrizionale.

Innanzitutto, il CNF ribadisce che la disciplina sopravvenuta (ius superveniens) non si applica alla prescrizione dell’azione disciplinare. La legge professionale forense ha disposto che “le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato”. Tuttavia, tale disposizione riguarda unicamente la successione nel tempo delle norme del codice deontologico; la prescrizione ha fonte legale e non deontologica, pertanto, si applica il principio generale di irretroattività delle norme in tema di sanzioni amministrative.

Viene altresì chiarito che, quando l’illecito disciplinare costituisce reato, la prescrizione decorre dal giudicato penale solo nel caso in cui il termine prescrizionale non sia già maturato al momento dell’esercizio dell’azione penale ovvero della formulazione dell’imputazione. A tal fine, viene ricordato che l’avviso di conclusione delle indagini (art. 415 bis c.p.p.) non costituisce atto interruttivo della prescrizione.

La vicenda

Un avvocato, quale amministratore e socio di una società, in concorso con altri soggetti, suoi clienti e amministratori di diverse società, con lo scopo di arrecare pregiudizio ai creditori, distraeva la somma di 500 milioni di lire, conseguita in seguito alla conclusione di un contratto preliminare per la compravendita di un immobile di proprietà dei suoi assistiti, attraverso una complessa operazione bancaria. Il legale, in sede penale, veniva condannato ad un anno di reclusione per bancarotta fraudolenta (art. 216 c. 1 n. 1 R.D. 267/1942). Sotto il profilo disciplinare gli veniva contestata la violazione:

  • del dovere di evitare incompatibilità (art. 6 CDF) poiché, avendo assunto la carica di amministratore della società per la quale operava, svolgeva attività incompatibili con i doveri di indipendenza, dignità e decoro della professione forense,

  • dei doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza (art. 9 CDF),

  • del dovere di non intrattenere con il cliente e con la parte assistita rapporti economici, patrimoniali, commerciali o di qualsiasi altra natura, che in qualunque modo possano influire sul rapporto professionale (art. 23 c. 3 CDF); egli, infatti, aveva concluso con i suoi assistiti il contratto preliminare con cui l’immobile di loro proprietà era stato posto in vendita;

  • del dovere di non suggerire comportamenti, atti o negozi nulli, illeciti o fraudolenti (art. 23 c. 6 CDF), in quanto aveva suggerito ai suoi assistiti l’operazione fraudolenta accertata anche in sede penale.

Il Consiglio Distrettuale di Disciplina comminava all’avvocato la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per 4 mesi. Il legale ricorre al Consiglio Nazionale Forense che, come vedremo, non interviene nel merito della vicenda, in quanto accoglie l’eccezione di intervenuta prescrizione sollevata dall’incolpato.

Lo ius superveniens non si applica alla prescrizione dell’azione disciplinare

Il legale, nelle proprie difese, sostiene che sia maturato il termine prescrizionale dell’illecito disciplinare atteso che tra il compimento del fatto (nel 2001) e la notifica dell’avvio del procedimento penale ex art. 415 bis c.p.p. (nel 2006) erano decorsi 4 anni; tra il deposito della sentenza della Cassazione (nel 2014) e la data di citazione a giudizio davanti al CDD (nel 2017) erano passati 3 anni, per un totale di circa 7 anni. Il ricorrente, con successiva memoria, ha chiarito che il termine prescrizionale di 5 anni, applicabile ratione temporis, era già decorso al momento dell’esercizio dell’azione penale, avvenuto con la richiesta di rinvio a giudizio (nel 2009).

La disciplina attualmente vigente prevede che il termine di prescrizione sia pari a 6 anni (art. 56 legge 247/2012), mentre, quella precedente stabiliva un termine di 5 anni (art. 51 R.D.L. 1578/1933). La legge professionale forense (art. 65 c. 5 legge 247/2012) ha disposto che “le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se più favorevoli per l’incolpato”. Tale disposizione riguarda unicamente la successione nel tempo delle norme del codice deontologico; la prescrizione ha fonte legale e non deontologica, pertanto, si applica il principio generale di irretroattività delle norme in tema di sanzioni amministrative. In conclusione, è inapplicabile lo ius superveniens che prevede il termine di prescrizione pari a 6 anni, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale e comunitaria (Cass. SS. UU. 41988/2021; Cass. 37550/2021; CNF 210/2021; CNF 219/2021).

L’ultima prescrizione. Storia, fondamento e disciplina della prescrizione del reato, di Stea Gaetano, Ed. CEDAM, 2020. Il lavoro è suddiviso in un percorso di ricerca ed approfondimento che, dalle origini storiche dell’istituto, si dispiega tra gli interrogativi filosofici sul tempo nel diritto e nella struttura del reato, per catturarne il significato fondamentale e giungere così alla descrizione della disciplina positiva dell’«ultima prescrizione».
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Fatto costituente reato: prescrizione decorre dal passaggio in giudicato

Una volta acclarato che, nel caso di specie, trova applicazione la disciplina previgente, occorre operare un distinguo tra:

  1. il caso in cui il procedimento disciplinare tragga origine da fatti che sono punibili solo in sede disciplinare, in quanto commessi in violazione dei doveri di lealtà, probità, correttezza e dirittura professionale (art. 38 R.D.L. 1578/1933);

  2. e il caso in cui esso scaturisca da fatti costituenti anche reato e per i quali sia iniziata l’azione penale (art. 44 R.D.L. cit.).

Nel primo caso (sub a), in cui l’azione disciplinare è legata ad ipotesi generiche e a fatti anche atipici, il termine prescrizionale comincia a decorrere dalla commissione del fatto.

Nella seconda ipotesi (sub b), il procedimento disciplinare è collegato alla pronuncia penale – che non sia di proscioglimento perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso – e ha ad oggetto lo stesso fatto per il quale è stata formulata l’imputazione. In tale situazione, l’azione disciplinare riveste natura obbligatoria e non può principiare prima che se ne sia realizzato il presupposto. Pertanto, la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto di punire possa essere esercitato e, quindi, dal passaggio in giudicato della sentenza penale, costituente fatto esterno alla condotta (Cass. SS. UU. 35461/2021; CNF 219/2021; CNF 202/2021). Infatti, secondo la disciplina previgente (art. 44 R.D.L. cit.), il procedimento disciplinare deve essere svolto a carico del legale ritenuto responsabile dell’illecito penale con sentenza passata in giudicato e deve essere sospeso in attesa della conclusione dello stesso. La norma stabiliva il principio di pregiudizialità necessaria del procedimento penale rispetto a quello disciplinare e il termine di prescrizione per l’esercizio dell’azione disciplinare iniziava a decorrere solo dall’esito del processo penale (CNF 12/2021).

Per completezza espositiva, si ricorda che la legge professionale forense (art. 54 legge 247/2012) stabilisce il principio dell’autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale avente ad oggetto i medesimi fatti (CNF 59/2022). Mentre la disciplina precedente prevedeva una sospensione obbligatoria, la disciplina vigente dispone una sospensione facoltativa del giudizio disciplinare in caso di contemporanea pendenza del processo penale. La sospensione può aver luogo solo qualora risulti indispensabile acquisire atti e notizie appartenenti al processo penale. In ogni caso, la sospensione avviene a tempo determinato e non può superare i 2 anni (art. 54 c. 2 legge 247/2012).

Torniamo ora alla questione principale.

La prescrizione dell’azione disciplinare

In base a quanto sopra esposto, il termine prescrizionale per l’esercizio dell’azione disciplinare, nel caso di fatti costituenti reato, decorre dal passaggio in giudicato della sentenza penale. Tuttavia, tale principio:

  • opera nel caso in cui la prescrizione non sia già maturata al momento dell’esercizio dell’azione penale o in quello della formulazione dell’imputazione,

  • non opera nell’ipotesi in cui il termine prescrizionale dell’illecito disciplinare sia interamente decorso al momento dell’esercizio dell’azione penale (Cass. SS. UU. 19030/2021; CNF 202/2021; CNF 179/2021; CNF143/2021).

Ciò premesso, è necessario stabilire se la prescrizione sia decorsa prima dell’inizio dell’azione penale o della formulazione dell’imputazione, se precedente.

Ebbene, i fatti contestati risalgono alla fine dell’agosto 2001, la dichiarazione di fallimento che rileva al fine della consumazione del reato, è avvenuta nel 2002, l’azione penale è stata esercitata a gennaio 2009 con la richiesta di rinvio a giudizio, pertanto, ben oltre i 5 anni sia dalla commissione del fatto che dalla dichiarazione di fallimento.

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L’avviso di conclusione indagini non interrompe la prescrizione

L’incolpato ha considerato l’avviso di conclusioni indagini (art. 415 bis c.p.p.) come equivalente all’esercizio dell’azione penale. Tale avviso era stato notificato nel 2006 e, quindi, prima del decorso del termine di 5 anni previsto per l’esercizio dell’azione disciplinare. Il CNF ricorda che l’esercizio dell’azione penale è ricollegabile (art. 405 c.p.p.):

  • alla richiesta di rinvio a giudizio,

  • alla formulazione dell’imputazione nei casi di applicazione della pena su richiesta delle parti, giudizio direttissimo, giudizio immediato e procedimento per decreto.

Occorre stabilire cosa intenda la giurisprudenza affermando che il termine prescrizionale per l’esercizio dell’azione disciplinare, nel caso di fatti costituenti reato, decorre dal passaggio in giudicato della sentenza penale nel caso in cui la prescrizione non sia già maturata al momento dell’esercizio dell’azione penale “o in quello anteriore della formulazione di una imputazione per il medesimo fatto”. Tale ultima espressione sembrerebbe significare che la prescrizione vada verificata facendo riferimento ad un momento anteriore rispetto all’esercizio dell’azione penale. A tal fine, l’avviso di conclusione delle indagini non assume alcun valore atteso che non contiene l’imputazione, ma solo un’enunciazione del fatto. Pertanto, non rientra tra quei fatti anteriori all’imputazione idonei ad interrompere il decorso della prescrizione. La giurisprudenza di legittimità (Cass. SS. UU. 21833/2007) ha escluso che tra gli atti interruttivi della prescrizione rientri l’avviso ex art. 415 bis c.p.p. Infatti, non si tratta di un atto decisorio, coercitivo o probatorio né propulsivo del procedimento. Al contrario, esso segnala solo la fine delle indagini e «serve essenzialmente a verificare il grado di resistenza del materiale investigativo dell’accusa rispetto alle sollecitazioni – consistenti nel deposito di memorie e documenti, richieste al pubblico ministero di compimento di atti di indagine, deposito di documentazione relativa ad indagini difensive – in senso opposto formalizzate dalla difesa». L’avviso reca un contenuto meramente informativo e pone l’indagato nelle condizioni di predisporre delle difese prima che intervenga un atto propulsivo del procedimento (come la richiesta di rinvio a giudizio). Inoltre, non sono equivalenti l’invito a rendere interrogatorio (ex art. 375 c.p.p.) e la facoltà di presentarsi al P.M per rendere dichiarazioni o essere sottoposto all’interrogatorio previsto dall’art. 415 bis c.p.p.[1] Mentre il primo è un atto avente natura probatoria a cui è ricollegata una capacità interruttiva, perché espressione della volontà dello Stato di perseguire l’illecito, il secondo è un atto che si inserisce nella strategia difensiva dell’indagato e non assume alcun rilievo sotto il profilo della volontà punitiva dell’ordinamento.

Conclusioni: non doversi procedere per intervenuta prescrizione

In conclusione, l’avviso di conclusione delle indagini (art. 415 bis c.p.p.) non costituisce un atto interruttivo della prescrizione del reato ai sensi dell’art. 160 c.p. Pertanto, il suddetto avviso non costituisce «una ipotesi di esercizio dell’azione penale tale da interrompere il termine di prescrizione dell’azione disciplinare che, per tale motivo, deve ritenersi maturato prima dell’esercizio dell’azione penale». Il Consiglio Nazionale Forense accoglie il ricorso dell’avvocato e dichiara non doversi procedere per intervenuta prescrizione.

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[1] La pronuncia chiarisce quanto segue. «Si tratta, invero, di due istituti assai diversi. Nel primo caso è il pubblico ministero che invita l’indagato a presentarsi, con possibilità anche di accompagnamento coattivo per l’indagato che non ottemperi all’invito, quando è necessario procedere ad atti di indagine che richiedono la presenza della persona sottoposta alle indagini. Si tratta all’evidenza di un atto che è funzionale allo svolgimento delle indagini che lo stesso organo dell’accusa ritenga indispensabile, e che rientra tra gli atti processuali aventi natura probatoria ai quali correttamente viene riconosciuta capacità interruttiva della prescrizione perché testimoniano la volontà dello Stato di perseguire l’illecito. Nell’articolo 415 bis è, invece, prevista la facoltà dell’indagato di chiedere di presentarsi per rilasciare dichiarazioni o rendere interrogatorio. Si tratta di atto, pertanto, non provocato da una iniziativa del pubblico ministero, ma ricondotto ad una volontà dell’indagato che ritenga attraverso quello strumento di poter far valere le proprie ragioni» (Cass. SS. UU. 21833/2007).


 

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