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La norma si compone di quattro commi. L’ultimo di essi si occupa del domicilio digitale nelle procedure concorsuali, come disciplinato nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, stabilendo che l’assegnazione del domicilio digitale a ciascuna procedura di liquidazione giudiziale, su impulso della cancelleria del tribunale concorsuale che ha dichiarato aperta la procedura, oggi prevista dall’art. 199, comma 1, c.c.i. «è rinviata di diciotto mesi a partire dalla data di entrata in vigore del presente decreto»; quindi fino al 25 agosto 2024 i curatori dovranno munirsi del domicilio digitale acquistando una PEC sul mercato, come è previsto del resto, in via generale, dall’art. 10, comma 2, c.c.i. per tutti gli organi di gestione, controllo o assistenza nominati nell’ambito delle procedure regolate dal Codice.

Le restanti disposizioni, invece, sono chiaramente finalizzate a rendere maggiormente appetibile per gli imprenditori l’accesso alla composizione negoziata della crisi, disciplinata dagli artt. 12 e segg. c.c.i.

Anzitutto, è ora previsto che nei casi in cui l’imprenditore riesca a raggiungere un accordo con i creditori, ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. a), c.c.i., l’Agenzia delle entrate «può» concedere un piano di rateazione del debito tributario fino a centoventi rate, sempre che risulti una comprovata e grave situazione di difficoltà dell’impresa, dalla documentazione allegata all’istanza che deve essere sottoscritta anche dall’esperto nominato per facilitare la composizione della crisi.

La differenza rispetto al vigente art. 25-bis, comma 4, c.c.i. è che mentre in base a quest’ultima norma la rateizzazione deve essere sempre concessa dall’Agenzia, fino ad un massimo di settantadue rate, quale misura premiale prevista ex lege, nella disposizione in commento la dilazione consentita si estende fino a centoventi rate, ma sulla base di una scelta discrezionale riservata all’amministrazione finanziaria.

Il secondo comma dell’art. 38 in commento stabilisce poi che, a decorrere dalla pubblicazione nel registro delle imprese dei contratti o degli accordi previsti dall’art. 23 c.c.i., si applica la regola dettata dall’art. 26, comma 3-bis, del d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633; il che significa che quando l’accordo raggiunto tra il debitore e i suoi creditori preveda la rinuncia al pagamento del corrispettivo, in tutto o in parte, dovuto dal committente o dal cessionario, il prestatore del servizio o il cedente avranno diritto a portare in detrazione nelle future dichiarazioni l’IVA già versata.

Infine, per accelerare l’accesso alla composizione negoziata, il comma 3 dell’art. 38 stabilisce che – fino al 31 dicembre 2023 – quando si accede alla composizione negoziata della crisi, l’imprenditore può depositare, in luogo delle certificazioni previste dal comma 3, lettere e), f) e g), dell’art. 17 c.c.i., una dichiarazione sostitutiva resa ai sensi dell’art. 46 d.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445, con la quale attesta di avere richiesto, almeno dieci giorni prima della presentazione dell’istanza di nomina dell’esperto, le certificazioni medesime.

Orbene, quelle descritte sono, all’evidenza, singole misure utili a favorire il successo della composizione negoziata, che tuttavia difficilmente riusciranno a sortire l’effetto sperato dal legislatore urgente, cioè quello di aumentare in maniera significativi gli accessi alla composizione negoziata da parte del ceto imprenditoriale italiano.

Ben più efficace, nella direzione di spingere il debitore ad utilizzare lo strumento in discussione, sarebbe stata l’introduzione nell’ambito della composizione negoziata di forme transattive relative al debito fiscale e previdenziale.

E invero, una tra le bozze del decreto-legge circolate nei giorni precedenti all’approvazione del testo definitivo, prevedeva che l’imprenditore, già entrato nella fase di composizione negoziata, potesse formulare proposte di non meglio precisati “accordi transattivi” all’Agenzia delle entrate, all’AdER, all’INPS e all’INAIL, che prevedessero il pagamento, parziale o anche solo dilazionato, del debito e dei relativi accessori in misura non inferiore al pagamento previsto in caso di apertura della liquidazione giudiziale.

Queste proposte transattive, sempre condizionate al raggiungimento di un contratto o di un accordo con gli altri creditori, sarebbero state efficaci mediante il loro inserimento in un processo verbale sottoscritto dalle parti (debitore e amministrazioni interessate), dal giudice e dal cancelliere.

Ancora una volta, nel progetto poi naufragato al momento dell’approvazione finale del testo del decreto, il tribunale veniva chiamato a sostituirsi all’Amministrazione nel formulare un giudizio di convenienza, in quanto era previsto che, sentito l’esperto sul fatto che le trattative in corso si fossero svolte secondo correttezza e buona fede, sarebbe stato il giudice monocratico, sentite le parti ed assunte sommarie informazioni, a valutare in relazione alla proposta formulata dal debitore, da un lato, «la convenienza rispetto alla liquidazione giudiziale» e dall’altro «l’assenza di pregiudizio per gli altri creditori».

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