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Come noto, la liquidazione fallimentare ha per oggetto l’intero patrimonio del debitore, del quale fanno parte anche i rapporti giuridici sorti prima del fallimento ed ancora ineseguiti, o non compiutamente eseguiti, al momento della dichiarazione di fallimento. Ciò in quanto la funzione liquidatoria della procedura deve realizzarsi non soltanto attraverso la conversione in denaro dei diritti e dei beni del debitore, ma anche mediante la definizione dei rapporti giuridici patrimoniali derivanti da contratti da lui stipulati e tuttora pendenti al momento dell’avvio della procedura.

Uno dei problemi interpretativi che si poneva in luce, nel vigore della legislazione previgente, era la questione degli effetti che la dichiarazione di fallimento determinava sui contratti di lavoro pendenti.

Nel sistema previgente la disciplina degli effetti del fallimento sui rapporti giuridici preesistenti era contenuta nella sezione IV della legge fallimentare 1 (dagli artt. 72 ad 83 bis). Più specificatamente, all’art.72 rubricato “rapporti pendenti”, il legislatore aveva sancito la sospensione dei rapporti pendenti, fino a quando il curatore dichiarava di subentrare nel contratto in luogo del fallito, ovvero di sciogliersi dal medesimo.

La richiamata disposizione dettava la regola generale della sospensione, in attesa della decisione del curatore, applicabile ai rapporti pendenti a prestazioni corrispettive non eseguiti, o non compiutamente eseguiti da entrambe le parti, alla data della dichiarazione di fallimento di uno dei contraenti. Negli articoli a seguire da 73 a 83 bis il legislatore, invece, aveva dettato talune norme speciali ai fini della regolamentazione di singole tipologie di contratti ( contratti relativi agli immobili da costruire, locazione finanziaria, vendita con riserva di proprietà, contratti ad esecuzione continuata o periodica, restituzione di cose non pagate, contratto di borsa a termine, associazione in partecipazione, conto corrente, mandato, commissione, contratto di affitto di azienda, contratto di locazione di immobili, contratto di affitti di azienda, contratto di appalto, contratto di assicurazione, contratto di edizione, clausola arbitrale). Nessun accenno, invece, vi era sugli effetti della dichiarazione di fallimento ai rapporti di lavoro pendenti, con la conseguenza che, nel silenzio del legislatore, nel corso degli anni, sul punto, era nato un vivace dibattito giurisprudenziale e dottrinale. Più specificatamente, la giurisprudenza e la dottrina si sono a lungo dibattuti sull’esistenza dei presupposti di applicabilità della regola generale di cui all’art. 72 l.f previgente anche ai rapporti di lavoro pendenti.

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L’orientamento giurisprudenziale di legittimità più recente aveva evidenziato come l’istituto della sospensione trovasse spazio anche in riferimento ai contratti di lavoro. Più in particolare la Suprema Corte di Cassazione, anticipando le linee del nuovo codice della crisi, sul punto, con una recente sentenza, aveva stabilito che: “In caso di fallimento del datore di lavoro, salvo che sia autorizzato l’esercizio provvisorio, il rapporto di lavoro entra in una fase di sospensione, sicché il lavoratore non ha diritto di insinuarsi al passivo per le retribuzioni spettanti nel periodo compreso tra l’apertura del fallimento e la data in cui il curatore abbia effettuato la dichiarazione ex art. 72, comma 2, l.fall., in quanto il diritto alla retribuzione non sorge in ragione dell’esistenza e del protrarsi del rapporto di lavoro ma presuppone, in conseguenza della natura sinallagmatica del contratto, la corrispettività delle prestazioni2.

Di diverso avviso era invece la dottrina giuslavoristica3 secondo la quale il previgente art. 72 l.f. non poteva trovare applicazione in materia di contratti di lavoro, stante l’art. 2119, secondo comma, c.c., in forza del quale «non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda», con la conseguenza che i lavoratori, anche nel caso in cui non fossero stati utilizzati ma rimasti di fatto a disposizione degli organi del fallimento, maturavano il diritto alla retribuzione quale credito prededucibile.

Orbene, l’entrata in vigore del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, recante il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155, pone fine al vulnus normativo in materia, avendo il legislatore cristallizzato nell’art. 189 del richiamato decreto l’orientamento delineato dalla Suprema Corte di Cassazione.

Più specificatamente, il legislatore, all’art. 189 del richiamato decreto, pur mantenendo ferma la struttura di fondo dell’art. 72 della previgente normativa, ha introdotto una disciplina a sé stante circa i rapporti di lavoro pendenti alla data di avvio della procedura concorsuale, prevedendo che: “l‘apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro non costituisce motivo di licenziamento. I rapporti di lavoro subordinato in atto alla data della sentenza dichiarativa restano sospesi fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi, assumendo i relativi obblighi, ovvero il recesso”.

E l’applicazione obbligatoria della sospensione dei rapporti di lavoro di cui all’art.189 del richiamato decreto, nell’arco temporale che va dalla data di avvio della procedura fino alla scelta del curatore di subentrare in essi o scioglierli, fa venire meno sia l’obbligo retributivo a carico della curatela, sia il credito contributivo a favore dell’inps nei confronti dei lavoratori: ed il tutto in ossequio alla natura sinallagmatica del contratto di lavoro, la quale fa venire meno in assenza della prestazione il diritto alla retribuzione ed ogni altro diritto connesso e conseguenziale ad essa.

Ma la portata dell’art. 189 in vigore assume notevole importanza ove si consideri peraltro che al punto 3 introduce anche un limite alla eventuale inerzia del curatore che non opera una scelta in tempi ragionevoli. Ed infatti, si legge al punto 3 della richiamata disposizione che “in ogni caso, salvo quanto disposto dal comma 4, decorso il termine di quattro mesi dalla data di apertura della liquidazione giudiziale senza che il curatore abbia comunicato il subentro, i rapporti di lavoro subordinato che non siano gia’ cessati si intendono risolti di diritto con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale, salvo quanto previsto dai commi 4 e 6”.

La risoluzione automatica dei rapporti di lavoro, nel caso di inerzia del curatore di cui alla richiamata disposizione, fa venire meno la necessità per il lavoratore di mettere in mora il curatore – circostanza questa prevista dal previgente art. 72 l.f e dall’attuale art. 172 del richiamato decreto – per l’assegnazione di un termine entro il quale lo stesso avrebbe dovuto determinarsi e, decorso il quale il contratto si intendeva sciolto: inerzia che in taluni casi poteva anche dar luogo ad una responsabilità risarcitoria in capo al curatore.

(Altalex, 22 marzo 2019. Articolo di Vincenza Palazzolo)

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