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Cosa accade quando un Istituto di credito mutuante, dopo aver “tollerato” l’inesatto adempimento di un accordo transattivo a suo tempo raggiunto col mutuatario, cede il suo credito senza, però, aver «previamente comunicato al debitore di avvalersi della clausola risolutiva» ex art. 1456 c.c. ivi contenuta? Può la società cessionaria, avvalendosi di tale clausola, procedere esecutivamente nei confronti del debitore sulla base del mutuo fondiario?

La risposta arriva dal Tribunale di Sassari che, con la sentenza n. 918/2023 del 21 settembre 2023, ha ritenuto fondata un’opposizione a precetto, dichiarando che la società cessionaria del credito «non ha diritto a procedere allo stato ad esecuzione forzata nei confronti degli opponenti sulla base del mutuo fondiario» e del successivo atto di precetto, posto che «la cessionaria può soltanto limitarsi a ricevere i pagamenti dovuti in forza dell’accordo transattivo e ciò fino al suo adempimento definitivo o alla sua risoluzione ad opera del creditore cedente che resta l’unica parte del contratto»[1].

Il fatto.

Più nello specifico, nel procedimento di opposizione a precetto sottoposto all’esame del Giudice sardo, gli opponenti avevano convenuto in giudizio una società cessionaria del credito esponendo: « – che la predetta società aveva loro intimato, con atto di precetto, il pagamento della complessiva somma di euro  (…) , dovuti in forza del contratto di mutuo fondiario; – che, verificatosi l’inadempimento delle obbligazioni derivanti dal mutuo, l’Istituto di credito mutuante aveva comunicato la risoluzione del contratto con decadenza dal beneficio del termine; – che (…) in accoglimento di una proposta degli opponenti (…), la banca mutuante aveva concluso un accordo stragiudiziale (…) per la rimodulazione e il pagamento rateale della somma concordata; – che gli opponenti avevano versato complessivamente (…) euro; – che  il credito per il quale era stato intimato il pagamento difettava del requisito della certezza, liquidità ed esigibilità non essendo note le modalità di calcolo degli interessi applicate dalla cessionaria e non essendo state conteggiate le somme medio tempore corrisposte dagli opponenti in esecuzione dell’accordo transattivo che doveva ritenersi in corso».

Su tali basi, oltre ad un rilievo preliminare sulla procura alle liti, gli opponenti hanno domandato la declaratoria di nullità, illegittimità, inefficacia del precetto opposto.

Si è costituita in giudizio la società di Servicing, quale rappresentante della società cessionaria del credito, resistendo all’opposizione e invocandone «il rigetto, in particolare, rilevando la propria legittimazione ad agire in qualità di cessionaria del credito e come una eventuale richiesta di somme in eccesso a quelle effettivamente dovute non priverebbe di efficacia il precetto nei limiti di quanto effettivamente dovuto».

Il Tribunale sospendeva «l’efficacia esecutiva del titolo esecutivo (…) sul rilievo della presenza di un accordo transattivo intercorso dal (omissis) con la banca cedente che era stato quanto meno parzialmente adempiuto dagli opponenti, i quali in corso di causa hanno continuato ad effettuare rimesse in esecuzione di tale accordo».

La causa è stata istruita esclusivamente con produzioni documentali ed è stata trattenuta in decisione sulle conclusioni di cui ai rispettivi atti introduttivi.

La decisione.

Sorvolando e rimandando alla lettura del provvedimento per quel che concerne il rilievo preliminare relativo al difetto di procura alle liti del difensore, l’attenzione va posta sull’iter motivazionale che ha portato a negare alla cessionaria del credito il «diritto a procedere allo stato ad esecuzione forzata nei confronti degli opponenti».

Il “punto dirimentedella controversia è stato individuato nella circostanza che tra gli opponenti e la banca cedente fosse in corso, già prima della data di avvenuta cessione del credito alla società opposta, un accordo transattivo in forza del quale era stato rimodulato il debito ed il piano di ammortamento.

Come rilevato dal Giudice, «tale accordo era ed è tutt’ora in corso in quanto nonostante taluni inadempimenti della parte debitrice (che comunque sta adempiendo seppur in modo inesatto) la controparte contrattuale, ossia» la Banca cedente, «non ha mai previamente comunicato di avvalersi della clausola risolutiva espressa contenuta nell’accordo transattivo, dichiarazione assolutamente necessaria per produrre l’effetto risolutivo secondo quanto previsto dall’art. 1456 comma 2, c.c. a norma del quale “la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva”».

Il giudicante, infatti, ha ritenuto che non si potesse dubitare che «la clausola contenuta nell’accordo transattivo (l’efficacia del presente accordo stragiudiziale (…) è sospensivamente condizionata al rispetto del piano di rientro accordato con avvertimento che in difetto di puntuale adempimento lo stesso si intenderà decaduto ad ogni effetto e conseguenza di legge e ci riterremo liberi di agire per il recupero integrale dell’originario credito) a prescindere dall’utilizzo di espressioni del tutto imprecise tecnicamente debba essere interpretata nel senso che le parti abbiano inteso rimodulare i pagamenti con effetto estintivo dell’obbligazione al momento del pagamento del saldo della somma concordata nell’ambito del piano di rientro (verosimilmente nella nota del (….) citata dalle parti ma non prodotta in giudizio) – in questo senso deve intendersi prevista la condizione sospensiva ossia l’efficacia liberatoria dell’adempimento al piano concordato – e che l’inesatto adempimento avrebbe potuto comportare la risoluzione dell’accordo stesso».

Né può dubitarsi del fatto che – sempre secondo il giudicante – «l’unico soggetto legittimato a far valere la clausola risolutiva espressa sia solo e soltanto» l’Istituto di credito cedente «in quanto nel caso di specie è stato ceduto il solo credito e non anche il contratto».

A sostegno della sua motivazione, il giudicante ha richiamato la sentenza della Cassazione n. 17727/2018, che ribadisce un vecchio e consolidato principio della Suprema Corte, secondo il quale: “mentre la cessione del contratto opera il trasferimento dal cedente al cessionario, con il consenso dell’altro contraente, dell’intera posizione contrattuale, con tutti i diritti e gli obblighi ad essa relativi, la cessione del credito ha un effetto più circoscritto, in quanto è limitata al solo diritto di credito derivato al cedente da un precedente contratto e produce, inoltre, rispetto a tale diritto, uno sdoppiamento fra la titolarità di esso, che resta all’originario creditore-cedente, e l’esercizio, che è trasferito al cessionario. Dei diritti derivanti dal contratto, costui acquista soltanto quelli rivolti alla realizzazione del credito ceduto, e cioè, le garanzie reali e personali, i vari accessori e le azioni dirette all’adempimento della prestazione. Non gli sono, invece, trasferite le azioni inerenti alla essenza del precedente contratto, fra cui quella di risoluzione per inadempimento, poiché esse afferiscono alla titolarità del negozio, che continua ad appartenere al cedente anche dopo la cessione del credito» [2].

A supporto, inoltre, è stato evidenziato che, nel caso di specie, la banca cedente non si era avvalsa del diritto potestativo di far valere la clausola risolutiva «ma ha tollerato l’inesatto adempimento (sicché ora non sarebbe conforme a buona fede l’esercizio della clausola risolutiva per inadempimenti passati, ma potrà esserlo qualora si verifichino nuovi inadempimenti nel futuro)», sottolineando anche il fatto che «nel tempo gli opponenti hanno comunque continuato ad eseguire pagamenti in conformità all’accordo raggiunto».

Tali considerazioni hanno portato il magistrato a concludere che «il diritto di credito consacrato nel titolo esecutivo non sia allo stato esigibile in quanto la cessionaria può soltanto limitarsi a ricevere i pagamenti dovuti in forza dell’accordo transattivo e ciò fino al suo adempimento definitivo o alla sua risoluzione ad opera del creditore cedente che resta l’unica parte del contratto, né esso è liquido in quanto non è si conosce la somma complessivamente dovuta a monte in forza dell’accordo transattivo in corso».

A tale assorbente motivo si è aggiunto anche un’ulteriore causa di illegittimità della paventata azione esecutiva. «Dall’esame del titolo esecutivo», infatti, è risultato che uno dei due opponenti non è «debitore ma soltanto terzo datore di ipoteca sicché del tutto scorretta è la notificazione ad esso del precetto in qualità di destinatario dell’intimazione di pagamento, come avvenuto nel caso di specie».

Ergo, sulla base di tali motivazioni, il Tribunale adito ha ritenuto fondata l’opposizione all’esecuzione, dichiarando che la società di Servicing, quale rappresentante della società cessionaria del credito, «non ha diritto a procedere allo stato ad esecuzione forzata nei confronti degli opponenti», condannando la società opposta alla rifusione delle spese processuali in favore degli avv.ti degli opponenti.

*******

Riflessioni a margine della sentenza.

L’iter argomentativo che ha portato il Tribunale di Sassari ad accogliere l’opposizione all’esecuzione poggia sulla distinzione sostanziale che intercorre tra la posizione del cessionario nella cessione del credito e quella nell’ambito di una cessione del contratto. E non poteva essere diversamente posto che la questione nevralgica della decisione è stata la verifica della legittimazione della società opposta, mera cessionaria del credito, di avvalersi della clausola risolutiva contenuta nell’accordo transattivo, intervenuto prima della cessione, tra i debitori/opponenti e la Banca cedente, eccezione, peraltro, rilevabile anche d’ufficio [3].

La sentenza in commento offre, quindi, l’occasione per svolgere alcune riflessioni, sia sulla differenza tra cessione del credito e cessione del contratto sia sul potere potestativo insito nella clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c. e sulla distinzione tra detta clausola e la condizione risolutiva ex art. 1353.

Differenze tra cessione del credito e cessione del contratto.

Come è noto, «il contratto di cessione del credito, in base all’art. 1260 c.c. si realizza mediante un accordo tra creditore cedente e cessionario e prevede che, ai sensi dell’art. 1263 comma 1 c.c., insieme al contratto vengano trasferiti privilegi, garanzie personali e reali, e altri accessori, ritenendo ricomprese in tale definizione le azioni poste a tutela del credito» [4].

La cessione del contratto, invece, è un contratto con cui le parti si accordano con un terzo per trasferirgli un contratto, o meglio, una posizione contrattuale, con gli obblighi e diritti connessi [5].

È del tutto evidente, dunque, che «la differenza tra le due figure (…) sta anzitutto nell’oggetto: con la cessione del credito si cede solo il lato attivo del rapporto, mentre con la cessione del contratto si cede tutta la posizione contrattuale» [6].

In altre parole, mentre con la cessione del contratto la sostituzione del cessionario non è «solo nel debito o nel credito, ma in tutte le posizioni attive o passive, principali e accessorie, pertinenti al rapporto giuridico ceduto» [7]; con la cessione del credito, invece, viene trasferito il solo diritto di credito.

In merito a tale distinzione, già da tempi risalenti, si è espressa anche la Suprema Corte, affermando il noto principio – ribadito nel corso degli anni e richiamato anche nella sentenza del Tribunale di Sassari -, secondo il quale «nella cessione del contratto, disciplinata dall’art. 1406 c.c., si verifica una sostituzione nella figura di una parte di un contratto a prestazioni corrispettive non ancora eseguite: sostituzione che è totale, in quanto il cedente viene completamente estromesso dalla titolarità del rapporto, che, invece, viene conseguita dal cessionario, il quale sarà l’unico legittimato a ricevere la prestazione e ad avvalersi dei rimedi contrattuali, in quanto tenuto a sua volta a eseguire una prestazione a favore del contraente ceduto. Nella cessione del credito, invece, disciplinata dagli artt. 1260 c.c. e ss., il trasferimento, anche se il credito nasce da contratto, ha per oggetto solo il credito in quanto tale, e la sostituzione riguarda unicamente la posizione del creditore; ne consegue che il cessionario del credito, non essendo anche parte del contratto costitutivo del credito stesso, non può avvalersi di poteri connessi a tale posizione di parte» [8].

Il significato dell’espressione normativa “altri accessori” di cui all’art. 1263

Tuttavia, non essendoci una definizione legislativa di “accessori”, si è molto discusso sul significato dell’espressione normativa di cui all’art. 1263 c.c. e, in particolare, se nella stessa possano essere ricomprese, oltre alle azioni poste a tutela del credito, anche quelle relative al contratto dal quale lo stesso prende origine.

Invero, la giurisprudenza, in più occasioni, ha definito concretamente “gli accessori” trasferirti per effetto della cessione, delimitandone, altresì, il contenuto ed i limiti.

Secondo la Suprema Corte, infatti, «la previsione del primo comma dell’art. 1263 c.c., in base alla quale il credito è trasferito al cessionario, oltre che con i privilegi e le garanzie reali e personali, anche con gli “altri accessori“, dev’essere intesa nel senso che nell’oggetto della cessione rientri la somma delle utilità che il creditore può trarre dall’esercizio del diritto ceduto, cioè ogni situazione giuridica direttamente collegata con il diritto stesso, la quale, in quanto priva di profili di autonomia, integri il suo contenuto economico o ne specifichi la funzione, ivi compresi tutti i poteri del creditore relativi alla determinazione, variazione e modalità della prestazione» [9].

Dello stesso avviso anche la dottrina, secondo cui la cessione del credito comporta il trasferimento automatico delle cauzioni, così come del modus «in quanto, di regola, essi rappresentano accessori al credito, ma anche della clausola penale che ha la funzione di rafforzare l’obbligazione» [10].

«Vengono, inoltre, trasmesse automaticamente le eccezioni, considerato che la cessione del credito non comporta novazione, ma soltanto una modificazione soggettiva di un rapporto contrattuale che per il resto rimane immutato: la conseguenza è che il ceduto potrà eccepire al cessionario tutte le eccezioni che avrebbe potuto far valere nei confronti del cedente, fatta eccezione per la compensazione che segue una particolare disciplina» [11].

Al contrario, non sono ritenute oggetto di trasferimento né la caparra confirmatoria, né la caparra penitenziaria, «in quanto la prima costituisce una garanzia dell’impegno negoziale nel suo complesso piuttosto che della singola obbligazione, mentre la seconda rappresenta il corrispettivo del recesso e non può essere annoverata tra gli accessori di uno dei crediti collegati al contratto» [12].

Più problematica, invece, la questione per quanto concerne azioni concesse al cessionario e rientranti nella nozione di accessori.

A tal proposito gli Ermellini hanno precisato che al cessionario competono solo le azioni «dirette alla cognizione e alla soddisfazione del credito». Infatti, «la previsione del primo comma dell’articolo 1263 c.c., in base alla quale il credito è trasferito al cessionario, oltre che con i privilegi e le garanzie reali e personali, anche con gli «altri accessori», deve essere intesa nel senso che nell’oggetto della cessione rientri ogni situazione giuridica direttamente collegata con il diritto di credito stesso, ivi compresi tutti i poteri del creditore relativi alla tutela del credito. Tuttavia, al cessionario non sono trasferite le azioni inerenti alla essenza del contratto, poiché esse afferiscono alla titolarità del negozio, che continua ad appartenere al cedente anche dopo la cessione del credito» [13].

Ne consegue che si ritengono ricomprese nel significato di accessori le azioni giudiziarie volte a rafforzare la conservazione e la realizzazione del credito, quali il sequestro e le azioni esecutive, mentre competono al cedente le azioni di nullità, annullamento e di rescissione, nonché i rimedi predisposti per i contratti sinallagmatici (risoluzione per inadempimento, per sopravvenuta eccessiva onerosità e per sopravvenuta impossibilità della prestazione) [14].

Inoltre, con particolare riferimento all’azione di risoluzione per inadempimento, la Suprema Corte ha precisato che «riconoscere siffatta legittimazione al cessionario, che (come detto) non si inserisce in quel rapporto sinallagmatico che giustifica l’esperibilità dell’azione di risoluzione, significa consentirgli una indebita ingerenza nella sfera giuridica del cedente, il quale invece, nonostante la cessione, è sempre parte del contratto originario» [15].

A tale soluzione interpretativa, ribadita anche recentemente dalla Suprema Corte [16], ha aderito anche la dottrina più autorevole «prevedendo unicamente alcune possibili opzioni nel senso di escludere tale risultato nell’ipotesi in cui con la cessione venga meno l’interesse del cedente all’esercizio di tali azioni oppure di prevedere l’indispensabilità, soprattutto nell’ipotesi di risoluzione, del consenso del cessionario. Soltanto in via residuale è stata prevista la possibilità per il cessionario di proporre l’azione di nullità e quello di annullamento ai sensi dell’art. 1441 comma 2° cod civ dovendo tale opzione ricollegarsi alle finalità di tutela di ordine generale che sono alla base delle suddette azioni» [17].

Del resto questo è lo stesso iter argomentativo che viene utilizzato per eccepire la mancanza di legittimazione passiva in capo alla cessionaria del credito, soprattutto, con riferimento alla domanda di ripetizione dell’indebito, evidenziando come essa non possa ritenersi soggetto passivo in relazione a un contratto stipulato dalla banca cedente con la parte attrice del giudizio [18].

Detto tutto ciò, tornando al caso specifico della sentenza in commento, dalla lettura del provvedimento emerge che oggetto dell’operazione di cartolarizzazione è stato il solo diritto di credito derivante dal contratto di mutuo stipulato dalla Banca cedente con l’opponente e non anche lo stesso contratto. 

Pertanto, la società cessionaria, non essendosi inserita nel rapporto sinallagmatico di cui al contratto di mutuo, né nel successivo accordo transattivo con cui è stato rimodulato il debito e il piano di ammortamento, non può esperire i rimedi posti a tutela della parte contrattuale, né quelli giudiziali né quelli convenzionali.

Infatti, secondo la Suprema Corte, tra gli altri accessori di cui all’art. 1263 c.c., comma 1, «vanno senz’altro ricompresi, come anche in dottrina posto in rilievo, i poteri connessi al contenuto e all’esercizio del credito, e in particolare i rimedi convenzionali contro l’inadempimento (es., clausola penale). Non anche, invero, i rimedi posti a tutela della parte contrattuale, sia giudiziali (es., l’azione di risoluzione o di annullamento o di rescissione del contratto), che convenzionali (es., clausola risolutiva espressa), attenendo essi alla sorte del contratto, e non del mero credito» [19].

Ecco, dunque, perché, trattandosi di un rimedio convenzionale, posto a tutela della parte contrattuale, la società cessionaria del credito non poteva avvalersi del potere potestativo di cui alla clausola risolutiva prevista nell’accordo transattivo intercorso tra la banca cedente e la parte debitrice.

La clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c.

Il vero nucleo fondante della decisione in commento, infatti, è stato che tra gli opponenti e la Banca cedente fosse in corso, già prima della data di avvenuta cessione del credito, un accordo transattivo, in forza del quale era stato rimodulato il debito ed il piano di ammortamento, la cui efficacia veniva «sospensivamente condizionata al rispetto del piano di rientro accordato» con l’espresso avvertimento che in difetto di puntuale adempimento lo stesso si intenderà decaduto ad ogni effetto e conseguenza di legge» e che la mutuante si sarebbe  ritenuta libera «di agire per il recupero integrale dell’originario credito» [20].

Ebbene, il Giudice non ha avuto dubbi nel qualificare tale disposizione pattizia come una clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c., rilevando, inoltre, come l’Istituto di Credito cedente, nonostante taluni inadempimenti della parte debitrice, non avesse «mai previamente comunicato di avvalersi» di tale clausola, «dichiarazione assolutamente necessaria per produrre l’effetto risolutivo secondo quanto previsto dall’art. 1456 comma 2, c.c. a norma del quale la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva»[21].

L’effetto fondamentale della clausola risolutiva espressa, infatti, non è la risoluzione ipso iure del contratto, bensì la facoltà di recesso unilaterale a favore del creditore titolare del diritto potestativo, la cui dichiarazione di giovarsi della clausola costituisce presupposto indefettibile per sua operatività [22].

In altre parole «la risoluzione di diritto del contratto non opera automaticamente, per effetto del mero inadempimento di una delle parti, ma nel momento in cui il contraente nel cui interesse è stata pattuita la clausola risolutiva comunica all’altro contraente l’intenzione di volersene avvalere» [23].

Ne consegue che, costituendo un rimedio convenzionale che attiene alla sorte del contratto e non del credito, ed essendo stato ceduto nel caso di specie il solo credito, «l’unico soggetto legittimato a far valere la clausola risolutiva espressa» è «solo e soltanto» la Banca cedente, e non già la cessionaria.

È indubbio che, nel caso in parola, ha giocato sicuramente un ruolo fondamentale la “tolleranza” della Banca rispetto all’inadempimento della parte debitrice.

Tuttavia, come afferma la Suprema Corte, «la tolleranza della parte creditrice non comporta l’eliminazione della clausola, né determina la tacita rinuncia ad avvalersene, qualora la stessa parte creditrice, contestualmente o successivamente all’atto di tolleranza, manifesti l’intenzione di volersene avvalere in caso di ulteriore protrazione dell’inadempimento, in quanto con tale manifestazione di volontà (…)il creditore comunque richiama il debitore all’esatto adempimento delle proprie obbligazioni» [24].

Ed è pur vero che «la dichiarazione di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa (art. 1456, comma 2, c.c.) può essere resa, senza necessità di formule rituali, anche in maniera implicita, purché inequivocabile», e che «non deve essere necessariamente contenuta in un atto stragiudiziale precedente alla lite, ma può manifestarsi, per la prima volta, pure nel corso del giudizio, o nell’atto introduttivo di quest’ultimo, anche se nullo» [25].

In ogni caso, nella fattispecie oggetto della decisione in parola, pur potendo essere inserita, anche implicitamente, ad esempio, in una lettera di messa in mora o in un atto di precetto, doveva, comunque, essere resa dalla Banca cedente.

Ma ciò non è avvenuto. A giovarsi della clausola in parola è stata la società cessionaria del credito che, invece, si sarebbe dovuta «limitare a ricevere i pagamenti dovuti in forza dell’accordo transattivo» [26], pagamenti che, seppur parziali ed in ritardo, la parte debitrice ha continuato ad effettuare e, sia la banca cedente prima sia la cessionaria poi, hanno continuato ad accettare.

E, proprio l’aver continuato ad accettare siffatti pagamenti (anche in corso di causa), in ogni caso, – come ha affermato, correttamente, il Tribunale di Sassari – rende «nonconforme a buona fede l’esercizio della clausola risolutiva per inadempimenti passati, ma potrà esserlo qualora si verifichino nuovi inadempimenti nel futuro» [27].

A tal proposito, è d’uopo ricordare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, detta comunicazione «non può, in nessun caso, avere effetto se la controparte ha già adempiuto alle proprie obbligazioni contrattuali, anche se ciò è avvenuto oltre i termini previsti nel contratto per l’adempimento, atteso che fino a quando il creditore non dichiari di volersi avvalere della detta clausola il debitore può adempiere seppur tardivamente, la sua obbligazione» [28].

Infine, appare opportuno precisare anche che, sebbene la qualificazione giuridica della disposizione pattizia data dal Tribunale di Sassari appaia condivisibile, tuttavia, la presenza nella clausola di «espressioni del tutto imprecise tecnicamente» [29], seppur a torto, potrebbe evocare la presenza non già di una clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c. ma bensì di una condizione risolutiva ex art.1353 c.c.

«Si tratta, infatti, di figure affini, dai confini labili, caratterizzate da inevitabili punti di contatto» ma che differiscono «in punto di elementi costitutivi delle relative fattispecie, di interessi concretamente perseguiti dalle parti, nonché di opponibilità nei confronti dei terzi» [30].

Infatti, come puntualizza la Cassazione, «si ha condizione risolutiva (art. 1353 c.c.), allorquando le parti subordinino la risoluzione del contratto o di un singolo patto a un evento futuro e incerto. Qualora si verifichi la condizione risolutiva, gli effetti del negozio si considerano come mai verificati. La clausola risolutiva espressa (art. 1456 c.c.), invece, è la clausola con la quale le parti prevedono che il contratto dovrà considerarsi risolto qualora una determinata obbligazione non venga adempiuta affatto o non venga adempiuta secondo le modalità stabilite. In tal caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte non inadempiente (la quale ha diritto di scegliere tra il mantenimento del contratto e la sua risoluzione) dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva» [31], diversamente da quanto accade con «la risoluzione consensuale, o la sopravvenuta impossibilità della prestazione, che determinano automaticamente il venir meno del contratto, rappresentando fatti oggettivamente estintivi dei diritti nascenti da esso, possono essere accertati d’ufficio dal giudice» [32].

La differenza ai fini della risoluzione è netta, infatti, a fronte dell’assoluta irrilevanza del comportamento del creditore nell’ipotesi di condizione risolutiva, al contrario, «la clausola risolutiva espressa affinché si possa produrre la risoluzione richiede, oltre all’inadempimento della specifica obbligazione dedotta, anche la dichiarazione di volersi avvalere della risoluzione per l’avveramento delle circostanze indicate in quanto essa costituisce una forma di autotutela privata ammessa dalla legge e consente alle parti di prevedere che, in caso di inadempimento, la parte creditrice abbia il potere (diritto potestativo) di risolvere immediatamente – senza ricorrere al giudice – il contratto e, quindi, di liberarsi dalla prestazione dell’obbligazione» [33].

In ogni caso, al di là dell’ipotesi specifica qui in commento, di fronte a una clausola risolutiva, stante il principio generale dell’autonomia contrattuale che consente ai contraenti di poter «prevedere validamente come evento condizionante (in senso sospensivo o risolutivo dell’efficacia) il concreto adempimento (o inadempimento) di una delle obbligazioni principali del contratto», sarà sempre opportuno valutare attentamente l’effettiva volontà delle parti, tenendo conto anche e soprattutto del tenore letterale della disposizione pattizia [34].

Conclusioni

In conclusione, un mero cessionario del credito non potrà avvalersi della clausola risolutiva inserita in un contratto stipulato tra il debitore e il cedente, in quanto con la cessione del credito non viene trasferita al cessionario la titolarità dello stesso, ma solo la sua esecuzione nonché la sua effettiva tutela.

Tuttavia, il cessionario del credito non rimane del tutto “disarmato” dinnanzi all’inadempimento del debitore ceduto. Come evidenziato nel corso della presente espositiva, infatti, «nell’oggetto della cessione rientra ogni situazione giuridica direttamente collegata con il diritto di credito stesso, ivi compresi tutti i poteri del creditore relativi alla tutela del credito e quindi anche le azioni giudiziarie a tutela del credito, tra cui l’azione di adempimento dell’obbligazione ceduta» [35].

Azione che, quindi, sempre che ne sussistano tutti i presupposti, poteva esercitare (o potrà, qualora si verifichino nuovi inadempimenti), anche la società cessionaria del credito di cui alla decisione in commento,

Difatti, l’azione di adempimento, detta anche azione di manutenzione del contratto, mira alla conservazione del negozio giuridico e consiste in una domanda giudiziale di condanna all’esecuzione delle prestazioni in esso dedotte. In poche parole, l’azione di adempimento del contratto è finalizzata alla conservazione del rapporto giuridico e consiste in una domanda giudiziale di condanna all’esecuzione della prestazione. La parte che agisce, infatti, chiede al giudice di condannare la controparte e costringerla ad adempiere il contratto. Presupposti per l’esercizio dell’azione sono, evidentemente, la sussistenza di un contratto a prestazioni corrispettive, il ritardo nell’adempimento della prestazione e l’attuale possibilità di adempiere l’obbligazione.

Con il vittorioso esperimento dell’azione di adempimento, più precisamente, l’attore avrà il titolo per ottenere il dare, facere o non facere oggetto dell’obbligazione e il contestuale risarcimento del danno subìto a causa del ritardo nell’adempimento mentre sarà a sua volta tenuto, da un lato, a ricevere la prestazione di controparte e, dall’altro, ad eseguire la prestazione dovuta (sempre che, ovviamente, non abbia già provveduto ad adempierla).

Dall’altro lato, la parte convenuta per l’adempimento, ove ne ricorrano i presupposti, può sollevare l’eccezione di cui all’art. 1460 c.c.; in tal caso, si renderà necessaria una valutazione comparativa dei reciproci inadempimenti per determinare quale tra i contraenti si sia reso responsabile della trasgressione più grave «tenendo conto soprattutto dei rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute, della loro incidenza sulla funzione economico-sociale del contratto, e quindi, degli interessi che le parti perseguono nella stipula» [36].

_________________________________

[1] Dello stesso tenore della sentenza in commento, si veda, sempre Trib. di Sassari, Giudice dott. F. De Giorgi, ordi. del 27/07/2023.

[2] Cfr. Cass. civ., Sez. III, sent. n. 17727 del 06/07/2018.

[3] Cfr.: Cass. sez. unite 1912/2012 e tra le successive, ex multis, Cass. 17092/2016.

[4] Cfr.: Cass. civ. sent. n. 17070/2017.

[5] L’art. 1406 c.c. dispone che «Ciascuna parte può sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite, purché l’altra parte vi consenta».

[6] Cfr. Cass. civ., ord n. 19849 del 26/07/2018, laddove vengono anche  chiarita «la differenza strutturale e funzionale» tra cessione del credito e cessione del contratto, con espresso richiamo a Cass. Sez. 2, Sentenza n.7752 del 24/06/1992 e Cass. Sez. 2, Sentenza n.11847 del 29/11/1993.

[7] Si veda: Cessione del contratto di P. FRANCESCHETTI, pubbl. il 02/05/2016 su altalex.com.

[8] Cfr. Cass., civ., sent. n. 776 del 28/04/1967, il cui principio ivi espresso è stato ribadito e confermato, nel corso degli anni, in varie pronunce della Suprema Corte (cfr., tra le tante: Cass. civ., sent. del 15.09.1999 n. 9823; Cass. civ., Sez. III, del 13/02/2013, n. 3579; Cass. civ. sent. n. 17070/2017; Cass. civ. ord n. 19849 del 26/07/2018; Cass. sez. I, 10/02/2020, n. 3034 e, recentemente, Cass. civ., Sez. III, sent. del 23/06/2022 n. 20315). Principio richiamato anche dalla giurisprudenza di merito, si vedano ex multis: Trib. di Vercelli, sent. del 03/12/2018, n.535; Trib. di Avvezzano, sent. n. 108/2019 del 20/02/2019; Corte d’Appello di Campobasso, sent. del 14.11.2022 n. 272.

[9] Cfr.: Cass. civ., Sez. Lavoro, sent. n. 13 del 5 gennaio 2012. Conforme: Cass. civ., Sez. I, sent. n. 2978 del 16/02/2016, dove, in base al medesimo ragionamento, si sono ritenuti ricompresi nell’oggetto della cessione «anche gli interessi scaduti dopo la cessione (e non, salvo patto contrario, quelli scaduti prima), alle condizioni e nella misura in cui, secondo la legge, essi erano dovuti al creditore cedente».

[10] Si vedano, tra gli altri: P.PERLINGIERI, “Della cessione dei crediti”, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1982, e ss. C.M. BIANCA, “L’obbligazione”, Milano, 1993, F. GAZZONI, “Manuale di diritto privato”, Napoli, 2000.

[11] Si veda: “La cessione del credito: cessione pro soluto e pro solvendo. Rapporti con la cessione del credito a scopo di garanzia” di Stefania De Marco, Pubbl. il 30/05/2020 in https://www.iusinitinere.it.

[12] Cfr.: “La cessione del credito: cessione pro soluto e pro solvendo. …”, di Stefania De Marco, cit.

[13] Cfr.: Cass. civ., sent. n. 3579/13 già cit.  Sulla base di tale assunto si è affermato, ad es., che nel novero delle azioni trasferite al cessionario non possono essere ricomprese le azioni risarcitorie scaturenti dall’inefficacia dell’originario contratto, anche se ne consegue l’inesigibilità del credito stesso (Cfr.: Corte d’App. di Campobasso, sent. n. 272 del 14/11/2022); si è altresì ritenuto che «non rientrano tra gli altri accessori relativi ai diritti ceduti, indicati dall’art. 1263 cod. civ., le spese processuali che, invece, rimangono di spettanza del dante causa che le ha effettivamente sostenute» (Cfr.: Cass. civ., Sez. III, sent. n. 4483 del 25/02/2009); più o meno dello stesso tenore anche Trib. di Reggio Calabria, sent. n. 1224 del 02/11/2022. Lo stesso ragionamento ha portato ad affermare che «il cessionario beneficia “ope legis” degli effetti dell’azione revocatoria vittoriosamente esperita dal cedente a tutela del credito oggetto della cessione e, quindi, acquista il diritto – ex art. 2902 c.c., non concepibile come scisso dal credito ceduto – di agire “in executivis” nei confronti del terzo acquirente» (Cfr. Cass. civ., Sez. III, sentenza n. 20315 del 23/06/2022).

[14] Cfr. Cass. civ., ord n. 19849 del 26/07/2018. Invero il potere di esercitare tutte le azioni previste dalla legge a tutela del credito, gli spetta già in base al principio generale della tutela giurisdizionale dei diritti (Cfr.: Cass. civ., sent. del 18/7/2006, n. 16383; Cass., civ. sent. del 9/12/1971, n. 3554.

[15] Cass. civ., sent. del 15/09/1999 n. 9823, cit.

[16] Cfr.: Cass. civ., sez. I, sentenza 10/02/2020, n. 3034.

[17] Cfr.: Trib. di Avvezzano, sent. n. 108/2019 cit. Per i riferimenti dottrinali si veda nota 10.

[18] Sulla legittimazione passiva della cessionaria si veda, ex multis: Cass. Civ. 21843/2019.

[19] Cfr. Cass. sez. III civ. del 10/01/2012, n. 52 che richiama anche Cass., 28/4/1967, n. 776.

[20] Cfr.: Sentenza del Trib. di Sassari n. 918/2023 in commento, pag. 4.

[21] Cfr.: Sentenza del Trib. di Sassari n. 918/2023 in commento, pag. 4.

[22] Cfr. Cass., 16/05/2002, n. 7178. Sull’argomento si vedano, inoltre: Cass. civ., sent. del 02/10/2014, n. 20854; Cass. civ., sent. del 01/08/2007 n. 16993; Cass. civ., sent. del 05/01/2005 n. 167 e, dello stesso tenore anche Cass. civ., sent. del 2 ottobre 2014, n. 2085.

[23] Cfr.: Cass. civ., III sez., sent. del 31/08/2009 n. 18920 e Clausola risolutiva espressa e condizione risolutiva tra autonomia contrattuale e automatismo della risoluzione” di I. L. NOCERA, in Le Nuove Leggi Civili Commentate n. 3 Marzo 2010, Anno XXVI.

[24] Cfr.: Cass. civ., sent del 05/05/2022, n. 14195. Si vedano anche: Cass. civ. Sez. III, sent. n. 15026 del 15/07/2005: «… la tolleranza può invece incidere sulla posizione soggettiva del debitore, escludendone la colpa, specialmente ove si accompagni ad una regolamentazione pattizia degli interessi prevista proprio per i ritardi nei pagamenti» (Fattispecie relativa a mancato pagamento di canoni di contratto di leasing nonostante solleciti di pagamento) e, conformi, Cass. civ., Sez. II, sent. n. 24564 del 31 ottobre 2013 e Cass. civ. Sez. II, ord. n. 14195 del 05/05/2022.

[25] Cfr.: Cass. civ., Sez. I, sent. n. 4911/1995; Cass. civ., Sez. I, sent. n. 7178 del 16/05/2002; Cass. civ., sent. n. 5436 del 17/05/1995.

[26] Cfr.: Sentenza del Trib. di Sassari n. 918/2023 in commento, pag. 6.

[27] Cfr.: Sentenza del Trib. di Sassari n. 918/2023 in commento, pag. 6.

[28] Cfr.: Cass. civ., Sez. I, sent. n. 4911/1995,cit.

[29] Cfr.: Sentenza del Trib. di Sassari n. 918/2023 in commento, pag. 5.

[30] Si veda: “(In)adempimento ed evento condizionante l’efficacia del contratto: profili di autonomia privata e di interpretazione” di ANDREA LESTINI, pubbl. il 28/04/2022 in https://www.ratioiuris.it. Sull’argomento si vedano, inoltre: MARTONE, Condizione risolutiva d’inadempimento, in Le Nuove Leggi Civili Commentate, 2008, II, 71, e LENZI, Condizione, autonomia privata e funzione di autotutela: l’adempimento dedotto in condizione, Giuffrè, 1996; “Sul rapporto tra clausola risolutiva espressa e condizione risolutiva di adempimento”, in Riv. Notariato 2007, 1208; G. BIANCHI La condizione sospensiva o risolutiva nel contratto, in “Il Quotidiano Giuridico” del 07/01/2008.

[31] Cfr.: Cass.civ., Sez.III del 31/08/2009 n.18020.

[32] Cfr. Cass. civ., sent. 02/10/2014.

[33] Cass. civ., III sez., 31.8.2009, n. 18920.

[34] Cfr.: Cass. civ., sez. II, 8 agosto 1990, n. 8051.

[35] Cfr. Cass., civ., sent. n. 776 del 28/04/1967, cit.

[36] Cfr.: Cass. civ. 22/01/2009, n. 1618.

 

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