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L’appalto in condominio, inteso come negozio giuridico attraverso il quale un soggetto privato rappresentato dall’amministratore/committente affida all’impresa appaltatrice l’esecuzione di determinate opere, non deve necessariamente essere redatto per iscritto e, nel caso di contenzioso giudiziario insorto tra le parti in ordine all’eventuale inadempimento di una delle due, il giudice può ricorrere per la decisione della controversia sia alle prove per testi che a presunzioni gravi, precise e concordanti. Questi principi sono stati, di recente, ribaditi dalla Cassazione nell’ordinanza 2386/2023 .

I fatti di causa

La vicenda trae origine dall’opposizione proposta dal committente, davanti al Tribunale di Catania, contro il decreto ingiuntivo ottenuto dall’appaltatore per il saldo del compenso pattuito, e non integralmente corrisposto, per l’esecuzione di lavori di manutenzione (ordinaria e straordinaria) sulla copertura dell’immobile di proprietà dell’attore. In particolare, l’opponente chiedeva la revoca del decreto ingiuntivo e proponeva contestuale domanda riconvenzionale nei confronti del creditore, per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni riportati dall’immobile, a causa delle infiltrazioni d’acqua derivanti dall’esecuzione non a regola d’arte dei lavori appaltati.Il Tribunale ha dichiarato improcedibile l’opposizione ed espletata la consulenza tecnica d’ufficio, ha accolto la domanda riconvenzionale formulata dal committente, condannando il titolare della ditta esecutrice dei lavori al richiesto risarcimento dei danni cagionati all’immobile della controparte.

Senza contratto, appaltatore responsabile per la cattiva esecuzione delle opere

Contro la sentenza sfavorevole ha proposto appello il soccombente, davanti alla Corte distrettuale di Catania, deducendo che il primo giudice avesse erroneamente presupposto che gli interventi eseguiti non a regola d’arte fossero stati tutti di ristrutturazione del tetto dell’immobile. Al contrario, si era limitato, per un parte dello stesso, a una semplice manutenzione e, per questo, gli altri danni accertati non potevano essergli attribuiti. La Corte d’appello, invece, pur riducendo l’importo del risarcimento liquidato, confermava la sentenza di primo grado in ordine alle responsabilità per la cattiva esecuzione delle opere, sul presupposto che, in mancanza di un contratto stipulato e sottoscritto tra le parti, l’appaltatore, la cui difesa era risultata carente sul piano probatorio, doveva ritenersi responsabile per l’intera, presupposta, cattiva esecuzione.

Secondo il giudice d’appello, in assenza di un documento dal quale desumere con precisione il contenuto delle obbligazioni contrattuali, l’appaltatore, per essere liberato da responsabilità, avrebbe dovuto dimostrare di aver agito solo secondo le indicazioni ricevute dal committente e, comunque, quale nudus minister. Contro questa pronuncia, dunque, il soccombente proponeva ricorso, chiedendone la cassazione.

Il contratto d’appalto non richiede forma scritta

L’orientamento della giurisprudenza di legittimità è pacifico nel senso di ritenere che la stipula del contratto d’appalto tra privati (quale deve ritenersi a tutti gli effetti un condominio) non richiede la forma scritta, ben potendo lo stesso essere concluso (e provato) anche per fatti concludenti (Cassazione civile, sentenza 2303/2017). Ne consegue, ad avviso della Cassazione, che la prova del contratto (e del suo contenuto) possa essere fornita per testimoni e presunzioni che siano gravi, precise e concordanti, laddove la precisione va riferita al fatto storico noto che deve costituire il punto di partenza del ragionamento induttivo da seguire. La gravità va ricollegata al grado di probabilità che sussista effettivamente il fatto ignoto, desumibile da quello noto, e la concordanza va intesa come pluralità di indizi gravi e precisi, tutti univocamente convergenti nel senso della dimostrazione dell’esistenza del fatto non conosciuto.

L’errore dei giudici di merito secondo gli ermellini

Nel caso di specie, la Corte di merito ha, invece, fatto errata applicazione del ragionamento presuntivo, in quanto ha desunto l’inadempimento del titolare della ditta (fatto ignoto) da un elemento (la mancanza della prova del contenuto del contratto) che non poteva costituire, per sua stessa natura, il fatto storico integrante gli estremi (e la prova) dell’altrui negligenza. Il giudice avrebbe, piuttosto, dovuto considerare a fini probatori ulteriori elementi, come le voci indicate nel conto finale dei lavori e l’elenco prezzi da cui risultava una spesa di soli 900 euro. Da questi elementi, gravi, precisi e concordanti, avrebbe effettivamente potuto desumere che il contratto, di modesta entità, non poteva riguardare opere straordinarie da effettuarsi per l’intera estensione del tetto, come sostenuto in primo e in secondo grado dall’esecutore. Sulla scorta di queste considerazioni, dunque, la Suprema corte ha cassato la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinviato il giudizio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Catania in diversa composizione.

 

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