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Avv. Maria Benedetta Carosi.

La vicenda

Nell’estate del 2006, V.T. e la s.r.l. F. & F. concludevano un contratto di vendita d’uva, per il quale quest’ultima versava un acconto di 20.000,00 euro. A causa della cattiva qualità della merce, il prezzo veniva ridotto a complessivi euro 80.000,00 (come da fattura dell’agosto 2006) e la s.r.l. corrispondeva la residua somma di euro 60.000,00.

Nel luglio 2007, con ricorso monitorio, V.T. domandava il pagamento dell’ulteriore somma di euro 46.000,00 , documentata da una seconda e successiva fattura commerciale, pari alla differenza tra il prezzo originariamente pattuito e quanto corrisposto dalla s.r.l. F. & F.

Quest’ultima si opponeva, deducendo che, a causa della cattiva qualità della merce e per evitare un contenzioso, il contratto a suo tempo concluso era stato risolto consensualmente, addivenendosi ad una riduzione del prezzo a quintale e quindi ad una riduzione del prezzo complessivo, con conseguente infondatezza del credito intimato. V.T. replicava trattarsi piuttosto di due distinte forniture d’uva, rispettivamente con vendita ‘in blocco’ e ‘a peso’. All’esito della prova testimoniale, il Tribunale riteneva mancante la prova del credito azionato ed accoglieva l’opposizione.

Nel giudizio di secondo grado promosso da V.T., la risoluzione del primo contratto di vendita con rideterminazione del prezzo, allegata a fondamento dell’opposizione, veniva qualificata dalla Corte d’Appello come transazione, dal momento che si era preso atto dei vizi della merce venduta e si era operata una riduzione del corrispettivo per dirimere il contrasto fra le parti, determinando così l’estinzione del primo accordo e la costituzione di un nuovo programma obbligatorio, con effetto novativo.

La predetta transazione, tuttavia, avrebbe dovuto essere provata per iscritto, ai sensi dell’art. 1967 c.c., e non già mediante testimoni, motivo per il quale la Corte respingeva l’opposizione a decreto ingiuntivo.

Avverso tale pronuncia, la s.r.l. F. & F. ricorreva in Cassazione, denunciando in primis la violazione dell’art. 111 Cost., dell’art. 1967 c.c. e degli artt. 157 e 345 c.p.c., per avere la Corte d’Appello dichiarato la nullità o la inutilizzabilità della prova testimoniale ammessa ed espletata in primo grado. L’art. 1967 c.c. richiede infatti la forma scritta soltanto ad probationem e pertanto la relativa carenza non avrebbe potuto essere rilevata d’ufficio dal giudice, senza che le parti avessero eccepito alcunché al riguardo né al momento dell’ammissione, né al momento dell’espletamento, né dopo l’assunzione della prova per testi, né con l’atto di appello.

Il contrasto interpretativo

La Seconda Sezione civile, con ordinanza interlocutoria n. 30244/2019 del 20 dicembre 2019, disponeva la trasmissione al Primo Presidente per la rimessione delle decisione alle Sezioni Unite, ravvisando un possibile contrasto interpretativo nella giurisprudenza delle sezioni semplici.

Secondo il più diffuso orientamento giurisprudenziale, in materia di limiti alla prova testimoniale occorre distinguere fra atti e contratti per i quali la forma scritta è richiesta per la validità o invece soltanto per la prova (da ultimo cfr. Cass. Sez. L, 3 giugno 2015, n. 11479; Cass. Sez. 1, 25 giugno 2014, n. 14470; Cass. Sez. 3, 30 marzo 2010, n. 7765).

Nel primo caso, la prova testimoniale dell’esistenza del negozio è del tutto inammissibile, salvo che nell’ipotesi di perdita incolpevole del documento, e tale inammissibilità può essere dedotta in ogni stato e grado del giudizio ed essere rilevata anche d’ufficio,

Al contrario, nei casi un cui la forma scritta sia richiesta ad probationem tantum, l’inammissibilità della prova testimoniale non può essere rilevata d’ufficio, poiché si ritiene che essa non attenga all’ordine pubblico ma alla tutela di interessi meramente privati. Ove, pertanto, la parte interessata non abbia tempestivamente sollevato la relativa eccezione, secondo la scansione temporale prevista dall’art. 157 c.p.c., comma 2, la prova eventualmente assunta dovrebbe considerarsi ritualmente acquisita, restando preclusa al giudice dell’impugnazione ogni indagine ex officio in punto di ammissibilità della prova per testimoni.

Tuttavia, nella giurisprudenza della Suprema Corte è ravvisabile anche una contrapposta interpretazione (Cass. Sez. 3, 14 agosto 2014, n. 17986) secondo la quale, in virtù della disciplina unitaria della prova testimoniale che l’art. 2725 c.c. detta con riferimento agli atti per i quali è richiesta la prova per iscritto o la forma scritta, «quando, per legge o per volontà delle parti, sia prevista per un certo contratto la forma scritta ad probationem, la prova testimoniale che abbia ad oggetto, implicitamente o esplicitamente, l’esistenza del medesimo è inammissibile, salvo che non sia volta a dimostrare la perdita incolpevole del documento…». Né tale inammissibilità potrebbe dirsi sanata dalla mancata tempestiva opposizione della parte interessata, riguardando la sanatoria per acquiescenza soltanto le decadenze e le nullità previste dall’art. 244 c.p.c. in tema di “modo di deduzione” della prova testimoniale e non anche la prova testimoniale illegittimamente ammessa.

La decisione delle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, aderendo all’orientamento giurisprudenziale più diffuso, ribadiscono come il limite posto dall’art. 2725 c.c., al pari degli altri limiti legali di ammissibilità della prova testimoniale dei contratti (artt. 2721, 2722 e 2723 c.c.), non attenga agli effetti sostanziali dell’atto e non sia posto nell’interesse pubblico al corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, ma sia piuttosto dettato «nell’esclusivo interesse delle parti litiganti, le quali hanno perciò piena facoltà di rinunciare, anche tacitamente, e cioè con il loro comportamento processuale, alla sua applicazione».

Pertanto, ove l’interessato non abbia eccepito in primis l’inammissibilità della deduzione istruttoria e poi la conseguente nullità della prova per testimoni comunque assunta, «tale nullità non potrà più essere rilevata o eccepita per la prima volta in appello, e, tanto meno, in sede di legittimità».

A motivo della propria decisione, le Sezioni Unite sottolineano in particolare come il requisito della prova scritta abbia natura meramente processuale e precluda il ricorso alla testimonianza a prescindere dal valore del contratto, ma non impedisca tuttavia il ricorso «ad altri mezzi, quali la confessione od il giuramento, né (…) l’esecuzione volontaria, la conferma o la ricognizione volontaria del negozio».

D’altra parte, l’applicazione del principio di “non contestazione” ha frequentemente portato la giurisprudenza ad affermare che, qualora siano pacifici tra le parti la stipula di una transazione e il suo contenuto (salvo quando riguardi uno dei rapporti di cui all’art. 1350 c.c., n. 12), il giudice deve reputare tali fatti non bisognosi di prova e tenerne conto ai fini della decisione, a nulla rilevando la mancata produzione di un atto sottoscritto dai contraenti idoneo a documentare la conclusione dell’accordo (Cass. Sez. 3, 19 ottobre 2006, n. 22395; Cass. Sez. 3, 12 dicembre 2003, n. 19052; Cass. Sez. 2, 13 aprile 1999, n. 3621).

Osservano a questo proposito le Sezioni Unite che «così come la non contestazione della stipula e del contenuto di un contratto scritto ad probationem, pur non surrogando la prova di tali fatti, rende la stessa superflua, può avvenire che le parti di un simile contratto, per quanto in disaccordo sui diritti e sugli obblighi da esso derivanti, non si oppongano al ricorso alla prova testimoniale, non facendo valere il limite di ammissibilità di cui all’art. 2725 c.c., comma 1».

Per le ragioni esposte, il motivo di ricorso proposto dalla F. & F. s.r.l. viene accolto dalle Sezioni Unite che, cassando con rinvio la sentenza impugnata, enunciano il seguente principio di diritto: «L’inammissibilità della prova testimoniale di un contratto che deve essere provato per iscritto, ai sensi dell’art. 2725, comma 1, c.c., attenendo alla tutela processuale di interessi privati, non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima dell’ammissione del mezzo istruttorio; qualora, nonostante l’eccezione d’inammissibilità, la prova sia stata egualmente assunta, è onere della parte interessata opporne la nullità secondo le modalità dettate dall’art. 157, comma 2, c.p.c., rimanendo altrimenti la stessa ritualmente acquisita, senza che detta nullità possa più essere fatta valere in sede di impugnazione».

Allegato:

Cassazione civile sezioni unite sentenza n.16723 2020

 

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