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L’art. 77 del DLgs. 14/2019 (CCII) costituisce norma di presidio all’accesso alla procedura disponendo che la domanda di concordato minore sia inammissibile se mancano i documenti di cui agli artt. 75 e 76, se il debitore presenta requisiti dimensionali che eccedono i limiti di cui all’art. 2 comma 1 lett. d) nn. 1), 2) e 3), se è già stato esdebitato nei cinque anni precedenti la domanda o ha già beneficiato dell’esdebitazione per due volte o se risultano commessi atti diretti a frodare le ragioni dei creditori. La disposizione replica, come anche emerge dalla lettura della Relazione illustrativa, alcune limitazioni già presenti nella procedura di ristrutturazione dei debiti del consumatore, tra cui anche i casi di frode accertata.

Il tema da trattare attiene, dunque, alla corretta interpretazione del concetto di “atti diretti a frodare le ragioni dei creditori” sul quale è, di recente, intervenuto il Tribunale di Nola, dapprima in sede monocratica (provv. del 1° marzo 2024) e poi in composizione collegiale (provv. del 13 maggio 2024), a seguito di proposto reclamo, con due pronunce che meritano attenzione sotto altrettanti diversi profili.

Nel primo dei provvedimenti in commento il giudice adito, chiamato a pronunciarsi in ordine all’ammissibilità di una domanda di concordato minore, proposta a seguito di precedente ricorso per l’apertura della liquidazione controllata da un debitore per il quale era stata accertata la sua responsabilità in sede sia civile che penale, ha “ritenuto che tra gli atti diretti a frodare le ragioni dei creditori non possano non essere inclusi i fatti distrattivi e dissipativi di decine di centinaia di migliaia di euro oggetto della sentenza penale definitiva, commessi ai danni della società (il cui fallimento è il principale creditore del ricorrente) e dei suoi creditori”.
In questo modo è stata ritenuta causa di inammissibilità ai sensi dell’art. 77 comma 1 del CCII, e come tale preclusiva all’accesso, la commissione di atti depauperativi del patrimonio della società da questi amministrata, facendo rientrare così nel concetto di frode accertata anche i fatti distrattivi e dissipativi di rilevante dimensione commessi in danno del ricorrente, accertati con sentenza penale definitiva. Ciò, a ben vedere, consente di ritenere rilevante non solo la condotta decettiva, ma anche la valutazione del comportamento precedentemente assunto dal debitore, foriero di responsabilità nei confronti del medesimo ricorrente.

La questione è stata, poi, sottoposta al giudicato del Tribunale, investito del reclamo ai sensi dell’art. 739 c.p.c., attraverso la formulazione di due principali motivi di doglianza. Ad avviso del ricorrente il giudice adito avrebbe errato, da un canto, per aver sovrapposto il requisito della “meritevolezza” e la nozione di atti in frode espressamente richiamata dall’art. 77 del CCII e, dall’altro, per non aver considerato che gli atti diretti a frodare le ragioni dei creditori debbano essere soltanto quelli posti in essere dopo il momento genetico del sovraindebitamento.

Il Tribunale, dopo essersi interrogato se è “possibile sussumere nella nozione di atti in frode anche fatti di rilevanza penale commessi nei confronti del principale creditore della procedura”, giunge a ritenere che, dinanzi alla sussistenza di illeciti gestori accertati con giudizi a cognizione piena tanto in sede civile quanto soprattutto in sede penale, vada considerata integrata la condizione ostativa all’accesso alla procedura di concordato minore della sussistenza degli atti in frode ai sensi dell’art. 77 del CCII, così, di fatto, confermando pienamente la valutazione del giudice di prime cure.

Il principio che si ricava in via più generale è che, ai fini della verifica della sussistenza di atti in frode, il giudice del sovraindebitamento può valutare la presenza di illeciti penali, sia laddove già sottoposti a un giudizio a cognizione piena, sia nell’ipotesi in cui manchi un accertamento definitivo sul punto.

Ciò posto, l’ordinanza del Tribunale risulta di interesse anche per l’ulteriore profilo della competenza a trattare il reclamo, tra l’altro scrutinato in via preliminare. Il collegio, dopo aver ripercorso i contrapposti orientamenti, ha ritenuto esistente la sua piena competenza in ragione del carattere “preliminare” del decreto di inammissibilità, che si pronuncia sulla sussistenza delle “precondizioni minime per aprire il procedimento” nell’ambito di un percorso a formazione progressiva, in cui il giudice acquisisce elementi conoscitivi da soggetti interessati che possono portare a decisioni rilevanti; con ciò tenendo su piani separati l’“inammissibilità” (di competenza del Tribunale) e il “merito” (rimesso invece alle valutazioni della Corte d’Appello).
Questo non senza far rilevare la continuità di tale orientamento rispetto alla L. 3/2012, che prevedeva all’art. 12-bis la reclamabilità in sede collegiale dei provvedimenti resi dal Tribunale in composizione monocratica, nonché il procedimento camerale di cui agli artt. 737 ss. c.p.c.

 

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