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Il quadro che emerge dal rapporto pubblicato solo alcuni giorni fa da Istat e Banca d’Italia sulla ricchezza dei settori istituzionali nel nostro Paese evidenzia che le passività finanziarie delle famiglie italiane sono aumentate del 3,7% superando a fine 2021 la soglia dei 1.000 miliardi di euro. La notizia non stupisce: già nel Rapporto sull’educazione finanziaria 2022, predisposto un paio di mesi fa dal Comitato Edufin (Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria), si metteva in luce il sensibile aumento della quota di italiani che, nello scorso anno, ha speso più del reddito disponibile, erodendo risparmio o indebitandosi. Sono, del resto, ormai davvero numerose le indagini condotte dai più disparati enti e istituti di ricerca che rimandano una fotografia preoccupante quanto a impoverimento e sovraindebitamento di fasce crescenti di popolazione.

Proprio sul forte nesso sussistente fra povertà (come incapacità di far fronte alle spese per i consumi essenziali) e sovraindebitamento (come incapacità di adempiere a debiti che si sono assunti), vorrei richiamare l’attenzione, allo scopo di indicare qualche azione da inserire in via prioritaria nell’agenda politica dei prossimi mesi. Nel primo anno di attività dell’Osservatorio sul debito privato dell’Università Cattolica, di cui sono direttrice, abbiamo toccato con mano il ruolo nevralgico dell’accesso al credito e, in via correlata, della gestione consapevole dell’indebitamento. Per un verso, infatti, un “sano” ricorso al credito può costituire una via di uscita da condizioni di povertà – specie se sopravvenute in ragione di un contesto socio-economico reso arduo dal mix di rincari energetici, aumento dei tassi di interesse e crescente inflazione –, mentre un “cattivo” ricorso al credito può aggravare anche in modo irreversibile la condizione di difficoltà. D’altro canto, non va trascurato che le “nuove povertà” si rivelano spesso l’esito di storie malgestite di debiti pregressi.

Davanti a questi dati, quali strumenti di prevenzione e contrasto possono essere offerti dal sistema? Non che nel nostro Paese si sia sino ad ora rimasti inerti. Al contrario, in particolare nell’ambito del diritto concorsuale, è appena entrato in vigore il Codice della crisi che offre, sia alle imprese sia a consumatori e famiglie, nuovi strumenti di gestione delle situazioni di crisi. Ma si tratta perlopiù di strumenti postumi, e quindi tardivi, perché per loro natura presuppongono una crisi quanto meno già in vista, se non ormai deflagrata.

È, invece, sul terreno della prevenzione che occorre muoversi con maggiore decisione, così come si sta già facendo in altri Paesi europei. Non è un caso, infatti, che uno fra i tratti più innovativi della proposta di revisione della Direttiva sul credito al consumo alle ultime battute in Europa attenga a uno strumento ancora pressoché sconosciuto in Italia, ma già ben noto e sperimentato altrove, che prende il nome di “debt advice”. Data la scarsa diffusione dell’istituto, neppure esiste ancora un’adeguata traduzione dell’espressione inglese: si può parlare di “consulenza sul debito”, o forse ancor meglio di “assistenza sul debito”. Perché di questo si tratta: a breve, gli Stati membri saranno tenuti a garantire la presenza di servizi di assistenza ai consumatori (ma sarebbe un servizio di estrema utilità anche per artigiani e micro-imprese), al fine dell’adozione di comportamenti consapevoli nell’assunzione e gestione dei debiti.

Troppo spesso, infatti, chi contrae debiti, anche allo scopo di estinguerne di precedenti, lo fa senza una adeguata valutazione delle conseguenze. Da un lato le forme di sollecitazione al consumo sono sempre più aggressive e più subdole (basti pensare ai meccanismi del cosiddetto “buy now, pay later”, “compra ora, paga dopo”); da un altro lato, chi contrae debiti lo fa senza saperlo, o senza capirlo. In altri termini, l’assunzione di debiti di frequente dipende da un difetto o da una totale assenza di educazione finanziaria, tanto più nel caso dei consumatori: ed è questo allora l’orizzonte nel quale i servizi di assistenza sul debito dovrebbero inscriversi, nell’ottica di una reale prevenzione delle crisi e dei sovraindebitamenti (e cioè nell’ottica di impedirne l’insorgenza, prima ancora che di gestirne le conseguenze). Le situazioni di crisi o di sovraindebitamento, naturalmente, non potranno mai essere eliminate del tutto; ma si deve operare almeno perché siano il frutto di scelte assunte il più responsabilmente possibile. In questo senso, il debt advice è da ricondurre nell’ambito dell’educazione finanziaria, nello specifico finalizzata, però, non solo a innalzare il livello medio di conoscenze economico-finanziarie, ma a far acquistare alle persone maggiore consapevolezza sulle proprie capacità reddituali e patrimoniali e, quindi, sulla sostenibilità dei debiti che ci si assume.

Nei Paesi ove già esistono (ad esempio in Svezia, in Olanda, in Germania, in Inghilterra), i servizi di debt advice sono finanziati con soldi pubblici e, a volte, rientrano nell’operatività delle banche centrali, come forme di effettiva prevenzione delle crisi e dei sovraindebitamenti.

Tutti avrebbero da guadagnarne, se ci si riflette: in primo luogo i debitori, com’è ovvio, ma anche i creditori, i quali potranno ricavarne più probabilità di veder soddisfatti in futuro i propri crediti. E lo stesso sistema nel suo complesso: vuoi in un senso puramente efficientistico, sotto forma di alleggerimento giudiziario e di risparmio di spese sociali; vuoi in un senso più ampio, sotto forma di presa in carico e di inclusione proprio di quelle situazioni di marginalità in preoccupante aumento. Anche sotto questo aspetto il diritto assolverebbe meglio alla propria funzione, che dovrebbe essere sempre anche politica e sociale oltre che tecnica e formale.

*Direttrice dell’Osservatorio sul debito privato dell’Università Cattolica del Sacro Cuore

 

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