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Inammissibilità del ricorso per la dichiarazione di fallimento in assenza di una pronuncia di risoluzione del concordato pendente.

Recentemente la risoluzione del concordato preventivo ha assunto una posizione di spicco all’interno del dibattito circa le soluzioni negoziali della crisi. Il presente scritto ha, nello specifico, lo scopo di esaminare la questione riguardante la possibilità di dichiarare o meno il fallimento del debitore in assenza di risoluzione del concordato preventivo pendente, alla luce degli sviluppi che hanno interessato l’attuale dibattito dottrinale e giurisprudenziale in materia.

A tal riguardo, degna di nota risulta essere il decreto emesso dal Tribunale di Campobasso in data 14 febbraio 2019, n. 4824 concernente la particolare questione inerente il fallimento c.d. “omisso medio”.

Il Tribunale molisano ricalca il percorso argomentativo che ha spinto la più recente giurisprudenza (Tribunale di Pistoia, Decreto del 21.12.2017) a dichiarare inammissibile la richiesta di fallimento promossa nel corso dell’esecuzione del concordato preventivo omologato. La domanda di fallimento proposta contro il debitore concordatario ha consentito al Tribunale di rielaborare il dibattuto tema del fallimento c.d. “omisso medio”, consistente nella dichiarazione di fallimento di un soggetto in concordato, senza la previa risoluzione del concordato stesso, ex art. 186 L. fall. La questione attiene evidentemente al ricorso per la dichiarazione di fallimento fondato sulla medesima insolvenza posta alla base del concordato preventivo, non sussistendo ostacoli all’accoglimento dell’istanza di fallimento avanzata da creditori con titolo posteriore al concordato stesso in relazione a una nuova insolvenza.

Il decreto in esame si indirizza decisamente a favore di quell’orientamento giurisprudenziale più “tradizionale” secondo il quale la domanda di fallimento del debitore concordatario sarebbe inammissibile in difetto della previa risoluzione del concordato; orientamento questo disatteso dai Giudici di legittimità soltanto nell’ipotesi in cui il creditore intenda far valere, in sede fallimentare, il credito falcidiato e non l’intero (“..l’azione esperita dal creditore costituisce legittimo esercizio della propria autonoma iniziativa ai sensi dell’art. 6, L.F., non condizionata dal precetto di cui all’art. 184 L.F. e dunque a prescindere dalla risoluzione del concordato preventivo, il cui procedimento andrebbe attivato solo se l’istante facesse valere non il credito nella misura ristrutturata, ma in quella originaria” – Cass. 17 luglio 2017, n. 17703, e Cass. 11 dicembre 2017, n. 29632). Ebbene, nel caso analizzato dal Tribunale di Campobasso, il creditore istante ha proposto l’istanza di fallimento per il complessivo credito vantato, e non già per l’importo falcidiato, perdendo, dunque, l’opportunità di sottrarsi all’imprescindibile dichiarazione giudiziale preventiva di risoluzione del concordato pendente in fase di esecuzione, ex art. 186 L.F., necessaria tutte le volte in cui l’istante agisca contro il debitore concordatario in sede fallimentare, per il recupero dell’intero credito vantato. Dunque, nessun dubbio residua in merito all’inammissibilità del ricorso per la dichiarazione di fallimento volto ad ottenere il recupero dell’intero credito vantato dalla società istante; quest’ultima, infatti, se avesse voluto giovarsi del (comunque non condiviso) orientamento della Cassazione sopra citato, tuttalpiù avrebbe dovuto agire per il recupero non dell’intero originario importo, ma esclusivamente per la quota falcidiata inserita nel piano concordatario ed offerta in moneta concordataria ai creditori chirografari.

Lo scenario muove da un’analisi concreta delle norme concordatarie di cui all’art. 184 L. fall. in punto di obbligatorietà del concordato per tutti i creditori anteriori allo stesso e di cui all’art. 186 L. fall. in tema di risoluzione del concordato. Quanto, poi, al rapporto intercorrente tra l’art. 6 e gli artt. 184 e 186 L. fall. andrebbe considerata la specialità di quest’ultima norma rispetto alla generale previsione dell’iniziativa fallimentare. Di qui, la necessità di un “coordinamento” tra la risoluzione del concordato e il fallimento: il creditore sarebbe, quindi, legittimato a chiedere il fallimento del debitore, ma solo a seguito della risoluzione del concordato. Il coordinamento tra concordato e fallimento è, peraltro, come rilevato dai Giudici di merito, già attuato dalla giurisprudenza anche di legittimità in pendenza di una domanda concordataria. In tal senso “finché la procedura di concordato preventivo non ha avuto un esito negativo, il creditore che ha chiesto di regolare la crisi attraverso il fallimento non può ottenere la relativa dichiarazione” (Cass. 1169/2017, nello stesso senso Cass. 9050/2016). Secondo la Corte Suprema, tale interpretazione appare armonica rispetto ad una latitudine dei poteri del debitore che vanno esplicitati dentro il solo perimetro della domanda, della proposta e del piano di concordato. Per cui deve ribadirsi il principio secondo cui: “la pendenza di una domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, ai sensi della L. Fall., articolo 161, comma 6, impedisce temporaneamente la dichiarazione di fallimento sino al verificarsi degli eventi previsti dalla L. Fall., articoli 162, 173, 179 e 180”.

È noto come, di fatto, sussista una preclusione alla dichiarazione di fallimento ogniqualvolta il debitore presenti domanda di concordato, preclusione che si traduce in un’improcedibilità temporanea e parziale (essendo precluso l’accoglimento ma non il rigetto dell’istanza di fallimento).

A fronte di ciò, si evidenzia quanto sia irragionevole negare al concordato preventivo omologato in pendenza della fase di esecuzione, gli effetti preclusivi propri, invece, di una mera domanda concordataria. Senza contare che, a seguito dell’omologa, tra debitore e creditori anteriori vige, a tutti gli effetti, un accordo risultante dall’incontro tra la proposta concordataria e il voto favorevole alla stessa, vincolante ai sensi dell’art. 184 L. fall., proiezione concorsuale del principio civilistico di cui all’art. 1372 cod.civ.”.

Da ultimo, secondo il Tribunale di merito, la facoltà di perseverare per il fallimento sulla base dei requisiti stabiliti dagli artt. 1 e 5 L. fall., avrebbe effetti inconciliabili con il dettato di cui all’art. 186 L. fall.: per assurdo, con riguardo al medesimo debitore, potrebbe essere rigettata la domanda di risoluzione del concordato per scarsa importanza dell’inadempimento e, al contempo, essere accolta l’istanza di fallimento per ricorrenza degli usuali requisiti di insolvenza.

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Il percorso argomentativo seguito dal Tribunale tocca diversi punti critici in merito all’istituto della risoluzione del concordato.

Come osservato, il tema centrale del Decreto riguarda la possibilità di presentare istanza di fallimento di un debitore soggetto a concordato, in relazione al quale non sia ancora scaduto il termine per la risoluzione ex art. 186 L. fall., corrispondente ad un anno dalla scadenza del termine fissato per l’ultimo adempimento previsto dal medesimo concordato. Il dies a quo del termine predetto condiziona l’effettività del rimedio, nel senso che l’indeterminatezza del decorso dello stesso può di fatto pregiudicare le esigenze di tutela dei creditori di fronte a un concordato inadempiuto. Ciò può concretamente accadere laddove il termine per domandare la risoluzione sia agganciato alla effettiva chiusura dell’attività liquidatoria anziché alle previsioni indicate nella proposta concordataria, come del resto stabilito nel Decreto in commento. La differente soluzione offerta dai giudici di legittimità, in virtù della quale il singolo creditore potrebbe instare, in ogni momento, per il fallimento del debitore concordatario (a condizione che richieda, però, il credito falcidiato), va oltre il dettato normativo, di fatto privando l’art. 186 l. fall. di ogni concreta rilevanza pratica. Per tale ragione, pare condivisibile l’opposto orientamento del Tribunale di Pistoia: il creditore può sciogliersi dal vincolo del concordato solo tramite la risoluzione dello stesso, in linea con la natura contrattuale della proposta concordataria votata (ergo: accettata) dai creditori.

Se così fosse, e se la fase patologica del concordato debba essere, quindi, regolata al pari di un contratto, non v’è ragione di trattare differentemente la fase fisiologica del concordato stesso: le indicazioni temporali contenute nella proposta concordataria dovrebbero ritenersi non mere previsioni – come sostenuto dal Tribunale di Pistoia – ma a tutti gli effetti assunzioni di specifici obblighi da parte del debitore, con la conseguenza che il dies a quo del termine per la domanda di risoluzione del concordato dovrebbe essere individuato nel momento della scadenza del termine per la liquidazione dei beni indicato nella proposta.

Diversamente, a fronte del protrarsi delle operazioni liquidatorie per lungo tempo, il creditore si vedrebbe, nella sostanza, preclusa la possibilità di azionare il rimedio risolutorio per un periodo potenzialmente indefinito.

Si deve tenere in debito conto, inoltre, dell’assenza di una norma che, nell’ambito del concordato preventivo, facoltizzi i creditori a chiedere la “conversione” in fallimento di un concordato inadempiuto, ma non risolto.

Non sembra, inoltre, decisivo riferirsi all’art. 6 (e ai soggetti da esso legittimati) come regola valevole in tutte le situazioni di insolvenza. Ed invero, l’art. 186 si pone in rapporto di specialità rispetto alla norma generale dell’art. 6, che trova appunto applicazione nella misura in cui non vi sia una lex specialis a disporre diversamente. La disciplina del concordato non consente di agire nei confronti del debitore per l’esatto adempimento degli obblighi concordatari (nel cui ambito si potrebbe essere tentati di far rientrare l’istanza di fallimento), bensì esclusivamente – come si è visto – per la risoluzione del concordato, dalla quale soltanto può scaturire il successivo – e consequenziale – fallimento. Ferma, peraltro, la facoltà dei creditori, nell’ipotesi di concordato inadempiuto (ma non è questo il nostro caso) e non risolto, di tornare a poter agire in executivis sui beni del debitore (donde la sussistenza di una loro effettiva tutela, seppur diversa dal fallimento).

Né può invocarsi, a confutazione dell’assunto che precede, il rimando all’art. 15 operato dall’art. 137, a sua volta richiamato dall’art. 186, in quanto esso concerne, con tutta evidenza, profili meramente procedimentali inidonei, come tali, a incidere sulla soluzione del problema in esame.

Deve ancora osservarsi, a ulteriore supporto della tesi qui propugnata, che lo stato di crisi/insolvenza che ha dato luogo alla procedura concordataria viene rimosso, com’è noto, dall’effetto esdebitatorio dell’omologazione, da cui deriva il ritorno in bonis dell’impresa. Non basta, quindi, il pur conclamato inadempimento a concretare un’insolvenza che soltanto la risoluzione del concordato può far rivivere. L’impresa, dunque, non può essere dichiarata fallita se non sulla scorta di una nuova insolvenza generatasi per effetto di obbligazioni contratte successivamente all’omologazione e rimaste inadempiute.

Senza dire, infine, del non trascurabile inconveniente connesso alla mancata risoluzione del concordato, dal momento che lo stato passivo fallimentare non potrebbe riflettere, in tal caso, il venir meno dell’esdebitazione (che si produce solo nell’ipotesi di risoluzione) nonostante il conclamato inadempimento del debitore. E neppure dell’ulteriore inconveniente connesso all’incremento dei costi – a fronte di benefici oggettivamente limitati – scaturente dall’apertura di una nuova procedura concorsuale, con conseguente ulteriore erosione dell’attivo a disposizione dei creditori; per tacer dei dubbi sollevabili in ordine all’effettività dell’interesse concreto a provocare il fallimento.

Dalle considerazioni di tipo sistematico che precedono, oltre che dall’esigenza di evitare forzature interpretative come quelle insite nella tesi della dichiarazione di fallimento omisso medio e testé poste in evidenza, deriva la necessità della previa risoluzione del concordato per poter addivenire al fallimento. Declaratoria, questa, che può, peraltro, essere provocata dal debitore stesso o dal pubblico ministero tutte le volte in cui il creditore chieda e ottenga la risoluzione del concordato senza instare, né contestualmente, né in un momento successivo, per il fallimento. 

Non sarebbe in alcun modo pertinente l’eventuale richiamo alla risalente pronuncia della Corte Costituzionale (Corte. Cost. nr. 106 del 02.04.2004) che ebbe a rendere plausibile un’interpretazione del sistema secondo cui, accanto al fallimento “in consecuzione” della risoluzione del concordato, potrebbe configurarsi un’autonoma dichiarazione di fallimento. La natura della decisione oggi appare del tutto superata alla luce della successiva evoluzione dell’istituto concordatario.

Il sistema di riferimento della decisione della Corte Costituzionale era quello anteriore alle riforme del 2005 e del 2006, il concordato era ancora pervaso da connotazioni pubblicistiche, il fallimento d’ufficio era considerata la regola, sancita dall’art. 186 L.F., in un contesto culturale e normativo in cui non appariva predicabile un concordato inadempiuto senza fallimento; ma, una volta esaurita la stagione della eteronomia giudiziale ed inaugurata quella di un diverso concordato preventivo – caratterizzato da una natura prevalentemente negoziale e privatistica e dall’autonomia della valutazione dei creditori in merito all’esito della ristrutturazione proposta –, il risalente precedente non è più spendibile, semmai denotando il suo richiamo, in termini di attualità, un’intrinseca carenza argomentativa (cfr. sulla evoluzione in senso privatistico del concordato preventivo: Cass. S.U. 9935/15; Cass. S.U. 1521/2013; Cass. 11014/13; Cass. 13083/13).

Per completezza espositiva si evidenzia come l’unica ulteriore e residuale ipotesi in cui la dichiarazione di fallimento può coesistere e “scavalcare” il concordato in fase di esecuzione non risolto attiene alla richiesta di auto fallimento presentata dalla società concordataria, in relazione a rapporti afferenti la prosecuzione dell’attività di impresa nell’ambito di un concordato misto (Tribunale di Napoli Nord in data 29.04.2016).

(Altalex, 1° marzo 2019. Nota di Nicola Lucarelli)

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